Sermoni Domenicali

LITANIE ( O ROGAZIONI)

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: «Se uno di voi ha un amico [e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti. E se quegli dall'interno gli risponde: Non m'importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza.
    Ebbene, io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà un sasso? O se gli chiede un pesce gli darà una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!]» (Lc 11,5-13).
    In questo vangelo sono posti in evidenza tre argomenti: - la richiesta del pane, - l'insistenza nella preghiera, - l'amore del padre verso il figlio.

2. «Se uno di voi ha un amico». Vedremo il significato di queste sei cose: l'amico, la notte, i tre pani, l'amico che torna da un viaggio, la porta chiusa, e i bambini che sono a letto col padre.
    L'amico - in lat. amicus, che suona quasi come animi custos, custode dell'animo - è Gesù Cristo, che, se non è lui che custodisce l'animo, invano veglia chi lo custodisce (cf. Sal 126,1). Leggiamo nell'Ecclesiastico: «Un amico fedele è una protezione potente: chi lo trova, trova un tesoro. Nulla è paragonabile a un amico fedele, e non c'è peso d'oro e d'argento che possa contrapporsi al valore della sua fedeltà» (Eccli 6,1415); e più avanti continua: «Non abbandonare un vecchio amico, perché quello recente non è uguale a lui» (Eccli 9,14): l'amico recente simboleggia il diavolo, che si avvantaggia nei cambiamenti.
    Il vero amico nostro è Gesù Cristo, che ci ha amati tanto da dare per noi la sua vita (cf. Gal 2,20). Pensa quale amico fedele sarebbe colui che, vedendoti in punto di morte, si offrisse per te e prendesse volentieri su di sé la tua malattia e la tua morte! Si legge nella Storia Naturale che la calandra (l'allodola), uccello tutto bianco, le cui interiora curano l'annebbiamento (la cataratta) degli occhi, fissa lo sguardo su di un ammalato se questi è destinato a sopravvivere, perché questo fatto è presagio della sua guarigione: quest'uccello si avvicina al volto dell'infermo, assorbe e prende su di sé la sua malattia, quindi vola in cielo e lì, tra i raggi infuocati del sole, la disperde e la distrugge. Così Cristo, amico nostro, tutto bianco perché assolutamente immune da ogni ombra di peccato, con il sangue che uscì dalla ferita del suo costato, guarì l'offuscamento della nostra anima, che prima non poteva vedere con chiarezza. Per questo è detto che il sangue estratto dal fianco di una colomba rimuove la macchia dell'occhio (Plinio).
    Gesù Cristo, con gli occhi della sua misericordia, guardò fissamente il genere umano malato, e questo fu il segno della nostra salvezza; si avvicinò a noi, prese su di sé la nostra infermità, salì sulla croce, e lì nel fuoco ardente della sua passione consumò e distrusse i nostri peccati. Fu dunque veramente nostro amico, e di lui è detto: «Se uno di voi ha un amico, e va da lui a mezzanotte».
    La notte, chiamata in lat. nox perché nuoce agli occhi, è simbolo della tribolazione o della tentazione, che ostacola l'occhio della ragione. Dice Giobbe della notte: «Quella notte sia di solitudine e non sia degna di lode» (Gb 3,7). La notte della tentazione è «di solitudine» quando non trova consenso nell'uomo, e «non è degna di lode» quando l'uomo non l'asseconda e non l'approva. Acconsente alla tentazione e l'approva colui che quando essa si presenta l'accoglie e, accoltala, se ne compiace con l'immaginazione della mente. In tale notte devi andare da Cristo, tuo amico, e dirgli: «Amico, prestami tre pani».
    I tre pani simboleggiano la triplice grazia della compunzione. La prima consiste nel ricordo della propria fragilità e della propria malizia; la seconda nella considerazione dell'esilio di questa vita terrena; la terza nella contemplazione del creatore. Questi tre pani chiede che gli siano prestati [chi è tentato].
    Prestare vuol dire dare una cosa, con la condizione che venga restituita. Tutto ciò che abbiamo nell'ambito della grazia lo riceviamo da Dio e a lui dobbiamo restituirlo. «Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria» (Sal 113B,1). Sei povero, non hai il pane della compunzione: chiedilo in prestito all'amico, con il patto di restituirgli ciò che da lui hai ricevuto.
    «Perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti» (Lc 11,6). L'amico che è venuto dal viaggio raffigura l'anima nostra la quale, ogni volta che va in giro alla ricerca delle cose temporali, si allontana da noi: ritorna poi quando medita sulle verità eterne e brama rifocillarsi con il nutrimento celeste. Ma non c'è nulla da metterle dinanzi, perché all'anima, che dopo le tenebre sospira a Dio, nulla più piace se non pensare, parlare e guardare a Dio soltanto. L'anima, quando ricomincia a vedere con chiarezza, fa di tutto unicamente per meditare più profondamente e per giungere al gaudio della Trinità, anche questo simboleggiato nei tre pani.
3. «Ma l'amico dall'interno deve rispondere: Non m'importunare: ormai la porta è chiusa e i miei bambini sono a letto con me» (Lc 11,7). Lo stesso amico nostro è all'interno, e noi miseri stiamo ancora fuori, perché siamo stati allontanati dallo sguardo dei suoi occhi, nella miseria del presente esilio; stiamo fuori, e perciò dobbiamo gridare: «Amico, prestami tre pani». Chiede che gli siano prestati tre pani colui che è oppresso da molte sofferenze. Ecco, sta fuori nel cuore della notte e nell'assoluta necessità di pane; sta fuori davanti alla porta chiusa, chiama e si sente rispondere: «Non importunarmi!», cioè non ho il dovere di preoccuparmi per le tue richieste, perché ormai «la porta è chiusa».
    Troviamo qualcosa di simile nel Deuteronomio: «Il cielo che ti sta sopra sia di bronzo, e la terra che calpesti di ferro. Il Signore mandi sulla tua terra come pioggia la polvere, e dal cielo discenda su di te la cenere, finché sarai schiacciato» (Dt 28,23-24). La porta è chiusa e il cielo diventa di bronzo quando il raggio della grazia divina non illumina più la mente dell'uomo, la cui preghiera non penetra più nel cielo che per lui è diventato di bronzo. «Hai posto davanti a te una nube, perché non giungesse fino a te la preghiera» (Lam 3,44).
    Infatti se il cielo fosse di bronzo e il sole non desse più la sua luce e non cadesse più la pioggia, gli uomini sarebbero avvolti dalle tenebre e perirebbero tutti per la siccità. Così avviene anche quando la porta o il cielo della grazia celeste si chiude, e il peccatore resta nelle tenebre della sua coscienza e rimane privo della pioggia della compunzione; la terra che calpesta, cioè la vita attiva, nella quale lavora e suda, diventa di ferro, quando da essa non ricava alcun frutto di consolazione, ma solo gelo e durezza di mente: il ferro infatti è freddo e duro.
    Alla terra è data la polvere invece della pioggia quando, invece dell'effusione delle lacrime, viene data all'infelice anima la polvere dei pensieri inutili e frivoli, dai quali resta come accecata. Cade su di essa la cenere, quando ricerca solo le cose caduche e periture, dalle quali viene tormentata e distrutta. Quanto dolore e quanta sofferenza! Nella vita contemplativa nessuna dolcezza, in quella attiva nessuna consolazione, nell'orazione l'oscuramento della mente, nelle cose temporali traviamento! Ma si deve forse disperare? Si deve forse desistere dalla preghiera? No, certamente! E anche se la porta della grazia celeste è chiusa, forse lo è a causa dei nostri peccati, oppure è chiusa allo scopo di spronarci ad implorare e a scongiurare con maggiore insistenza. E anche se i bambini, vale a dire se gli spiriti angelici, per mezzo dei quali Dio infonde i doni della sua grazia e manda la consolazione nelle tribolazioni, sono con lui a letto, cioè nella pace eterna, per il fatto che non escono a farci questo servizio - di essi dice l'Apostolo: «Non sono tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono entrare in possesso della salvezza?» (Eb 1,14) -, si deve forse smettere di domandare il pane? «Non posso - dice - alzarmi a darti il pane». Osserva la Glossa: Non toglie la speranza di ottenere ma, dopo averne posto in evidenza la difficoltà, stimola ancor più il desiderio di pregare.
    «Ma se lui persisterà nel bussare, io vi dico... «, ecc. Commenta ancora la Glossa: Se l'amico si alza e gli dà i pani, spinto non dall'amicizia ma solo dalla voglia di liberarsi da quella seccatura, quanto più generoso sarà Dio, il quale senza badare al fastidio, dà nella più larga misura quanto gli si domanda. Perciò, affinché l'anima nostra, convertitasi dalla vanità dell'errore, non languisca più a lungo per la mancanza di aspirazioni spirituali, chiediamo i pani, cerchiamo l'amico che ce li dia, bussiamo alla porta dove sono tenuti nascosti. Dà una grande speranza colui che non inganna con la sua promessa. «Si alzerà almeno a motivo della sua indiscrezione», perché la dura fatica (l'ostinazione) vince tutte le difficoltà, «e gliene darà», con l'infusione della sua grazia, «quanti gliene occorrono», anche se non sempre quanti egli ne vorrebbe.
4. «E io vi dico: Chiedete e vi sarà dato» (Lc 11,9). Dice il profeta Zaccaria: «Chiedete al Signore la pioggia della sera, ed egli manderà la neve; e darà loro piogge abbondanti e a ciascuno erba nei campi» (Zc 10,1).
    Nella neve che è candida e fredda è raffigurato il nitore della castità; nelle piogge abbondanti la compunzione accompagnata dalle lacrime; nell'erba la compassione per le necessità dei fratelli, che sempre deve verdeggiare nel campo del nostro cuore. Queste tre cose dobbiamo chiedere al Signore, anche se non al mattino presto, almeno sul far della sera, cioè in un secondo momento, giacché prima di tutto dovremmo cercare il regno di Dio e la sua giustizia (cf. Mt 6,33; Lc 12,31). I mondani chiedono prima di tutto le cose terrene, e per ultime quelle eterne, mentre prima dovrebbero incominciare dal cielo, dove sta il nostro tesoro, e dove perciò dovrebbe essere anche il nostro cuore (cf. Mt 6,21; Lc 12,34), e anche la nostra domanda.
    «Cercate e troverete» (Lc 11,9). Dice la sposa del Cantico dei Cantici: «Mi alzerò e mi aggirerò per la città: per strade e piazze cercherò colui che la mia anima ama» (Ct 3,2). La città raffigura la patria celeste, nella quale ci sono strade e piazze, vale a dire gerarchie angeliche minori e maggiori. L'anima alzandosi, vale a dire sollevandosi dalle cose terrene, va in giro quando contempla l'ardente amore dei serafini verso Dio, quando osserva la sapienza dei cherubini nei riguardi di Dio, e così degli altri ordini angelici, tra i quali è alla ricerca del suo sposo. Ma poiché egli è molto più in alto di tutti, non lo trova, e quindi è necessario che essa superi con lo sguardo della mente le sentinelle, cioè gli spiriti celesti, per poter trovare il suo amato.
    «Cercate e troverete». Dice Sofonia: «Cercate il Signore voi tutti, umili della terra, che avete praticato i suoi precetti; cercate la giustizia, cercate l'umiltà per trovarvi al riparo nel giorno della sua ira» (Sof 2,3). E Amos: «Cercate il Signore e vivrete. Non rivolgetevi a Betel, non andate a Gàlgala e non passate a Bersabea» (Am 5,4-5). I figli d'Israele avevano fabbricato dei vitelli d'oro e li avevano collocati a Betel, per adorarli in quel luogo (cf. 3Re 12,32). Nell'oro è simboleggiato lo splendore della gloria temporale, nel vitello la lussuria della carne. Non cercate queste cose.
    «Non andate a Gàlgala», che s'interpreta «pantano», figura del fango della lussuria, nel quale i porci si rotolano. «E non passate a Bersabea», che s'interpreta «settimo pozzo», vale a dire abisso di cupidigia, che è assolutamente senza fondo, come il settimo giorno del quale si legge che non ha fine. «Cercate, dunque, il Signore finché si fa trovare; invocatelo mentre è vicino» (Is 55,6).
5. Infatti continua: «Bussate e vi sarà aperto» (Lc 11,9). Leggiamo negli Atti degli Apostoli: «Pietro continuava a bussare. Quando finalmente aprirono la porta e lo videro, rimasero stupefatti» (At 12,16). Pietro, liberato dalla prigione per opera di un angelo, raffigura colui che per mezzo della grazia di Dio viene liberato dal carcere del peccato. Costui deve bussare con perseveranza alla porta della corte celeste, e allora gli angeli gli apriranno, presenteranno cioè al cospetto del Signore la sua devota orazione: e il loro stupore, per così dire, non è altro che la gioia che provano per un peccatore che fa penitenza (Lc 15,10).
6. «Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane…» (Lc 11,11), ecc. Vedremo quale sia il significato di queste sei cose, che si contrappongono tra loro, e cioè: il pane e il sasso, il pesce e il serpente, l'uovo e lo scorpione.
    Il pane, così chiamato perché si pone [in tavola] insieme con ogni altro cibo, simboleggia la carità, la quale deve accompagnare ogni altro cibo di opere buone. «Tutto si faccia nella carità» (1Cor 16,14). Come senza il pane la mensa sembra squallida, così senza la carità le altre virtù sono un nulla: esse sono perfette solo unite alla carità.
    Leggiamo a questo proposito nel Levitico: «Mangerete il vostro pane a sazietà e dimorerete senza paura nella vostra terra» (Lv 26,5). Il Signore promette qui due cose, che avremo in modo perfetto nella vita futura: la sazietà della carità, della quale sarà ricolma l'anima, e la pace della terra, cioè della nostra carne. Ogni cristiano, figlio della grazia, deve chiedere a Dio Padre questo pane, per essere capace di amare Dio sopra tutte le cose e il prossimo come se stesso. Per questo prega: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» (Lc 11,3).
    «Forse che gli darà un sasso?» (Lc 11,11). Dice Giobbe: «Un torrente separa la pietra della caligine e l'ombra della morte dal popolo peregrinante» (Gb 28,3-4). Il torrente raffigura la compunzione delle lacrime, la quale separa la pietra della caligine, cioè la durezza della mente ottenebrata, e l'ombra della morte, cioè il peccato mortale che proviene dal diavolo il cui nome è morte (cf. Ap 6,8), dal popolo peregrinante, cioè dai penitenti, i quali si considerano pellegrini in questo esilio. Quindi al figlio che domanda la carità, Dio Padre non dà la durezza del cuore, ma piuttosto la toglie. «Toglierò da voi il cuore di pietra», che è insensibile, «e vi darò un cuore di carne» (Ez 36,26), in grado di sentire dolore.
    «O che chiede un pesce» (Lc 11,11). Il pesce raffigura la fede nelle cose invisibili. Infatti come il pesce nasce immerso nell'acqua e in essa vive e si nutre, così la fede che riguarda Dio, viene generata in modo invisibile nel cuore; viene consacrata dalla grazia invisibile dello Spirito Santo per mezzo dell'acqua del battesimo; viene nutrita, affinché non venga meno, con il misterioso aiuto della protezione divina; compie tutto il bene che le è possibile in vista dei premi invisibili. O anche: la fede viene paragonata al pesce perché, come esso è continuamente sbattuto dalle onde del mare ma non ne viene ucciso, così la fede non viene scossa dalle avversità. Questo pesce ogni cristiano deve chiedere a Dio Padre dicendo: Concedimi di vivere e di morire nella fede dei tuoi apostoli e della tua santa chiesa cattolica.
7. «Forse che invece del pesce gli darà un serpente?» (Lc 11,11). Il serpente è così chiamato perché si avvicina di nascosto, serpeggiando.
    I serpenti sono freddi per natura, e non attaccano se non quando si sono riscaldati. Alcuni affermano che i serpenti nascono dal midollo spinale di un uomo morto. Dicono che il serpente muore se gli si gettano sopra delle foglie di rovo. Si dice anche che se il serpente vede un uomo nudo, ha paura, mentre se lo vede vestito, lo attacca. E i serpenti gradiscono molto il vino, e mangiano la carne e le erbe, e succhiano gli umori dell'animale al quale si attaccano.
    Il serpente è il diavolo, che si avvicina di nascosto per tentare; oppure anche la sua perfidia che «serpeggia», va cioè di traverso come il granchio. Il diavolo, per innata malvagità è freddo, ma infiammato dall'ardore di nuocere, tenta di inoculare il veleno dell'infedeltà (mancanza di fede) nei fedeli, i soli che sono vivi. Invece tutti gli altri sono morti, perché uccisi dal veleno dell'infedeltà, che nasce dal loro stesso cuore e ne fuoriesce per dare la morte anche ad altri. Ma siano rese grazie a Dio che, contro questo veleno, ci ha dato un rimedio: le foglie del rovo. Il rovo, che ardeva e non si consumava (cf. Es 3,2), simboleggia l'umanità di Cristo la quale, coperta degli aculei della sofferenza, bruciò nel fuoco della passione, ma non si consumò: «Si disseccò come un coccio la mia potenza» (Sal 21,16). Le sue foglie, cioè le sue parole uccidono il serpente, vale a dire il diavolo e la sua perfidia.
    Il diavolo ha paura dell'uomo nudo, cioè del povero di Cristo, spoglio di cose temporali; ma quando vede l'uomo vestito, cioè ingordo, pieno di beni terreni, lo attacca, vale a dire lo assedia di tentazioni e, per quanto gli è possibile, gli inocula il veleno. Oppure: l'uomo nudo è colui che si è spogliato della veste della sua volontà; di lui dice il vangelo: «Gettato il mantello, balzò in piedi e corse da Gesù» (Mc 10,50). Chi vuole ricevere la luce e giungere alla salvezza, deve prima di tutto gettare lontano la sua volontà. Chi invece vuole restare coperto con la veste della sua volontà, viene subito attaccato dal diavolo. Questo si constata chiaramente in Adamo: finché restò nell'obbedienza, il diavolo ebbe paura di lui: «Erano tutti e due nudi e non se ne vergognavano» (Gn 2,25); ma quando si coprirono con la veste della loro volontà, il serpente li attaccò: «Quando si accorsero di essere nudi, intrecciarono delle foglie di fico e se ne fecero delle cinture» (Gn 3,7).
    Il diavolo poi gradisce molto il vino della lussuria, e la carne, cioè la carnalità della gola; ingoia anche volentieri le erbe, cioè lo splendore della gloria terrena; e dall'uomo, al quale si attacca approfittando del suo consenso, succhia ed estrae tutti gli umori, vale a dire la compunzione della mente.
    Dio Padre non darà mai un tale serpente al figlio suo che gli chiede un pesce; anzi, di un infedele fa un fedele, e lo richiama dalla morte alla vita.
8. «Oppure, se il figlio gli chiede un uovo…» (Lc 11,12), ecc. Nell'uovo è simboleggiata la certezza della nostra speranza, perché nell'uovo si può vedere il feto non ancora perfetto, ma si spera, riscaldandolo, che giunga a maturazione. L'uovo deriva il suo nome dal lat. uvidum, umido: infatti nel suo interno è pieno di umore. Così colui che nutre la speranza dei beni eterni è pieno dell'umore della devozione.
    Si legge nella Storia Naturale che le uova si diversificano tra loro per la forma: alcune sono appuntite, altre tondeggianti. Le uova lunghe, con una estremità stretta, producono i maschi; quelle tondeggianti producono invece le femmine, e hanno le estremità larghe. Ci sono anche le «uova di vento», piccole e sterili, che non producono nulla. Quando durante la cova ci sono dei tuoni, le uova si guastano.
    Nelle uova appuntite è indicata la speranza dei beni eterni. Dimentico delle cose passate, dice l'Apostolo, sono proteso a quelle future (cf. Fil 3,13). Nella lunghezza e nella parte stretta dell'uovo è simboleggiato il desiderio che l'anima nutre nella speranza del regno celeste. Da tale uovo nasce un maschio, cioè la vita virtuosa. Invece nelle uova larghe e tondeggianti è simboleggiata la speranza dei beni passeggeri, se può esser detta speranza. «Ciò che uno vede, come può sperarlo?» (Rm 8,24). C'è appunto in tali uova la via larga che conduce alla morte (cf. Mt 7,13). E ancora: «All'intorno (lat. in circuitu) si aggirano gli empi» (Sal 11,9); «Dio mio, fa' che siano come una ruota» (Sal 82,14). Da queste uova nasce una femmina, cioè una vita effeminata.
    E tale speranza è ottusa, cioè oscura, perché preferisce le tenebre alla luce (cf. Gv 3,19). Questa speranza è raffigurata nell'uovo di vento, perché è volubile e piena di vento. Infatti dice Osea: «Hanno seminato vento: raccoglieranno tempesta» (Os 8,7). Quale il seme, tale il frutto, perché chi semina vanità, raccoglierà dannazione. La speranza posta nel vento non produce il frutto della carità; è piccola e meschina perché non cresce in Dio; è insipida perché la sua sapienza non è condita con il divino sapore.
    Infine, quando all'inizio della conversione e della nuova vita scoppiano i tuoni, cioè le tentazioni della prosperità o delle avversità, queste riescono spesso a guastare le uova della speranza e dei santi propositi. Quindi il figlio della grazia deve domandare al Padre della misericordia l'uovo della speranza dei beni eterni perché, come dice Geremia, «benedetto è l'uomo che confida nel Signore: il Signore stesso sarà la sua speranza» (Ger 17,7).
9. «Forse che il padre gli darà uno scorpione?» (Lc 11,12). Come si deve aver paura del pungiglione che lo scorpione ha sulla coda, così è un atto contrario alla speranza guardare indietro, cioè al passato: la speranza è la virtù che si protende in avanti, che aspira cioè ai beni futuri.
    Lo scorpione, che ha la caratteristica di non ferire il palmo della mano, lambisce con la bocca, ma intanto la coda, nella quale ha due pungiglioni, colpisce e inocula il veleno. Il palmo della mano è così chiamato in quanto è glabro e non ha peli. La mano raffigura l'opera buona, il palmo la retta intenzione nell'operare. Il pelo nel palmo o nell'occhio è l'intenzione cattiva. Leggiamo nel vangelo: «Se il tuo occhio» - cioè la tua intenzione - «è limpido, tutto il tuo corpo» - cioè il tuo operare - «sarà luminoso» (Lc 11, 34). Lo scorpione è il diavolo che, mentre blandisce, lusinga con la suggestione, e alla fine colpisce con i due pungiglioni della coda: infatti nella vita presente avvelena con il peccato il corpo e l'anima, e poi in quella futura manda entrambi all'eterna punizione. Beato colui che nella mano delle sue opere ha il palmo della retta intenzione, che il diavolo non è in grado di danneggiare. Infatti il palmo senza macchia della retta intenzione purifica e rende bello il volto e tutto il corpo.
    «Se dunque voi, che siete cattivi…» (Lc 11,13), ecc. Tutte le creature al cospetto della bontà divina sono cattive, perché «nessuno è buono se non Dio solo» (Lc 18,19). Il paragone è quanto mai appropriato. Infatti se l'uomo peccatore, ancora sotto il peso della fragilità della carne, non si rifiuta di dare i beni temporali ai figli che glieli chiedono, a maggior ragione il Padre celeste largisce ai figli, che vivono in terra nel suo timore e nel suo amore, i beni imperituri nel cielo. Colui che è benedetto nei secoli si degni di elargire anche a noi questi beni eterni. Amen.
10. «Vennero da Sichem, da Silo e da Samaria ottanta uomini con la barba rasa, con le vesti stracciate, smunti e macilenti: avevano in mano doni e incenso da offrire nella casa del Signore» (Ger 41,5).
    Così ci dice Geremia. Come quegli uomini si unirono insieme per pregare il Signore, così anche noi in questi giorni ci raduniamo nella preghiera: perciò questi giorni sono chiamati in greco litanèia (litanie, suppliche) e in it. rogazioni (dal lat. rogare, pregare, domandare).
    Le rogazioni sono state istituite per pregare il Signore e per ottenere da lui qualche cosa. Proprio per questi due scopi sono state istituite: per pregare Dio che ci perdoni i peccati; infatti dice Isaia: «Mi chiedono giudizi giusti e vogliono avvicinarsi a Dio» (Is 58,2); e per ottenere i benefici della sua misericordia, sia nelle cose spirituali che in quelle temporali. E noi per meritare di ricevere questi benefici dobbiamo fare spiritualmente ciò che quegli uomini hanno fatto materialmente.
    Gli «ottanta» raffigurano tutti quelli che, «nei sette giorni» della vita presente, vivono operando il bene nell'attesa dell'ottavo giorno, quello della risurrezione. Tutti sono chiamati uomini (lat. viri), perché non compiono opere frivole o vane, ma solo atti di virtù. Infatti il sostantivo vir, uomo, viene dalla parola virtus, virtù, fortezza.
    Questi uomini vengono da Sichem che s'interpreta «fatica", e da Silo che s'interpreta «dov'è lui?», e da Samaria, che s'interpreta «lana», termine che deriva dal lat. laniare, dilaniare, cioè lacerare, strappare. Queste tre località simboleggiano le tre caratteristiche che riguardano i beni temporali: si conquistano con fatica e travaglio; si conservano con il timore di perderli: infatti l'avaro dice sempre: «Dov'è lui?», cioè il denaro; si perdono con grande dispiacere: ecco la «dilaniazione», cioè lo strazio del cuore. Deve disprezzare tutte queste cose colui che vuole veramente pregare il Signore.
11. «Con la barba rasa». Nel fatto di radersi la barba è simboleggiata l'opera virtuosa. Dice il salmo: «Come olio profumato sul capo, che scende sulla barba, sulla barba di Aronne» (Sal 132,2). Aronne s'interpreta «monte eccelso», e raffigura l'uomo costante, che stende la mano a cose eccelse (cf. Pro 31,19), sul cui capo, cioè nella cui mente, è sparso l'olio profumato della grazia divina.
    I pugili che si accingono al combattimento sono soliti ungersi il capo. Così Dio unge la mente del giusto affinché sia forte contro l'antico avversario. Questo unguento scende su tutta la barba, parola che il salmo dice due volte, perché dall'abbondanza della grazia interiore vengono profumate le grandi opere del duplice comandamento della carità. E si rade la barba colui che mai presume di affidarsi al valore delle sue opere buone. Dice infatti Isaia: «In quel giorno il Signore, con un rasoio affilato», o preso in prestito, «raderà il capo, il pelo delle gambe e tutta la barba a coloro che sono oltre il fiume» (Is 7,20). Al di là del fiume dei piaceri mondani stanno i penitenti, ai quali il Signore con il rasoio affilato, o preso in prestito, della sua passione rade ogni presunzione e fiducia nel bene operato. Chi può infatti presumere o gloriarsi del bene operato, quando vede il Figlio del Padre, fortezza e sapienza del Padre (cf. 1Cor 1,24), inchiodato in croce, sospeso in mezzo a due ladroni? Nel capo, nelle gambe e nella barba sono simboleggiati l'inizio, la continuazione e il compimento dell'opera buona; e il Signore rade nel penitente tutto questo, quando gli vieta di confidare o di gloriarsi sia all'inizio, che nella continuazione e nel compimento dell'opera buona, perché «chi si gloria, si glori nel Signore» (1Cor 1,31; 2Cor 10,17)), e non in se stesso.
12. «E con le vesti strappate». Le vesti simboleggiano le membra del corpo. Dice infatti l'Apocalisse: «Hai nella città di Sardi poche persone che non hanno macchiato le loro vesti» (Ap 3,4), cioè le loro membra. Sono veramente poche a Sardi quelle persone. Sardi s'interpreta «bellezza del dominio», e in ciò è indicata la verginità, e chi la conserva possiede veramente la bellezza del dominio. Quale splendido dominio quando il creatore domina lo spirito, e lo spirito domina la carne! Si strappa le vesti colui che non risparmia se stesso nel mortificare il corpo. È detto di Giobbe: «Si alzò, si strappò la tunica; tosatosi il capo si prostrò a terra e adorò Dio» (Gb 1,20). Giobbe, che s'interpreta «dolente», è figura del penitente che si duole nella contrizione, si alza nella confessione, si strappa la tunica, cioè castiga la sua carne per riparare al peccato, si tosa il capo con l'umiltà della mente, si prostra per terra nella meditazione della morte, e adora Dio nel rendimento di grazie.
    «Smunti e macilenti». Il latino dice squalentes, squallidi. Lo squallore significa pallore, magrezza, sporcizia e denutrizione. I grandi penitenti hanno questo squallore: sono pallidi in viso, magri nel corpo, miseri nelle vesti e sobri nel mangiare.
13. «Avevano in mano doni e incenso». Dice la Storia Naturale che la mano dell'uomo, datagli dal creatore, è adatta a qualsiasi lavoro, perché è aperta e larga, è articolata in varie parti: e se ne può usare una parte sola, o due e anche molte, a seconda delle circostanze. E l'agilità e le articolazioni delle dita danno la capacità di prendere e di trattenere.
    Nella mano è simboleggiata l'attività caritativa; dobbiamo stendere la mano ad utilità del prossimo e articolarla, per così dire, in tante parti a seconda delle necessità. Viene usata una sola parte (della mano), quando ci dedichiamo solo a Dio; ne vengono usate due parti, quando si somministra al prossimo il nutrimento dell'anima e del corpo. L'agilità delle dita, cioè la pratica delle virtù nella vita attiva, compie due cose: prende la grazia data da Dio, quindi la trattiene, cioè la conserva, per non perderla. In questa mano, dunque, dobbiamo avere i doni della fortezza, della carità e dell'elemosina, e l'incenso della devozione interiore, affinché tutto ciò che facciamo, sia fatto con devozione.
    «Per offrirli nella casa del Signore». E questo è ciò che si dice anche nell'Apocalisse: «E il fumo degli incensi, con le preghiere dei santi, salì davanti a Dio per mano dell'angelo» (Ap 8,4). Chi cerca la propria lode per le buone opere che compie, non offre doni nella casa di Dio e neppure il fumo dell'incenso sale davanti al Signore. Veniamo così istruiti a fare l'offerta delle nostre opere nella casa del Signore, davanti a lui, cioè con pura coscienza nella quale egli dimora, e da lui solo attendere la ricompensa. Solo così, mediante il ministero degli angeli deputati alla nostra custodia, la nostra devozione salirà a Dio e la sua grazia scenderà su di noi, affinché anche noi diveniamo finalmente capaci di salire alla sua gloria.
    Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen.