Sermoni Domenicali

EPIFANIA DEL SIGNORE

1. «Essendo nato Gesù in Betlemme di Giuda»... ecc. (Mt 2,1).
    In questo brano evangelico considereremo tre avvenimenti: - l'apparizione della stella, - il turbamento di Erode, - l'offerta dei tre Magi.

2. «Essendo nato Gesù a Betlemme» (Mt 2,1), ecc. Nella prima parte c'è questo insegnamento morale: in quale modo uno, dalla vanità del mondo, si converte a vita nuova. Prima però ascoltiamo brevemente la storia, il racconto.
    Gesù nacque in una notte di domenica, perché nel giorno in cui Dio disse: «Sia fatta la luce, e la luce fu» (Gn 1,3), in quello «venne a visitarci dall'alto un sole che sorge» (Lc 1,78).
    Si racconta che Ottaviano Augusto, su indicazione della Sibilla, abbia veduto in cielo una vergine, gravida di un figlio, e che da allora vietò che lo chiamassero Dominus, Signore, perché era nato «il Re dei re e il Signore dei signori» (Ap 19,16). Perciò il poeta scrisse: «Ecco, una nuova prole scende dall'alto del cielo» (Virgilio, Egloga IV,7). Per tutto il giorno sgorgò da una vecchia taverna un abbondante getto d'olio, perché in quel giorno nasceva sulla terra colui che è consacrato con olio di letizia, a preferenza dei suoi eguali (cf. Sal 44,8). Il tempio della Pace crollò dalle fondamenta. I Romani, infatti, a motivo della pace universale in cui si trovava tutto il mondo sotto Cesare Augusto, avevano costruito un meraviglioso tempio alla Pace. Coloro che vi entravano per consultare la divinità e sapere quanto sarebbe durata quella pace, ebbero questo responso: Finché una vergine partorirà. Essi furono felici perché lo interpretarono così: La pace durerà in eterno, perché mai una vergine potrà partorire. Ma Dio distrusse la sapienza dei sapienti e la prudenza dei prudenti (cf. 1Cor 1,19), perché il tempio crollò dalle fondamenta nell'ora della nascita del Signore.
    Tredici giorni dopo la sua nascita, cioè come oggi, «ecco che dall'oriente arrivarono a Gerusalemme dei Magi, che domandavano: «Dov'è il Re dei giudei, che è nato? Abbiamo veduto la sua stella» (Mt 2,1-2). Erano chiamati «Magi» per la vastità delle loro conoscenze; quelli che i Greci chiamano filosofi, i Persiani li chiamano magi. Venivano dai territori dei Persiani e dei Caldei. Forse non fu loro impossibile percorrere in tredici giorni, in groppa ai dromedari, quelle grandi distanze.
    La stella che avevano visto si distingueva dalle altre per lo splendore, per la posizione e per il movimento. Per lo splendore, che neppure la luce del giorno faceva scomparire; per la posizione, perché non stava nel firmamento con le stelle minori, e neppure nell'etere con i pianeti, ma faceva il suo viaggio nell'aria, nelle vicinanze della terra; e per il movimento, perché restò dapprima immobile sopra la Giudea, poi diede ai Magi l'indicazione per arrivarvi; essi presero per loro conto la decisione di entrare in Gerusalemme, che della Giudea era la capitale. Quando ne uscirono, con il primo movimento visibile la stella li precedette. Portato a termine il suo compito scomparve, ritornando alla primitiva materia, dalla quale era stata presa.
    Questa festa si chiama Epifania, dai termini greci epì, sopra, e fanè, manifestazione, perché come oggi Cristo fu manifestato con il segno della stella. È detta anche Teofania, sempre dai termini greci Theòs, Dio, e fanè, perché come oggi Cristo, passati trent'anni, fu manifestato dalla voce del Padre, e battezzato nel Giordano. È detta anche Bethfania, dal termine ebraico beth, casa, perché, passato un anno dal battesimo, come oggi compì un miracolo divino tra le mura di una casa, ad una festa di nozze.
3. Vediamo ora che cosa significhino, in senso morale, la stella, i Magi, l'oriente e Gerusalemme.
    La stella simboleggia l'illuminazione della grazia divina, o anche la conoscenza della verità. Infatti Gesù, dal quale proviene ogni grazia, dice nell'Apocalisse: «Io sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino» (Ap 22,16). Gesù Cristo, benché figlio, è anche radice, cioè padre di Davide. Oppure, come la radice sostiene la pianta, così la misericordia di Cristo sostenne Davide peccatore e penitente. Cristo è stella radiosa nella illuminazione della mente; è stella del mattino nella conoscenza della verità.
    I Magi rappresentano i sapienti del mondo, dei quali dice Isaia: «I sapienti, i consiglieri del faraone, gli diedero un consiglio stolto» (Is 19,11). Il faraone, nome che s'interpreta «che scopre l'uomo», è figura del mondo che, dopo aver coperto l'uomo con la sua vanità, lo scopre nella miseria della morte; il mondo non dà, ma solo impresta, e nel momento del massimo bisogno, esige ciò che ha imprestato e così abbandona l'uomo nella miseria e nella nudità.
    Stolto è quindi il consiglio di quei sapienti che esortano ad accumulare le cose altrui, i beni di questo mondo, che non potranno portare con sé, che inducono a caricarsi di cose solo imprestate, che non potranno far passare con sé attraverso il passaggio stretto. Infatti il passaggio della morte è così stretto, che a stento vi può passare l'anima sola e nuda. Quando si arriva a quel passaggio ogni carico di cose temporali dev'essere lasciato: solo i peccati, che non sono sostanza (materiale), vi passano agevolmente insieme con l'anima.
    L'oriente è figura della vanità del mondo o della sua prosperità. Dice Ezechiele: «Vidi, ed ecco degli uomini con le spalle rivolte al tempio del Signore, e la faccia ad oriente, che adoravano il sole nascente» (Ez 8,16). Il tempio raffigura l'umanità di Cristo, o anche la vita di ogni giusto. Hanno il dorso rivolto al tempio del Signore e la faccia ad oriente coloro che, dimentichi della passione e della morte di Cristo, orientano alla vanità del mondo tutto ciò che conoscono e tutto ciò che sanno. Per questo il Signore si lamenta per bocca di Geremia: «Voltarono verso di me il dorso, non il volto. Ma al tempo della loro sventura», cioè della morte, «diranno: Àlzati e salvaci! Dove sono i tuoi dèi», cioè i piaceri e le ricchezze, «che ti sei procurato? Si alzino loro e ti liberino nel tempo della tua sventura» (Ger 2,27-28). O anche: hanno il dorso contro il tempio e adorano il sole nascente coloro che disprezzano la povertà, l'umiltà e le sofferenze dei giusti, e proclamano felici quelli che abbondano di piaceri e di ricchezze.
    Gerusalemme, che significa «pacifica», raffigura la vita nuova, cioè la vita di penitenza. Dice Isaia: «Il mio popolo dimorerà in una pace meravigliosa, nelle tende della fiducia e nella quiete della ricchezza» (Is 32,18). Felice condizione, nella quale c'è la grazia della coscienza tranquilla, la fiducia della condotta santa, la ricchezza della carità fraterna. Perciò, come la stella richiamò i Magi dall'oriente, così la grazia divina richiama i peccatori dalla vanità del mondo alla penitenza, affinché ricerchino il nato Re, cercandolo lo trovino e trovatolo lo adorino.
    «Dov'è il Re dei giudei, che è nato?». Vale a dire: Dov'è il Re di coloro che confessano i loro peccati, il Re dei penitenti? Cercano il Re dei penitenti, che è nato in loro, coloro che promettono di fare penitenza. Noi, dicono, che abitavamo in oriente, che eravamo presi dalla vanità del mondo, abbiamo visto la sua stella, cioè abbiamo riconosciuto la sua grazia, e così «per mezzo di lui», per sua grazia, «siamo venuti ad adorarlo» (Mt 2,2).

4. « Il re Erode, sentendo ciò, restò turbato» (Mt 2,3). Il diavolo, il re della turba turbata, si turba! Anche il mondo si turba, quando sente che Cristo è ormai nato nei penitenti e vede anche altri peccatori convertirsi a lui per opera della grazia. Satana freme al vedere che il suo regno si riduce e il Regno di Cristo si allarga ogni giorno di più. Leggiamo nell'Esodo: «Disse il faraone al suo popolo: Ecco che il popolo dei figli d'Israele è più numeroso e più forte di noi. Venite, opprimiamolo in tutti i modi, perché non cresca ancor più di numero» (Es 1,9-10).
    L'astuzia del diavolo opprime i figli di Dio con la suggestione, la malizia del mondo li opprime con la bestemmia e con l'ingiuria. Continua infatti l'Esodo: «Gli Egiziani odiavano i figli d'Israele e li facevano soffrire insultandoli, e resero loro amara la vita» (Es 1,13-14). Tormento (in lat. frixorium, padella per friggere, o griglia), tormento dei giusti è la vita dei peccatori! Dice il salmo: «Moab è il vaso della mia speranza» (Sal 59,10). Moab s'interpreta «dal padre», cioè coloro che vengono da quel padre che è il diavolo; essi sono «il vaso della speranza» perché anche gli empi vivono per i giusti, cioè per la loro utilità, per il loro vantaggio.
    Erode dunque restò turbato. Erode s'interpreta «gloria della pelle». Egli restò turbato perché era nato quel Re povero che dice: «Io non ricevo gloria dagli uomini» (Gv 5,41), e «Io non cerco la mia gloria (Gv 8,50). «Il mio Regno non è di questo mondo» (Gv 18,36). Erode, gloria della pelle, resta turbato, perché vede il suo splendore cambiarsi in negrezza, il suo lusso e la sua effeminatezza in ruvidezza, come dice Isaia: «Invece del profumo raffinato ci sarà il fetore, invece della cintura una corda, invece di una chioma ricciuta la calvizie, e invece della fascia pettorale il cilicio» (Is 3,24). E queste parole non hanno bisogno di commento perché nei penitenti si avverano alla lettera.
    Vedi il sermone della domenica XIV dopo Pentecoste, seconda parte.
    Leggiamo ancora nell'Esodo: «Ora tògliti i tuoi ornamenti e poi saprò che cosa dovrò farti» (Es 33,5). Per questo «La regina Ester cercò rifugio presso il Signore, sgomenta per il pericolo che sovrastava. Deposte le vesti regali, indossò vesti adatte al pianto e al lutto; e invece dei vari profumi si cosparse la testa di cenere e di immondizie; mortificò con digiuni il suo corpo, e con i capelli sconvolti si aggirava per le stanze nelle quali prima viveva in letizia» (Est 14,1-2).
    Ester, nome che s'interpreta «nascosta», raffigura l'anima penitente che si apparta dalla dissipazione del mondo e si rifugia nella solitudine dello spirito e talvolta anche del corpo; si rifugia presso il Signore, perché in nessuno se non in lui c'è rifugio dal pericolo del peccato, che sempre le è presente e la minaccia, e quindi ne ha paura. Si toglie le vesti della gloria, indossa gli indumenti della penitenza e, invece dei profumi dei vari piaceri, si cosparge il capo, cioè la mente, con la cenere della sua fragilità e con le immondizie della propria iniquità; insiste nei digiuni, e ripensa con angoscia a tutti i luoghi nei quali prima si divertiva. Questo è ciò che dice Gregorio della Maddalena: «Quanti erano stati i piaceri provati in se stessa, tanti furono i sacrifici (le espiazioni) che a se stessa impose».

5. «Ed ecco, la stella che avevano visto in oriente... « (Mt 2,9). O misericordia di Dio, che mai dimentica di aver pietà! Infatti è subito vicino a chi ritorna a lui. Dice Isaia: «Tu invocherai, e il Signore ti esaudirà; chiamerai, ed egli dirà: èccomi!» (Is 58,9), «perché io, il Signore Dio tuo, sono misericordioso» (Dt 4,31).
    «Ed ecco la stella». I Magi erano andati da Erode, e avevano perduto di vista la stella. E questo sta ad indicare i recidivi che, ritornando al diavolo, ossia al peccato mortale, perdono la grazia; quando invece se ne liberano, allora la riacquistano. Dice infatti Geremia: «Se un uomo ripudia la moglie ed essa, allontanatasi da lui, si sposa con un altro uomo, forse che ritornerà ancora da lui? Quella donna non è forse immonda e contaminata? Tu invece, che pure hai fornicato con molti amanti», cioè con i demoni e i peccati, «tuttavia ritorna da me, dice il Signore» (Ger 3,1).
    «Ed ecco che la stella li precedeva» (Mt 2,9). Troviamo la concordanza nell'Esodo: «Il Signore li precedeva per indicare loro la strada: di giorno con una colonna di nubi, di notte con una colonna di fuoco, per essere loro di guida nel cammino in entrambi i tempi» (Es 13,21). Di giorno la colonna di nubi era contro l'ardore del sole, di notte la colonna di fuoco era contro le tenebre, perché potessero difendersi dai serpenti. Osserva che l'illuminazione della grazia divina è detta «colonna» perché sostiene, «di nubi», perché raffredda il calore del sole, cioè il calore della prosperità terrena, «di fuoco», contro il freddo dell'infedeltà, contro le tenebre delle avversità e contro il veleno della suggestione diabolica.
    «Finché giunse e si fermò sopra la casa dov'era il bambino» (Mt 2,9). Ecco la fine della fatica, la meta del viaggio, la gioia di chi cerca, il premio di chi trova. «Gioisca il cuore di coloro che ti cercano» (Sal 104,3, o Gesù; e se gioiscono quelli che ti cercano, quanto più gioiranno quelli che ti trovano? La stella procede, la colonna precede. Quella indica la strada alla culla del Salvatore, questa alla Terra Promessa: e nella culla c'è la Terra Promessa dove scorre il miele della divinità e il latte dell'umanità. Corri dunque dietro alla stella, affrettati dietro alla colonna, perché ti guidano alla vita. Faticherai poco, arriverai presto, e troverai il desiderio dei santi, il gaudio degli angeli.
6. «Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia» (Mt 2,10). Fa' attenzione, perché in queste parole è indicata una triplice gioia, quella che deve provare colui che riacquista la grazia perduta. Deve gioire perché non è morto mentre era in peccato mortale e si sarebbe dannato eternamente; perché è stato riportato alla grazia, che non ha meritato; perché, se persevererà, sarà condotto alla gloria. Di questa triplice gioia dice Isaia: «Esultando gioirò nel Signore, e l'anima mia si allieterà nel mio Dio» (Is 61,10).
    «Ed entrando nella casa» (Mt 2,11). Racconta Luca che «il figlio maggiore, indignato, non voleva entrare in casa» (Lc 15,25. 28); invece il figlio prodigo vi era già entrato, perché era già rientrato in se stesso (cf. Lc 15,17). È stato detto agli apostoli: «Per via non salutate nessuno» (Lc 10,4). Chi è sulla via, è fuori, e chi è fuori, è fuori di casa, e quindi è indegno di essere salutato. Anzi, come dice Amos: «In tutte le piazze ci sarà pianto, e a tutti coloro che sono fuori si dirà: Guai, guai!» (Am 5,16).
    «Trovarono il fanciullo con Maria, sua Madre, e prostratisi lo adorarono» (Mt 2,11). Poiché entrano, trovano; e perché trovano, si prostrano e adorano. Nel fanciullo e in Maria sono indicate l'innocenza e la purezza; nel fatto che si prostrano il disprezzo di sé; e nel fatto che adorano l'ossequio della fede. Ecco dunque che i penitenti entrano nella casa della propria coscienza e trovano l'innocenza (l'innocuità) nei riguardi del prossimo, la purezza nei riguardi di se stessi; e di ciò non si insuperbiscono, ma si prostrano con la faccia a terra e adorano devotamente e fedelmente colui che ha dato loro tutte queste grazie.
    «Ed entrati nella casa» - forse era quel diversorio, albergo, di cui parla Luca -, «trovarono il bambino con Maria, sua madre». Osserva la Glossa: Perché, insieme con Maria, non fu trovato dai Magi anche Giuseppe? Perché da quel fatto non fosse dato motivo di ingiusto sospetto a quei popoli che, appena nato il Salvatore, gli avevano mandato sùbito «le loro primizie», i loro primi rappresentanti, ad adorarlo.
    «Aprirono i loro scrigni» (i loro tesori) (Mt 2,11). La Glossa: Guardiamoci bene dallo scoprire i nostri tesori lungo la via; aspettiamo che siano passati i nemici, per poterli offrire solo a Dio dal segreto del cuore. Il re Ezechia, che mostrò agli stranieri i tesori [del tempio], venne punito nei suoi discendenti (cf. 4Re 20,12-19). Desidera essere derubato, colui che porta un tesoro pubblicamente per la via (Gregorio).
7. «Gli offrirono i doni: oro, incenso e mirra» (Mt 2,11). L'oro si richiama al tributo (che si pagava al re), l'incenso ai sacrifici, e la mirra alla sepoltura dei morti. Per mezzo di questi tre doni vengono proclamate in Cristo la potestà regale, la maestà divina e la mortalità umana. In altro senso: nell'oro, che è lucente e compatto, e quando è battuto non scricchiola, è indicata la vera povertà, che non viene oscurata dalla fuliggine dell'avarizia, non si gonfia al vento delle cose temporali. Una virtù salda (in lat. res solida, una sostanza compatta, un monastero concorde) fa lo stesso: davanti agli scandali non si turba e non replica con mormorazioni.
    In Arabia, nome che significa «sacra», ci sono delle piante dalle quali si ricavano l'incenso e la mirra. Coloro che ne sono proprietari vengono chiamati in arabo sacri. Quando incidono o vendemmiano queste piante, essi non partecipano a funerali e non si contaminano in rapporti con donne. L'incenso, una pianta grandissima e frondosa, con una corteccia leggerissima, produce un succo aromatico come quello del mandorlo. L'incenso è chiamato in lat. thus, da tùndere, pestare, o anche dal termine greco Theòs, Dio, in onore del quale viene bruciato. L'incenso viene spesso mescolato con resina e altre sostanze gommose, ma si distingue lo stesso per le sue proprietà. Infatti l'incenso, posto sulla brace, arde, mentre la resina fuma e le sostanze gommose si liquefano.
    L'albero dell'incenso raffigura la preghiera devota, che è grandissima per la contemplazione, frondosa per la carità fraterna, giacché intercede sia per l'amico che per il nemico; ha una scorza sottilissima, cioè si manifesta all'esterno con la benevolenza; ed emette il succo delle lacrime, profumatissimo e olezzante al cospetto di Dio.
    È detto nel Cantico dei Cantici: «Sorgi, o aquilone!», vale a dire: Allontànati, o diavolo!, «e vieni tu, o austro», cioè Spirito Santo; «soffia nel mio giardino», cioè nella mia mente, «e si effondano i suoi aromi», cioè le lacrime! (Ct 4,16). Questo succo è il ristoro dei peccatori, come il latte di mandorlo è il ristoro degli ammalati. Colui che prega si batte il petto e la preghiera sale a Dio. Ma ahimè! Oggi l'orazione devota viene guastata con una mescolanza avariata, cioè con la resina della vanagloria, come negli ipocriti, e con la gomma del denaro come nei chierici sventurati che pregano e celebrano le messe per i soldi. La vera devozione si infiamma del fuoco dell'amore divino, mentre quella guastata dalla vanità manda fumo, e quella corrotta dalla cupidigia si squaglia.
    L'albero della mirra si spinge fino a cinque cubiti di altezza. Il succo che da esso emana spontaneamente è ritenuto più pregiato, mentre lo è meno quello estratto tagliando la corteccia. La mirra, così chiamata da «amarezza», simboleggia l'amara sofferenza del cuore o del corpo, il cui primo cùbito è il pensiero della morte, il secondo la presenza del giudice severo nel giudizio, il terzo la sua sentenza irrevocabile, il quarto la geenna inestinguibile, il quinto la compagnia di tutti gli uomini perversi e la penitenza (lat. poena tenax), cioè i tormenti assolutamente inevitabili e continui inflitti dai demoni.
    Se la sofferenza esce spontaneamente da quest'albero, è più preziosa, cioè più accètta a Dio; invece quella che è prodotta dalle ferite delle infermità o delle avversità, ha minor valore.
8. I Magi dunque «offrirono al Signore oro, incenso e mirra». Così anche i veri penitenti gli offrono l'oro della totale povertà, l'incenso della devota orazione, la mirra della volontaria sofferenza. E fa' attenzione che l'incenso della devota orazione e la mirra della salutare penitenza non si trovano se non in Arabia, cioè nella santa chiesa. Quelli che vogliono conservarle e coglierne i frutti, devono allontanare se stessi dal cadavere del denaro accumulato ingiustamente, sul quale gli avari si gettano come il corvo sulla carogna, e dai contatti lussuriosi.
    Supplichiamo dunque il Signore che ci conceda di offrirgli questi tre doni, per poter poi regnare con lui, che è benedetto nei secoli. Amen.

9 . «In quel tempo saranno portati doni al Signore degli eserciti da un popolo diviso e lacerato, da un popolo terribile, dopo il quale non ce ne fu un altro di uguale; da una gente che attende ed è oppressa, la cui terra è devastata dai fiumi» (Is 18,7). Questa profezia di Isaia si riferisce alla conversione dei gentili, le cui primizie, cioè i Magi, portarono oggi i doni di oro, incenso e mirra a Gesù Cristo, Signore degli eserciti, vale a dire delle schiere angeliche. Dice infatti Malachia: «Dall'oriente all'occidente è grande il mio nome tra le genti, e in ogni luogo viene sacrificata e offerta al mio nome un'oblazione pura, dice il Signore degli eserciti» (Ml 1,11).
    Ora, per conoscere meglio la miseria del popolo gentile e la misericordia di Dio liberatore, trattiamo brevemente i due argomenti.
    Quel popolo gentile (pagano), del quale anche noi siamo figli, era separato da Dio a motivo del culto degli idoli; per questo Osea, parlando dei giudei idolatri, che si erano uniti a Geroboamo, dice: «Efraim si è alleato agli idoli, màndalo via», perché «il suo convito è separato» (Os 4,17-18). Geroboamo, il cui nome s'interpreta «divisione del popolo», «fabbricò due vitelli d'oro e disse al popolo: Non salite a Gerusalemme; ecco i tuoi dèi, Israele, che ti hanno fatto uscire dalla terra d'Egitto» (3Re 12,28).
    Allo stesso modo il popolo pagano era lacerato dall'oppressione del diavolo, come si legge nelle Passioni di alcuni apostoli: il diavolo privava della vista, dell'udito e della capacità di camminare coloro che lo adoravano e li opprimeva con varie tribolazioni. Dice infatti Marco: «E gridando e straziandolo crudelmente [il diavolo] uscì da lui» (Mc 9,25). E altrove: «Coloro che erano tormentati dagli spiriti immondi, venivano guariti» (Lc 6,18).
    Il popolo pagano era anche terribile per la ferocia dell'animo. Dice Abacuc: «Ecco, io solleverò i Caldei, popolo feroce e impetuoso, che percorre in lungo e largo la terra per impadronirsi di tende non sue» (Ab 1,6). I tre magi vennero appunto dalle terre dei Persiani e dei Caldei, ad adorare il Signore. Dopo quel popolo, «non ce ne furono altri così terribili; infatti Abacuc continua: «È feroce e terribile. Più veloci dei leopardi sono i suoi cavalli e più agili dei lupi che escono la sera» (Ab 1,7. 8. ).
    «Gente in attesa». Attendeva che si avverasse quella profezia di Balaam di cui parla la Scrittura: «Spunterà una stella da Giacobbe e sorgerà uno scettro» (Nm 24,17), ossia un uomo, «da Israele». «Gente oppressa» da tante guerre. Come opprimeva gli altri, così era anche dagli altri oppressa: i Caldei distrussero Gerusalemme e a loro volta furono poi distrutti da Ciro e da Dario. Ed erano oppressi non solo dagli estranei, ma si distruggevano anche tra loro. Continua infatti Isaia: «La loro terra era distrutta dai loro fiumi», cioè dalle guerre intestine e da spargimento di sangue.
    Rendiamo grazie a Gesù Cristo che da un tale popolo, infedele e barbaro, si è degnato di accettare oggi i doni, primizie di fede, e da esso formare la sua chiesa, che siamo noi. A lui onore e gloria nei secoli eterni. Amen.

10. «In quel tempo saranno portati doni al Signore degli eserciti da un popolo avulso da Dio», ecc. In questo passo di Isaia sono indicati i sette peccati mortali nei quali erano invischiati in passato alcuni, che ora per grazia di Dio si sono convertiti a penitenza. Popolo avulso da Dio per la superbia, lacerato per l'avarizia, tremendo per l'ira; gente in attesa per la vanagloria, oppressa per l'invidia; terra distrutta dai due fiumi, che sono la gola e la lussuria. Parliamo di ognuno singolarmente.
    «Popolo avulso, staccato», popolo di superbi. Come il vento sradica la pianta, così la superbia separa l'uomo da Dio; dice infatti Giobbe: «Come un albero sradicato ha strappato, cioè ha permesso che fosse strappata, da me la speranza» (Gb 19,10). La speranza dell'uomo è Dio, dal quale viene separato quando, dal vento della superbia, viene staccato dalla radice dell'umiltà. E non deve far meraviglia, perché la superbia ha questo nome in quanto va al di sopra di sé (lat. super se iens), mentre umiltà vuol dire bassezza della terra (lat. humi vilitas). Il superbo sale, Dio discende. Che cosa c'è di più contrapposto e antitetico? Il superbo in alto, Dio in basso. Il superbo è sradicato da Dio: a lui non è gradito, e a lui non si unisce se non l'umile. La radice è la vita dell'albero, l'umiltà è la vita dell'uomo. Se uno ha nel suo giardino un bell'albero da frutto, non gli dispiacerebbe forse che venisse sradicato dal vento? Ma certamente! Quanto maggior dispiacere, quando il vento della superbia strappa l'anima nostra dal suo creatore, il quale detesta la superbia più di tutti i peccati, resiste ai superbi (cf. 1Pt 5,5) e rovescia i potenti! (cf. Lc 1,52). La superbia infatti è soggetta a crolli; chi è in basso è più sicuro di colui che sta in alto. Dice giustamente Seneca: «Lìmitati alle cose piccole, dalle quali non puoi cadere».
11. «Popolo lacerato» è il popolo degli avari e degli usurai. Come gli uccelli rapaci e le belve lacerano un cadavere, così i demoni lacerano con l'avarizia il cuore dell'avaro e dell'usuraio. Dice Naum: «Guai a te, città di sangue, tutta falsità, piena di lacerazioni. La rapina non si allontanerà da te» (Na 3,1). L'anima vive per mezzo del sangue (cf. Dt 12,23), il povero delle proprie misere sostanze. Togli all'uomo il sangue, al povero le sue sostanze: entrambi muoiono. I predoni quindi e gli usurai, che si impadroniscono delle cose altrui, sono detti «città di sangue».
    Si legge nella Storia Naturale che gli elefanti hanno il sangue freddissimo e che i draghi velenosi ardono dalla voglia di bere quel sangue e quindi, quando ci sono i grandi calori, si avventano contro gli elefanti per succhiarne il sangue. Così anche gli avari e gli usurai, contagiati dal veleno dell'avarizia, bramano le cose altrui. Il sangue dei poveri è freddo e così tutte le loro povere cose. La povertà e la nudità non permettono loro di riscaldarsi, ma quando si accende in essi il calore della necessità, allora gli avari sopraggiungono, fanno loro dei prestiti per poi succhiarne il sangue.
    «Guai a te, dunque, città di sangue, tutta falsità!» La falsità sta nella lingua, la lacerazione nel cuore, la rapina nelle mani. Leggiamo nel secondo libro dei Maccabei che Giuda, tagliata la lingua del sacrilego Nicànore (dopo avergli tagliato la testa), la fece gettare a pezzetti agli uccelli (cf. 2Mac 15,33). Nicànore, nome che s'interpreta «lucerna eretta», raffigura l'usuraio che sembra eretto e luminoso, e invece ben presto crollerà e si spegnerà. Dice Giobbe: «Quante volte si spegne la lampada degli empi?» (Gb 21,17); e ancora: «Non si spegnerà forse la luce del malvagio e mai più brillerà la fiamma del suo focolare? La luce si offuscherà nella sua tenda e la lucerna che sta sopra di lui si spegnerà» (Gb 18,5-6).
    La lucerna ha due cose: la luce e il calore. Così l'avaro ha la luce del favore umano, e il calore, la brama del lucro temporale. Quando si spegnerà con la morte, sarà privato di entrambe le cose. E poiché la sua lingua fu divisa e ripartita in molte falsità, sarà tagliata e consegnata ai demoni; oppure, per i peccati della lingua sarà punito in modi diversi. Il suo cuore è lacerato perché accumula con fatica, custodisce con paura e perde con dispiacere. Il diavolo tiene stretto a se tutto intero l'usuraio: con la rapina lo tiene per le mani perché non faccia elemosine; con il tormento di accumulare lo tiene per il cuore perché non pensi al bene; con la falsità lo tiene per la lingua perché non preghi e non dica mai nulla di buono.
12. «Popolo terribile» sono gli iracondi o i furiosi. Del diavolo o dell'uomo iracondo Giobbe dice: «Concentra tutto il suo furore contro di me; minacciandomi digrigna i denti. Con occhi terribili mi fissa il mio nemico» (Gb 16,10). Vedi quant'è spaventoso un uomo infiammato dall'ira: corruga la fronte, ha la faccia terrea, le narici frementi, gli occhi torvi, le labbra livide, digrigna i denti e nelle mani ha la sferza. Un uomo così ridotto altro non sembra che una bestia feroce. Infatti dice Isaia: «Non ci fu dopo di lui un altro uomo» (Is 18,7) così crudele, così bestiale.
    Nel libro di Daniele è detto di Nabucodonosor: «Sia cambiato in lui il cuore di uomo, e gli sia dato un cuore di belva» (Dn 4,13). Non si deve intendere che Nabucodonosor abbia subìto un cambiamento nel corpo, bensì che ebbe un'alienazione mentale, un delirio. Gli fu tolto l'uso della lingua per parlare, e gli sembrava di essere un bue nella parte anteriore e un leone in quella posteriore. Così colui che è infiammato dall'ira subisce un'alienazione e non è più capace di parlare rettamente. Prima si agita come un bue con le corna, prorompendo in minacce e bestemmie, poi, come un leone, si avventa e dilania con le mani e con i piedi.
13. «Gente che attende» sono gli ipocriti e i vanagloriosi: per ogni opera che fanno attendono, come i mercenari, la ricompensa della lode. Leggiamo nel vangelo: «Il mercenario vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge» (Gv 10,12). Il lupo è la suggestione diabolica, le pecore sono i pensieri buoni. Chi agisce non per amore della giustizia ma per la ricompensa della vanagloria, cede con facilità alla tentazione, e se si era proposto qualcosa di bene, lascia andare tutto. Di questa attesa è detto nel salmo: «Si disseteranno tutte le bestie della campagna; aspetteranno gli ònagri nella loro sete» (Sal 103,11).
    Ci sono due specie di ònagri: uno senza corna in Spagna, e uno con le corna in Grecia. Due sono pure le specie di ipocriti. Alcuni ipocriti sono, per così dire, senza corna: essi, quando ricevono un'ingiuria si mostrano mansueti, sono calmi nella tribolazione, e talvolta rifiutano gli onori; ma fanno tutto questo per calcolo, perché, fingendo di fuggire la gloria, in realtà la cercano. Gli altri ipocriti invece hanno le corna: sono quelli che alla prima parola ingiuriosa puntano le corna della superbia, e mostrano subito al di fuori ciò che sono al di dentro.
    L'ònagro deriva il suo nome dal greco onos, asino, e dal latino ager, campo (l'ònagro è l'asino selvatico). «Il campo è il mondo» (Mt 13,38). Quindi gli ipocriti, sia quelli con le corna come quelli senza corna, sono gli asini del mondo, al quale servono; aspettano la ricompensa della lode e del denaro, e tutto questo «nella loro sete», della quale bruciano, e non si danno pace finché non bevono qualcosa. Invece «le bestie della campagna», cioè i semplici, «si dissetano in letizia alle fonti del Salvatore» (Is 12,3), che sono due: la grazia e la gloria. Alla prima fonte si dissetano di fatto, alla seconda nella speranza, in attesa di poterlo fare nella visione.
14. «Gente oppressa» sono gli invidiosi, tormentati e oppressi dall'altrui felicità. Neanche i tiranni di Sicilia inventarono un supplizio più tormentoso dell'invidia (Orazio).
    Leggiamo nel primo libro dei Re: «Saul ne uccise mille, e Davide diecimila. Saul ne fu molto dispiaciuto e gli parvero cattive quelle parole. Diceva: Ne hanno attribuito a Davide diecimila e a me soltanto mille. Che cosa gli manca, se non il regno? E da quel giorno in poi Saul non guardò più di buon occhio Davide» (1Re 18,7-9). Ecco come era tormentato, ecco come si sentiva oppresso.
15. «I due fiumi» simboleggiano la gola e la lussuria. Il Cobar e il Tigri sono i due fiumi di Babilonia (cf. Ez 1,1. 3; Dn 10,4).
    Cobar s'interpreta «pesantezza», e raffigura la gola, della quale Luca dice: «State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in gozzoviglie, ubriachezze e affanni della vita, e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso» (Lc 21,34).
    Tigri, fiume che prende il nome da una fiera (la tigre) variamente maculata, di incredibile forza e rapidità di corsa, raffigura la lussuria. Questo vizio è coperto delle macchie dei vari piaceri della vita; è forte quando tenta, ed è veloce, perché anche il piacere passa presto. Dice il beato Bernardo: Tormenta il futuro, non sazia il presente, non delizia il passato. Questi due fiumi «distruggono la terra», sconvolgono cioè la mente di chi è loro schiavo e lentamente la distruggono.
    Abbiamo visto la miseria di tutti costoro; consideriamo anche la misericordia che li libera da tanta sciagura. Ecco: in questo tempo di bontà e di misericordia divina, i peccatori di cui abbiamo parlato, portano a Gesù Cristo, il Signore degli eserciti, cioè delle celesti schiere, il dono della loro penitenza.
    Anche voi, o carissimi, portate, insieme con i magi, i vostri doni: l'oro della contrizione, l'incenso della confessione, la mirra della soddisfazione, ossia dell'opera di penitenza, per poter essere degni di ricevere dallo stesso Gesù Cristo il dono della gloria in cielo.
    Ve lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen.