Sermoni Domenicali

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE

1. In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi» (Mt 18,23).
    Si narra nel libro di Daniele che «per ordine del re, Daniele fu vestito di porpora, gli fu messa una collana d'oro al collo e fu pubblicamente proclamato ch'egli aveva il terzo grado di potestà nel suo regno» (Dn 5,29). Vediamo che cosa significhino Daniele, la porpora, la collana d'oro e il terzo grado nel regno. Daniele s'interpreta «causa di Dio», o «giudizio di Dio». Considera che la causa è una forza, una spinta interiore dell'animo ad agire. È chiamata causa, da casus, accaduto, avvenimento, dal quale viene. Intentare una causa è la materia di un processo, che quando viene promosso è causa, quando viene trattato è giudizio, quando si conclude è giustizia. Si dice causa anche da caos, che fu all'inizio di tutte le cose. Ciò che da origine a qualche cosa è causa.
    Daniele è figura del penitente, il quale per timore e amore di Dio fa di se stesso causa, giudizio e giustizia. Questo raffigura le tre cose su indicate: la porpora, la collana d'oro e il terzo grado nel regno.
    Il penitente fa causa a se stesso con la contrizione, la quale è origine di ogni cosa giusta ed è un impulso dell'animo a fare il bene; fa il giudizio nella confessione, nella quale mette in discussione se stesso e si esamina; fa la giustizia nella riparazione, nella quale dà a ciascuno il suo: a Dio la preghiera, a se stesso il digiuno, al prossimo l'elemosina. In questo infatti consiste la soddisfazione, o riparazione. Quindi, il Re dei re, Gesù Cristo comanda che Daniele venga vestito di porpora. La porpora, che è color sangue, sta a indicare la contrizione del cuore, dalla quale proviene il sangue delle lacrime. Si legge infatti nel quarto libro dei Re che «allo spuntar del giorno, quando il sole splendeva sulle acque, i Moabiti videro da lontano le acque rosse come sangue ed esclamarono: Questo è sangue di spada!» (4Re 3,22-23). Alla lettera s'intende così: Quando i Moabiti videro di lontano le acque del torrente attraversate dai raggi del sole, pensarono che fossero rosse di sangue e dissero: I nemici si sono uccisi a vicenda (cf. 4Re 3,23).
    Senso morale. Quando nella mente nasce il sole della grazia, allora le acque rosse delle lacrime, come sangue, vengono per la via di Edom, spuntano cioè negli occhi del penitente. E realmente queste acque sono sangue di spada. Perché quando il cuore del peccatore viene ferito dalla spada della contrizione, sparge lacrime di sangue. A ragione quindi è detto che, «per comando del re, Daniele fu vestito di porpora».
    «E gli fu posta al collo una collana d'oro». La collana è composta di vari cerchi d'oro che dal collo scendono sul petto. La collana d'oro al collo raffigura il cerchio della sincera confessione nella bocca del peccatore, di cui il Signore dice: «Ti ho posto una collana attorno al collo» (Ez 16,11). E a ragione la confessione viene chiamata collana, o anche cerchio d'oro. La Sapienza «arriva da una estremità all'altra con forza» (Sap 8,1), e il peccatore, riandando nel cerchio della confessione dal primo fino all'ultimo peccato, deve includere tutto come girando all'intorno, come faceva il profeta quando diceva: «Andai all'intorno e immolai nella sua tenda», cioè nella santa chiesa, «il sacrificio di voce» (di lode) (Sal 26,6), cioè della confessione. E di questo cerchio il Signore dice al diavolo: «Metterò un cerchio alle tue narici e ti farò tornare per la strada per cui sei venuto» (Is 37,29).
    Ricordati che in tre modi si commette il peccato mortale, che è la via per la quale il diavolo entra nell'anima, e cioè: a causa della suggestione diabolica, del piacere della carne, e del consenso della mente. Nei primi due casi si tratta di peccato veniale, nel terzo il peccato è mortale. Quando il peccatore si pente del consenso della mente nella confessione, con la quale respinge la suggestione del diavolo, si castiga con le opere riparatorie per il piacere della carne, allora il Signore mette un cerchio alle narici del diavolo, cioè alla sua astuzia e alla sua malizia e lo fa ritornare per la via per la quale è venuto. Infatti ogni cosa si cura con il suo contrario.
    «E fu proclamato ch'egli aveva il terzo grado di potestà nel suo regno». Il Regno di Cristo è la vita del giusto. «Il mio Regno non è di questo mondo» (Gv 18,36). La vita del giusto consiste nelle tre pratiche suddette. Ed è terzo nel Regno di Cristo colui che guida la sua vita con la riparazione della penitenza. In questo è raffigurata la terza piaga d'Egitto, nella quale fallirono i maghi del faraone (cf. Es 8,18-19), cioè i saggi di questo mondo, i quali non vogliono riparare ai loro peccati. Invece il vero penitente, per essere degno di partecipare al Regno dei cieli, fa di tutto per essere terzo nel Regno di quel re del quale il vangelo di oggi dice: «Il Regno dei cieli è simile ad un Re».
2. Fa' attenzione ai tre fatti posti in evidenza in questo vangelo, e cioè: il condono del debito da parte del re; l'ingratitudine del servo iniquo; la sua incarcerazione o tortura. Il primo: «Il Regno dei cieli è simile». Il Secondo: «Appena uscito, quel servo trovò». Il terzo: «Allora il padrone lo fece richiamare».
    Nell'introito della messa di oggi si canta: «Io ho pensieri di pace, dice il Signore» (Ger 29,11). Si legge quindi la lettera del beato Paolo apostolo ai Filippesi: «Sono persuaso che colui che ha iniziato in voi quest'opera» (Fil 1,6): la divideremo in tre parti, riscontrandone la concordanza con le tre suddette parti del vangelo. Prima parte: «Sono persuaso». Seconda parte: «Dio mi è testimone». Terza parte: «Perciò prego».
    E osserva che nel vangelo di oggi Matteo tratta del servo malvagio che non volle aver pietà del suo compagno; al contrario, l'Apostolo ama profondamente tutti dell'amore di Cristo, e raccomanda che anche in essi abbondi l'amore. Ecco perché questa epistola viene letta insieme con questo vangelo.
3. «Il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi». Questo uomo-re è figura di Gesù Cristo, che è uomo nella sua umanità e re nella sua divinità; è uomo nella natività, re nella passione, nella quale ebbe le insegne regali che spettano al re, e cioè la corona, la porpora e lo scettro. Ebbe la corona di spine, il manto scarlatto e in mano, quale scettro, una canna: e quindi, «piegando il ginocchio davanti a lui, lo schernivano dicendo: Ave, re dei giudei!» (Mt 27,29).
    Abbiamo su questo una concordanza in Daniele: «Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire sulle nubi del cielo», che raffigurano i predicatori, «uno simile a un figlio d'uomo, che giunse fino all'antico di giorni» (Dn 7,13), al vegliardo. Infatti «Dal più alto dei cieli è la sua venuta» (Sal 18,7), cioè la venuta di colui che è in tutto uguale al Padre e che volle fare i conti con i suoi servi. Fa i conti quando giudica i meriti di ciascuno in questo mondo, e li giudicherà poi molto più severamente in quello futuro.
    E anche su questo abbiamo una concordanza in Daniele, dove dice: «Io continuavo a guardare, quand'ecco furono collocati i troni e l'antico di giorni si assise. La sua veste era candida come la neve, e i capelli del suo capo erano come lana monda; il suo trono era come vampe di fuoco con le ruote come fuoco ardente. Un fiume di fuoco scorreva rapido davanti al suo volto: mille migliaia lo servivano e diecimila miriadi lo assistevano. La corte sedette e i libri furono aperti» (Dn 7,9-10). La Glossa spiega: Gli angeli e tutti gli eletti accompagneranno il Signore nel giudizio, e saranno i troni di Dio perché in essi egli sarà assiso. Infatti dice Matteo: «Quando il Figlio dell'uomo verrà in tutta la sua maestà e tutti gli angeli saranno con lui» (Mt 25,31), perché sono essi i testimoni di tutte le azioni degli uomini, i quali hanno operato il bene o il male sotto la loro vigilanza.
    «E l'antico di giorni - cioè il Padre - si assise». Anche se, come precisa la Glossa, appare nel giudizio la persona del Figlio, non mancheranno il Padre e lo Spirito Santo. Il Padre è da se stesso, il Figlio dal Padre, e tutto ciò che il Figlio ha, viene attribuito a colui dal quale è. Oppure è detto antico, cioè giudice vero e severo. Antico è come dire ante quam, prima che. Cristo infatti nel vangelo di Giovanni dice: «Prima che Abramo fosse, io sono» (Gv 8,58). È detto dunque di Dio che è «assiso» e «antico di giorni» perché sia palese la sua natura di giudice eterno; e viene descritto come «vecchio», affinché sia comprovata la ponderatezza della sua sentenza.
    «La sua veste era candida come la neve». Il Salvatore trasfigurato sul monte e splendente della gloria della maestà divina, appare avvolto in vesti candide. Anche nel giudizio la sua veste sarà candida: e questo sta ad indicare che il giudizio sarà limpido e giusto, e nel giudicare non ci sarà parzialità per nessuno. In verità - dice Pietro - mi rendo conto che Dio non fa preferenze di persone (cf. At 10,34). Fa' attenzione che dice: «Candida come la neve». La neve deve il suo nome alla nube, dalla quale viene. Dice Ambrogio che di solito le acque gelide si solidificano in una nube con il soffio di venti glaciali, e attraverso l'aria cade la neve. La neve è candida e fredda. Nel giudizio ci sarà il candore nei riguardi dei beati, e il rigore, il freddo, nei riguardi dei dannati. Il candore sarà nelle parole: «Venite, benedetti!»; il rigore nelle altre: «Andate, maledetti!» (Mt 25,34; 25,41).
    «E i capelli del suo capo erano come lana monda». Vedi su questo argomento la prima parte del sermone della domenica II dopo Pasqua, sul vangelo «Io sono il buon pastore».
    «Il suo trono era come vampe di fuoco». Il trono di Dio, spiega qui Origène, sono i monaci, gli eremiti e gli altri che, vivendo riuniti in un unico posto, si applicano al servizio di Dio senza andare girovagando: nei loro cuori tranquilli risiede Dio. Giustamente sono detti «vampe di fuoco» perché sono infiammati di amore di Dio e del prossimo e del desiderio della patria celeste. È detta fiamma specialmente quella della fornace, perché viene ravvivata dal soffio dei mantici. La fornace di fuoco è il cuore del giusto, dal quale, con il soffio dei mantici, cioè della contrizione e della confessione, viene accesa la fiamma della duplice carità. Dice infatti il salmo: «Che fai degli spiriti i tuoi angeli, e delle fiamme di fuoco i tuoi ministri» (Sal 103,4). Gli angeli, i messaggeri, e cioè i giusti, sono spiriti, perché non hanno gusto alcuno delle cose terrene e carnali; sono vampe di fuoco in quanto amano Dio e il prossimo.
    «Le sue ruote sono come fuoco ardente». Nelle ruote è simboleggiata la rapidità del giudizio, del quale il Signore, per bocca del profeta Malachia, dice: «Io mi accosterò a voi per il giudizio e sarò un testimone pronto contro i maldicenti, gli adulteri e gli spergiuri, contro coloro che frodano la mercede agli operai, contro gli oppressori delle vedove, degli orfani e contro chi fa torto al forestiero: costoro non mi hanno temuto, dice il Signore degli eserciti» (Ml 3,5).
    «Un fiume di fuoco scorreva rapido», cioè correva impetuoso, «davanti al suo volto». Nel fiume è indicata l'eternità delle pene, nel fuoco la severità del giudizio, e nella rapidità l'immediata caduta dei peccatori nella geenna.
    «Mille migliaia lo servivano e diecimila miriadi lo assistevano». Dice il salmo: «I carri di Dio sono migliaia di migliaia» (Sal 67,18). Due sono i compiti degli angeli. Dice Gregorio: Una cosa è assistere, e un'altra è servire. Assistono coloro che non vanno a portare i messaggi agli uomini; servono invece coloro che vanno ad adempiere il loro ufficio di messaggeri: tuttavia neppure questi interrompono la loro contemplazione di Dio. E poiché sono più numerosi coloro che servono che non quelli che hanno il compito specifico di assistere, il numero di quelli che assistono è pressoché definito, mentre il numero di coloro che servono è lasciato indefinito.
    «La corte sedette», cioè il corpo dei giudici si schierò, «e furono aperti i libri», cioè le coscienze e le opere dei singoli vengono mostrate a tutti in ogni loro parte, sia buona che cattiva. Il libro buono è quello dei viventi; il libro cattivo è quello che sta in mano all'accusatore, che è il nemico e il vendicatore, del quale nell'Apocalisse è scritto: «Questi è l'accusatore dei nostri fratelli» (Ap 12,10). E ancora: «Furono aperti i libri, e fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I morti vennero giudicati in base a ciò che era scritto in quei libri, ciascuno secondo le sue opere» (Ap 20,12). Giustamente quindi è detto: «Il Regno dei cieli è simile ad un re che volle fare i conti con i suoi servi».
4. «Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti» (Mt 18,24). Nel numero dieci è indicato il decàlogo, nel mille la perfezione del vangelo. Ogni uomo è debitore a Gesù Cristo di diecimila talenti, cioè dell'osservanza del decàlogo e del vangelo. Dice Salomone: «Temi Dio e osserva i suoi comandamenti» (Eccle 12,13). I comandamenti si chiamano in lat. mandata, come a dire manu data, dati cioè con la mano. I comandamenti del decalogo furono scritti dal dito di Dio (cf. Dt 9,10), e i comandamenti del vangelo furono dati agli apostoli dalla mano di Gesù Cristo. Merita dunque di essere osservato ciò che è dato dalla mano di Dio, e per la cui osservanza ogni uomo è stato creato.
5. «Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone comandò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e si saldasse così il debito» (Mt 18,25). Vediamo quale sia il significato della moglie e dei figli, che raffigurano le opere dell'uomo. La moglie del peccatore è figura della cupidigia di questo mondo. Questa è la statua di Nabucodonosor, della quale è detto in Daniele: Tu stavi guardando, o re, ed ecco una grande statua il cui capo era di oro purissimo, il petto e le braccia di argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro, e i piedi in parte di ferro e in parte di argilla (cf. Dn 2,31-33).
    Vediamo quale sia il significato, prima allegorico e poi morale, dell'oro, dell'argento, del bronzo, del ferro e dell'argilla.
    Senso allegorico. Questa statua è figura della santa chiesa, che negli apostoli ebbe il capo d'oro. È detto infatti nel Cantico dei Cantici: «Il suo capo è di oro purissimo» (Ct 5,11). Le braccia e il petto, in cui risiede la forza più grande, la chiesa li ebbe d'argento al tempo dei martiri, i quali affrontarono eroicamente tutte le battaglie. Infatti lo sposo stesso dice alla chiesa: «Faremo per te delle murènole d'oro, intarsiato, niellato di argento» (Ct 1,10). Le murènole sono delle collane intrecciate con sottili listelle d'oro e d'argento. Le murènole della chiesa furono l'umiltà e la povertà, che la chiesa ebbe al tempo degli apostoli; e al tempo dei martiri, perché fossero ancora più belle, furono solcate da striature di sangue, come d'argento, vale a dire rese vermiglie. L'argento unito all'oro, cioè il sangue dei martiri, nel quale hanno rese splendenti le loro stole, unito all'umiltà e alla povertà degli apostoli, presenta agli occhi della nostra mente uno spettacolo di meravigliosa bellezza.
    Similmente, la chiesa ebbe il bronzo e il ferro nei confessori della fede, che con il suono della loro predicazione sconfissero la malvagità degli eretici. Dice Mosè nel Deuteronomio: «Ferro e bronzo sono i calzari di Aser» (Dt 33,25). Aser s'interpreta «beato», e raffigura il coro beato dei confessori della fede i quali, calzati con il bronzo della predicazione e il ferro di una costanza incrollabile, calpestarono serpenti e scorpioni, vale a dire gli eretici e gli scismatici. Dice infatti il Signore per bocca di Geremia: «Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, come una colonna di ferro e un muro di bronzo, contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi prìncipi, i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ti faranno guerra ma non ti vinceranno, perché io sono con te per liberarti» (Ger 1,18-19).
    Fa' attenzione a queste tre cose: la città, la colonna, il muro. Nella città fortificata è indicata l'unità, che veramente difende e difendendo custodisce; nella colonna di ferro è indicata la carità fraterna che sostiene; nel muro di bronzo è indicata l'indomita pazienza e la costanza nella predicazione. E poiché i santi confessori Girolamo, Agostino e Ilario, e gli altri dottori della chiesa ebbero queste qualità, furono in grado di sconfiggere i costruttori di falsità.
    Parimenti, la chiesa di Cristo, poverella, sconvolta dalla tempesta, tra il fecciume del mondo, ha per così dire nei piedi il ferro e il fango, sia nei chierici che nei laici. Nel ferro è simboleggiata l'avarizia, nel fango la lussuria. Ecco quali membra si trovano nel corpo di Cristo, che è la chiesa: gli avari e i lussuriosi, i quali non sono certo la chiesa di Cristo, bensì la sinagoga di satana.
6. Senso morale. All'inizio del mondo ci furono due città: la chiesa e Babilonia. Questa statua è figura del mondo, della città di Babilonia, della sinagoga di satana; giustamente è chiamata statua, in quanto ne è la raffigurazione. Ha bocca ma non parla, perché nella bocca ha il ranuncolo (tumore) dell'avarizia; ha gli occhi ma non vede, perché l'ha accecata lo sterco della lussuria; ha gli orecchi ma non sente perché, come il serpente, tiene un orecchio appoggiato alla terra e chiude l'altro con la coda, per non sentire la voce dell'incantatore (cf. Sal 57,6-7).
    «Il suo capo era d'oro puro», ecc. L'oro è figura della sapienza del mondo, l'argento della sua eloquenza, e il bronzo, essendo molto sonoro, è figura della vanagloria; il ferro ne indica l'ostinazione e il fango l'amore alla cose temporali. Questa statua l'ha ridotta in pezzi un piccolo sasso, cioè Gesù Cristo, che - come dice Daniele - «si è staccato dal monte», è nato cioè dalla beata Vergine, «non per mano d'uomo», cioè senza concorso di uomo, «e colpì la statua ai piedi e glieli frantumò. Allora si frantumarono anche il ferro, l'argilla, il bronzo, l'argento e l'oro; e tutto divenne come la pula che il vento spazzò via, e non ne restò traccia alcuna» (Dn 2,34-35).
    Così Cristo nel suo primo avvento colpì la statua del mondo, che non fu distrutta totalmente, ma lo sarà nel giorno del giudizio. Dice infatti l'Apocalisse: È caduta, è caduta Babilonia, la prostituta che ha ubriacato il mondo con il vino della sua fornicazione (cf. Ap 14,8).
7. Altra spiegazione. Questa statua è figura del prelato della chiesa, eminente e onorato nelle cose del mondo. Questa è la statua di Baal, nome che s'interpreta «superiore» o «divoratore». Ecco l'idolo eretto nella casa del Signore, che tutto divora. Si legge infatti in Daniele che «presso i Babilonesi era venerato un idolo di nome Bel, al quale offrivano ogni giorno dodici àrtabe, misura corrispondente ad un sacco, «di fior di farina, quaranta pecore e sei anfore di vino» (Dn 14,2). Ecco quante cose divora colui che sarà a sua volta divorato dal diavolo. «Anche il re venerava quell'idolo e ogni giorno andava ad adorarlo; invece Daniele adorava il Signore, suo Dio» (Dn 14,3). Vediamo che tutto questo si avvera ogni giorno nella chiesa di Cristo. Il prelato dovrebbe almeno comportarsi come Pietro, di cui si racconta negli Atti degli Apostoli che quando Cornelio si gettò ai suoi piedi per adorarlo, Pietro lo rialzò dicendo: Àlzati, anch'io sono un uomo, come te (cf. At 10,25-26).
    E il re disse a Daniele: «Perché non adori Bel? Daniele rispose: Io non adoro idoli fatti dalla mano di uomo, ma soltanto il Dio vivo, il quale ha fatto il cielo e la terra e che è Signore di ogni essere vivente. Il re gli disse: Non ti sembra che anche Bel sia un dio vivo? Non vedi quante cose mangia e beve ogni giorno?» (Dn 14,3-5). Ahimè, quanto mangia! E i poveri gridano alla porta con il ventre vuoto e nudo. Perché mangia molto, per questo è vivo.
    «E Daniele, ridendo, disse: Non t'ingannare, o re! Quell'idolo di dentro è fango», cioè goloso e lussurioso, «e di fuori è bronzo», cioè superbo e avaro, «e non mangia mai» (Dn 14,6) il cibo che non perisce, quello che dura per la vita eterna (cf. Gv 6,27).
    Il capo di quest'idolo, o di questa statua, è d'oro; nell'oro è indicata la insipida sapienza della carne, che è stoltezza agli occhi di Dio (cf. 1Cor 3,19); nell'argento è raffigurata l'eloquenza, che è come la rana dell'Egitto. Di queste due cose il Signore, per bocca di Ezechiele, dice: «Hai preso i vasi ornamentali fatti con il mio oro e con il mio argento, che io ti avevo dato, e ne hai costruito figure umane e con esse hai fornicato» (Ez 16,17). Con l'oro della sapienza e con l'argento dell'eloquenza, che il Signore elargisce al prelato della chiesa perché siano i suoi vasi ornamentali, con i quali raccogliere la grazia dello Spirito Santo e offrirla agli altri, lo sventurato si fabbrica degli idoli quando distrugge la grazia dell'intelligenza e dell'eloquenza con una vita viziosa; pratica con quei doni la fornicazione, quando per mezzo di essi cerca la vanagloria nel postribolo del mondo.
    Similmente nel bronzo sono indicate le ricchezze, perché sono molto risonanti. «Hanno chiamato con i propri nomi le loro terre» (Sal 48,12). Dice Ezechiele: «Il tuo nome si è divulgato tra le genti» (Ez 16,14), e non tra gli angeli. Non il nome del ricco vestito di porpora, ma quello del mendìco e piagato Lazzaro è scritto nel vangelo (cf. Lc 16,20).
    Nel ferro è raffigurato il potere, con il quale [l'indegno prelato] distrugge il povero. Ma tu, Signore, «hai spezzato i denti ai peccatori» (Sal 3,8); e «il Signore spezzerà i denti dei leoni» (Sal 57,7). Questa è la belva di cui Daniele dice che era «spaventosa, terribile e d'una forza eccezionale: aveva grandi denti di ferro, divorava e stritolava, e ciò che rimaneva lo calpestava sotto i piedi» (Dn 7,7).
    Parimenti nel fango (creta) è indicata la nostra carne miseranda la quale, al giungere del sasso, cioè all'arrivo dell'ineluttabile morte, sarà colpita e distrutta. E allora l'oro della sapienza, l'argento dell'eloquenza, il bronzo delle ricchezze, il ferro del potere saranno frantumati, ridotti a nulla e dispersi dal vento, perché la carne andrà ai vermi, le ricchezze ai parenti, l'anima sarà consegnata al diavolo, e così di essi non resterà traccia alcuna.
    Giustamente quindi è detto nel vangelo: «Il padrone comandò che fosse venduto lui, la moglie e i figli» perché, come commenta la Glossa, a causa della concupiscenza del mondo e della carne, e per le opere cattive, che sono state per lui come moglie e figli, dovrà subire le pene eterne. Si degni di liberarcene colui che è benedetto nei secoli. Amen.
8. «Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Signore, abbi pazienza con me, e ti restituirò tutto» (Mt 18, 26). Ecco che cosa deve fare il peccatore finché è in vita, per non essere condotto, dopo la morte fisica, al supplizio della morte eterna con moglie e figli.
    Fa' attenzione a questi tre atti: si gettò a terra, supplicava, e restituirò tutto, nei quali sono raffigurate la contrizione, la confessione e la riparazione, per mezzo delle quali tutti i peccati vengono rimessi.
    Il latino ha il verbo procìdere, come porro càdere, cadere in avanti. Cade in avanti colui che è veramente contrito, distrutto dal dolore, colui che si considera terra. Infatti «al tuo cospetto cadranno tutti coloro che scendono nella terra» (Sal 21,30). Dice «al tuo cospetto», non al cospetto della statua di Nabucodonosor, della quale è detto in Daniele: Tutti i popoli caddero a terra per adorare la statua d'oro, che Nabucodonosor aveva fatto innalzare nella piana di Dura (cf. Dn 3,7. 1), nome che s'interpreta «bellezza» e anche «linguaggio». La statua d'oro è la gloria fallace di questo mondo, che viene innalzata dal diavolo sulla bellezza esteriore e sul linguaggio delle false promesse. Mostra la bellezza della gloria, la promette, e così tutte le genti, decadendo dalla vera gloria, adorano quella transitoria, e in essa adorano il diavolo. Dice infatti il diavolo: «Ti darò tutto questo se tu, gettandoti a terra, mi adorerai» (Mt 4,9).
    Chi dunque vuole ottenere il perdono, non si getti a terra davanti alla statua, ma davanti a Gesù; si prostri insieme con il servo, del quale è detto: «Gettatosi a terra quel servo... lo supplicava». Supplicare significa domandare qualcosa con umiltà e sottomissione. La confessione dev'essere umile e devota: umile, cioè humi acclinis, chinata verso terra, nel disprezzo e nell'accusa di sé; devota nella pronta volontà della riparazione; e allora potrà dire: «Abbi pazienza con me». Dice l'Apostolo: «Osi tu disprezzare la ricchezza della sua bontà, della sua pazienza e della sua tolleranza? Non sai che la bontà di Dio ti spinge alla conversione?» (Rm 2,4). Chi disprezza queste ricchezze sarà sempre povero e miserabile.
    «E ti restituirò tutto». Restituisce tutto colui che ripara a tutto il male commesso, in modo che la pena sia proporzionata alla colpa. «Fate frutti degni di penitenza» (Lc 3,8). E nel libro di Giosuè è detto che la regione toccata in sorte alla tribù di Giuda passava per Sina (deserto del Zin, cf. Gs 15,1. 3), nome che significa «misura». Misura è tutto ciò che si determina in peso, in capacità, in durata e col cuore. La vera riparazione deve avere queste quattro qualità: il peso della sofferenza, la capacità dell'amore, con il quale abbraccia in sé tutti, la durata della perseveranza finale e l'umiltà nel cuore. Dove si trovano riunite tutte queste disposizioni, c'è subito pronta la misericordia.
    Infatti il vangelo continua: «Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito» (Mt 18,27). Considera che la misericordia del Signore compie tre azioni: purifica l'anima dai vizi, l'arricchisce di copiosi carismi, la ricolma delle delizie dei celesti gaudi. La prima azione riempie il cuore col dolore della contrizione, la seconda lo intenerisce di amore, la terza lo inonda di rugiada celeste con la speranza dei beni eterni. E questo viene reso evidente dall'interpretazione della parola misericordia. Misericordia significa «donare un cuore misero» (lat. miserum cor dans), e questo concorda con la prima azione della misericordia del Signore; significa anche «mettere da parte la severità del cuore» (lat. mittens seorsum rigorem cordis) e questo concorda con la seconda; significa ancora «la grande dolcezza che inonda il cuore» (lat. mira suavitas corda rigans), e questo si riferisce alla terza. Il padrone dunque, ripieno di questa triplice misericordia verso quel servo, gli condonò tutto il debito.
    Con questo passo del vangelo concorda quindi in modo meraviglioso l'introito della messa di oggi, in cui il Signore misericordioso dice: «Io coltivo pensieri di pace e non di sventura», e nel vangelo: «Impietositosi il padrone di quel servo»; «mi invocherete», e nel vangelo: «gettatosi a terra lo implorava»; «e io vi esaudirò», e nel vangelo: «lo lasciò andare»; «vi farò ritornare dalla vostra prigionia» (Ger 29, 11. 12. 14), e nel vangelo: «gli condonò tutto il debito».
9. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell'epistola: «Sono persuaso nel Signore Gesù, che colui che ha iniziato in voi quest'opera buona», cioè di prostrarvi nella contrizione, di supplicare nella confessione e di restituire tutto con la riparazione, «la porterà anche a compimento fino al giorno di Cristo Gesù», cioè sino alla fine della vita, quando Dio si farà vedere. «È giusto infatti che io abbia questi sentimenti», che io cioè voglia questo «per tutti voi» (Fil 1,6-7), che io supplico di fare ciò.
    Fate in modo che la mia fiducia non sia vana. E ne espone i motivi: «perché io vi porto nel cuore», e non solo sulle labbra; desidero «che siate tutti partecipi della grazia che mi è stata concessa, sia nelle catene», partecipando alle mie sofferenze, «sia nella difesa» contro chi ci avversa, «sia nel consolidamento» dei deboli nella dottrina del vangelo, affinché anche in futuro «siate miei compagni e compartecipi dell'eterna felicità».
    E affinché siamo fatti degni di giungere a questa felicità, ti supplichiamo, Signore Gesù Cristo, tu che sei la pietra angolare (cf. Ef 2,20), di frantumare la statua della nostra concupiscenza e di condonarci il debito della nostra cattiveria.
    Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli eterni. Amen.
10. «Appena uscito, quel servo incontrò un altro servo come lui che gli doveva cento denari: afferratolo, lo strangolava dicendo: Restituiscimi ciò che mi devi!» (Mt 18,28).
    Quel servo malvagio, dimèntico della misericordia divina che gli aveva appena condonato il debito, non volle usare misericordia verso quel suo compagno. E invece aveva il dovere di aver misericordia verso il suo compagno, dopo che il padrone aveva avuto misericordia di lui.
    Quanto è grande la differenza tra i diecimila talenti e i cento denari, altrettanto grande, e anche molto di più, è la differenza tra il peccato con il quale noi offendiamo Dio e il peccato con il quale il prossimo offende noi. Se dunque Dio, Padrone di tutto il creato, ti condona un debito così grande, perché tu non condoni al prossimo un debito tanto piccolo? Chi si dimentica della misericordia usata verso di sé, non sente più misericordia per nessuno. L'uscita del servo simboleggia appunto la sua colpevole dimenticanza.
    Leggiamo nella Genesi: «Caino disse ad Abele, suo fratello: Andiamo fuori. Quando furono nella campagna, Caino si avventò contro suo fratello Abele e lo uccise» (Gn 4,8). Questo è appunto ciò che dice il vangelo: «Afferratolo, lo soffocava». Caino s'interpreta «acquisto». Eva disse: «Ho acquistato un uomo dal Signore» (Gn 4,1). Caino è figura dell'avaro il quale, quando esce dal cospetto della misericordia divina, afferra e soffoca Abele, che s'interpreta «dolore», e raffigura il povero, che patisce nel dolore della povertà.
    Senso morale. Caino uccide Abele, cioè il possesso delle ricchezze uccide il pianto della penitenza; e al possesso, che nasce per primo come Caino, segue il pianto della morte eterna. Infatti Daniele disse al re Baltassar: Non hai umiliato il tuo cuore, ma sei insorto contro il Signore del cielo e non hai dato gloria a Dio, che tiene nella sua mano il tuo respiro e tutte le tue vie. Da lui allora sono state mandate le dita di quella mano che ha scritto ciò che tu vedi inciso sulla parete: Mene «ha contato», Tekel «ha pesato», Peres «ha diviso» (cf. Dn 5,22-28).
    Nel giudizio ci saranno questi tre momenti: l'interrogatorio dei peccatori, l'accusa per tutto il bene non fatto, l'esecuzione della sentenza. E allora il regno di Babilonia sarà diviso: la sinagoga dei peccatori verrà separata dal regno dei giusti, e sarà consegnata ai Medi e ai Persiani, vale a dire ai demoni, i quali strangoleranno colui che stava strangolando gli altri.
    «Afferratolo, lo soffocava», dice il vangelo. Il verbo soffoco è formato da sub e fauce, cioè sotto e gola. Le fauci si chiamano così perché fundunt voces, attraverso di esse cioè emettiamo la voce. Chi stringe le fauci, la gola, cerca di togliere la voce e la vita. La vita del povero è la poca sostanza di cui vive, come l'anima vive del sangue (cf. Dt 12,23). Se tu al povero sottrai la sua piccola sostanza, gli cavi il sangue, gli stringi la gola: ma poi sarai tu stesso strangolato dal diavolo.
11. «E quel suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti restituirò tutto. Ma egli non volle ascoltarlo: andò e lo fece gettare in carcere, finché avesse rifuso il debito» (Mt 18,29-30).
    O servo malvagio! Proprio con le stesse parole hai supplicato il padrone, ed egli ti ha condonato il debito; e tu, supplicato dal tuo compagno per la stessa cosa, non hai voluto condonarglielo e lo hai fatto gettare in carcere! Ma credimi, verrà il giorno in cui si avvereranno le parole di Salomone: Chi chiude i suoi orecchi al grido del povero, quando sarà lui a gridare non sarà ascoltato (cf. Pro 21,13).
    Il carcere è questo mondo, vera fornace di Babilonia. Infatti abbiamo la concordanza in Daniele, dove si racconta che i servi di Nabucodonosor «non cessavano di aumentare il fuoco della fornace con bitume, stoppa, pece e sarmenti» (Dn 3,46). Il bitume è detto in lat. naphta (si pronuncia nafta), e alcuni dicono che questa naphta è fatta di ossi di olive e morchia dell'olio. La stoppa si chiama così perché serve a stoppare (calafatare) le fessure delle barche. La pece è detta in lat. pix, da pino, dal quale si ricava. I sarmenti, detti in lat. malleoli, sono i tralci delle viti, i maglioli.
    Nella nafta è raffigurata l'avarizia, che è priva dell'olio della misericordia, e in essa c'è soltanto la morchia del denaro. Spremi l'olio dalle olive, e resta la morchia; togli l'olio della misericordia al denaro: esso solo resterà, fuoco di eterna morte. Nella stoppa è raffigurata la vanagloria, che ben presto brucia e scompare. Nella pece, che manda un denso fumo, è raffigurata la lussuria che infetta l'anima e fa perdere il buon nome. Nei sarmenti, nei tralci, è raffigurata la superbia: i superbi infatti sono tagliati dalla vera vite che è Gesù Cristo.
    Con questi quattro combustibili si alimenta il fuoco della fornace di Babilonia e brucia anche tutto questo mondo; e in questa fornace ci sono i tre fanciulli Sadrach, Mesach e Abdènego. Ma l'angelo del Signore allontana da loro la fiamma del fuoco e rende fresco l'interno della fornace, come se vi spirasse un brezza rugiadosa; e così il fuoco non li tocca per nulla (cf. Dn 3,49-50). Questi tre fanciulli raffigurano quelle tre virtù che hanno il potere di far uscire illesi dalla fornace del mondo coloro che ne sono dotati.
    In Sadrach, il cui nome s'interpreta «mio decoro» è raffigurata la castità. Si legge nel Cantico dei Cantici: Tu sei bella e leggiadra, per la castità interiore ed esteriore, o figlia di Gerusalemme! (cf. Ct 6,3). E nella Genesi: «Figlio crescente, Giuseppe, e bello di aspetto» (Gn 49,22). E ancora: «Rebecca fanciulla molto avvenente, vergine bellissima» (Gn 24,16). E anche Rachele era «bella di volto e avvenente di aspetto» (Gn 29,17).
    Mesach , il cui nome s'interpreta «sorriso», raffigura la pazienza, che sa sorridere anche nelle tribolazioni.
    Abdènego, il cui nome significa «servo silenzioso», raffigura l'obbedienza, che si sottomette di buon animo e non fa parola alcuna di ciò che sarebbe la sua volontà. Coloro che sono forniti di queste tre virtù vengono liberati dal fuoco della fornace, vale a dire dall'incendio dei vizi, per opera dell'angelo della Provvidenza e per mezzo della brezza rugiadosa, cioè per opera della grazia dello Spirito Santo.
    «Gli altri servi, visto quello che accadeva, furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l'accaduto» (Mt 18,31). Gli altri servi, come spiega la Glossa interlineare, raffigurano i predicatori del vangelo, o anche gli angeli, che riferiscono a Dio le opere degli uomini. Infatti l'angelo disse a Daniele: «Fin dal primo giorno in cui ti sei sforzato di intendere, umiliandoti davanti a Dio, le tue parole sono state ascoltate e io sono venuto per le tue parole» (Dn 10,12). E la Glossa commenta: Da quando hai incominciato a implorare la misericordia di Dio con le lacrime, con il digiuno e le preghiere, io ho colto l'occasione di presentarmi al cospetto di Dio per intercedere per te.
12. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell'epistola: «Dio mi è testimone, in qual modo io desideri tutti voi nelle viscere di Gesù Cristo» (Fil 1,8), vale a dire «nel profondo amore di Cristo», perché siate da lui amati, o perché anche voi amiate Dio e il prossimo con lo stesso amore con cui vi ama Cristo, che ha dato la sua vita per voi. Certamente non desiderava questo il servo malvagio, che voleva strangolare il suo compagno.
    È detto testimone colui che osserva ciò che è stabilito. Ottimo testimone il beato Paolo che osservava in se stesso e negli altri il comando di Gesù Cristo. Le viscere sono le parti interne del corpo che stanno attorno al cuore, e il loro nome suona come «vivide», perché in esse è contenuta la vita e l'anima. Le viscere di Gesù Cristo sono l'amore con il quale ci ha amati, e del quale l'anima nostra vive. Ovunque è morte: solo nelle viscere di Cristo è la vita.
    Dice la Storia Naturale che esistono soltanto quattro esseri che vivono unicamente dei quattro elementi della natura. L'alice, un pesciolino, che vive solo di acqua; il camaleonte, che vive solo di aria; la salamandra, che vive solo di fuoco, e la talpa, che vive solo di terra.
    Del camaleonte dice Solino che non prende cibo e non si nutre di liquidi, e di null'altro vive che aspirando aria. È un quadrupede, dal movimento lento e pesante come quello delle testuggini, dal corpo rozzo, di colore vario che può cambiare in un istante, in modo da prendere il colore delle cose sulle quali si trova. Ci sono solo due colori che non è in grado di prendere: il rosso e il bianco; gli altri colori li assume tutti con facilità. D'inverno se ne sta rintanato, mentre esce all'aperto d'estate. Da chiunque venga ucciso, dopo ucciso uccide il suo uccisore. Infatti se un volatile mangia anche un minimo pezzo del suo corpo, subito muore. Ma se se ne ciba il corvo, o altri uccelli della stessa specie, che hanno il nome dal suono che emettono, la natura li aiuta a trovare un rimedio, una medicina. Infatti quando incominciano a sentirsi male, mangiano foglie di alloro e così guariscono.
    La salamandra è così chiamata perché è in grado di resistere al fuoco. Se si arrampica su di un albero ne intossica tutti i frutti, e non soltanto non si brucia in un incendio, ma lo spegne. È chiamata anche lucertola, in lat. stellio, e di essa Salomone dice: «Si prende con le mani e abita nei palazzi dei re» (Pro 30,28). Il nome stellio le viene dal suo colore: ha infatti il corpo coperto come di punti lucenti a forma di stelle.
    Parimenti la talpa è così chiamata perché è condannata a perpetua cecità: infatti è senza occhi e passa la vita a perforare la terra.
    Dato che abbiamo stabilito di trattare della carità, che è la vita dell'anima, se nella natura di questi quattro esseri riusciamo a trovare qualcosa di utile ad incrementare la pratica di questa virtù, vogliamo esporlo a questo punto. Per il momento non vogliamo quindi parlare del loro veleno e della loro astuzia.
    Considera che la carità consiste soprattutto in quattro atti: nella compunzione del cuore, nella contemplazione della gloria, nell'amore verso il prossimo e nella continua considerazione della propria bassezza.
    Nell'alice, minuscolo pesciolino, è raffigurato l'umile penitente che vive solo dell'acqua delle lacrime. Infatti dice con il Profeta: «Ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio e irroro di lacrime il mio letto» (Sal 6,7): inondo di lacrime la mia coscienza per ogni singolo mio peccato, che ha il potere di condurmi alla notte eterna, e irroro di lacrime il mio corpo, prostrato dalla penitenza, affinché germogli l'erba verdeggiante capace di produrre il seme e la pianta fruttifera che faccia frutto secondo la sua specie (cf. Gn 1,12).
    Su questo argomento vedi il sermone della domenica di Settuagesima: «In principio Dio creò il cielo e la terra».
13. E poiché l'umile penitente vive solo dell'acqua delle lacrime, abbiamo una chiara concordanza in Daniele, dove dice: «Io, Daniele, continuai a piangere per tre settimane, non mangiai pane raffinato, e vino e carne non entrarono nella mia bocca, e neppure mi unsi di unguento finché non furono compiute le tre settimane» (Dn 10,2-3).
    Osserva che il grande pianto produce tre effetti: annebbia gli occhi, turba la testa, e fa impallidire il volto. E così anche l'occhio del vero penitente, che prima era solito saccheggiare la sua anima, si annebbia perché non possa più vedere una donna per desiderarla (cf. Mt 5,28), e si chiude perché la morte non entri da quella finestra (cf. Ger 9,21). La sua testa, cioè la sua mente, si turba a motivo dei peccati commessi; infatti, insieme con il figlio della Sunammita, dice: «Mi duole la testa, mi duole la testa!» (4Re 4,19). Questa ripetizione sta ad indicare la violenza del dolore. Il suo volto si fa pallido a motivo della mortificazione del corpo; infatti «vennero meno la mia carne e il mio cuore» (Sal 72,26), si mitigò cioè l'impudenza della carne e la superbia del mio cuore. Queste sono le tre settimane durante le quali il penitente piange. Oppure anche: piange per tre settimane perché in tre modi ha offeso la santa Trinità: con il cuore, con la bocca e con le opere.
    «Non mangiai pane raffinato». Commenta la Glossa: Si astenne da cibi raffinati, come dobbiamo fare anche noi, e molto di più, nel tempo del digiuno. Infatti coloro che si cibano di cose illecite, devono poi astenersi anche da quelle lecite. Oppure, il pane raffinato simboleggia anche il lusso secolaresco, che oggi è desiderato da molti, e del quale Salomone dice: «Gradito è all'uomo il pane della menzogna», cioè del lusso del mondo, che finge di essere qualcosa, mentre è niente; «ma poi la sua bocca sarà piena di sassi» (Pro 20,17), sarà cioè colpito con il castigo eterno. E anche Giobbe dice: «Il suo pane gli si guasterà nelle viscere, si cambierà in fiele di vipera» (Gb 20,14). Il penitente non mangia di questo pane, anzi dice nel salmo: «Mi nutrivo di cenere come di pane» (Sal 101,10). E la Glossa commenta: Mi nutrivo di cenere, cioè dei rimasugli dei peccati, come di pane: facendo penitenza consumavo anche i peccati più leggeri, i veniali, perché anche quelli devono essere distrutti con la penitenza.
    «E alla mia bevanda», cioè alla felicità temporale, «io mescolo il pianto» (Sal 101,10). Infatti aggiunge: «Carne e vino», in cui è indicata la concupiscenza della carne e la gloria del mondo, «non entrarono nella mia bocca». La carne è detta in lat. caro, perché cara, amata; e il vino ha il nome che richiama la vena, perché bevuto riempie subito di sangue le vene. «E non mi unsi di unguento»; e qui abbiamo la concordanza nel libro del profeta Amos, dove dice: Guai a voi «che mangiate l'agnello del gregge e i vitelli scelti da tutto l'armento... bevendo vino in larghe coppe e ungendovi con gli unguenti più raffinati» (Am 6,4. 6). Il penitente invece pratica tutte le mortificazioni suddette finché sono complete le tre settimane, cioè finché ha riparato a tutti i peccati e ha ricevuto il perdono dalla santa Trinità.
14. Il camaleonte è figura del contemplativo, che vive solo di aria, vale a dire della dolcezza della contemplazione. Dice infatti con l'Apostolo: «La nostra patria è nei cieli» (Fil 3,20). E in Giobbe leggiamo: «La mia anima ha scelto la sospensione» (Gb 7,15). La sospensione simboleggia l'elevazione dello sguardo interiore al Signore.
    Il giusto si solleva dalla terra con la fune dell'amore divino e resta come sospeso in aria per la dolcezza della contemplazione, ed allora si trasforma, per così dire, tutto in aria, come non avesse più il corpo, non fosse più oppresso dalla carnalità. È detto infatti di Giovanni Battista che era «voce di uno che grida nel deserto» (Mt 3,3; Gv 1,23). La voce è aria, e Giovanni era aria e non carne, perché non aveva più il gusto delle cose terrene ma solo di quelle celesti.
    È detto nell'Esodo che sotto i piedi del Signore c'era come un lavoro di pietra di zaffiro (cf. Es 24,10). Sotto i piedi di Cristo, cioè sotto la sua umanità, sono poste, come sgabello, le menti dei giusti. Infatti sta scritto che Maria [di Magdala] sedeva ai piedi del Signore (cf. Lc 10,39). E ancora: Le donne «si avvicinarono e gli cinsero i piedi» (Mt 28,9). E nel Deuteronomio: «Coloro che si avvicinano ai suoi piedi, riceveranno il suo insegnamento» (Dt 33, 3). Lo zaffiro è color del cielo. La mente dei giusti, sottomessa all'umanità di Gesù Cristo con la fede e con l'umiltà, è come un prezioso lavoro di pietra di zaffiro.
    Fa' attenzione a queste tre cose: lavoro, pietra, e zaffiro. Lavoro, cioè la fatica della penitenza; di essa dice Salomone: «Sistema il tuo lavoro all'esterno e lavora con cura il tuo campo», cioè la tua anima: «poi costruirai la tua casa» (Pro 24,27), cioè la tua coscienza. Di pietra, per la costanza della mente; dice Zaccaria: In un'unica pietra ci sono sette occhi (cf. Zc 3,9), vale a dire: nell'uomo perseverante ci sono i sette doni della grazia. Di zaffiro, per la dolcezza della contemplazione.
    Leggiamo in Ezechiele che «sopra il capo dei cherubini c'era come una pietra di zaffiro» (Ez 10,1). «Sopra il capo dei cherubini», cioè nella mente dei giusti, che sono ricolmi di quella scienza che sola sa insegnare e sola rende saggi. Osserva qui che quegli esseri, che Ezechiele aveva chiamato all'inizio «quattro animali», qui li chiama cherubini: quindi chiama quegli animali con il nome degli angeli, perché erano alati. C'è da notare che di quegli esseri non è scritto che avessero estremità o becchi di uccello, ma solo le ali. Infatti neppure i giusti hanno degli uccelli gli artigli ricurvi della rapina e della violenza, e neppure il becco per dilaniare o calunniare i fratelli, ma solo le ali della divina contemplazione; e per richiamarsi a questo, la natura ha dato all'uomo le unghie diritte e non ricurve.
15. Si legge nella Storia Naturale che gli uccelli dotati di artigli adunchi, quando vedono che i loro piccoli sono in grado di volare, li spingono e li gettano fuori dal nido; e quando i piccoli sono cresciuti non si curano più di loro. Così si comportano anche certi avari, spietati, i quali, se vedono dei poveri e degli ammalati che migliorano un po', e, quel che è peggio, anche quando sono ancora ammalati, li cacciano dalla propria casa. Invece sul capo dei Cherubini c'è la pietra di zaffiro, perché la mente dei giusti è nobilitata e illuminata dalla felicità della contemplazione.
    La salamandra è figura dell'uomo caritatevole, che vive solo del fuoco della carità. Leggiamo nell'Ecclesiastico: «Sorse Elia simile al fuoco, e la sua parola bruciava come fiaccola» (Eccli 48,1), perché l'opera e la parola del giusto ardono di carità. Giustamente quindi è chiamato anche stellio, perché è come risplendente di stelle, cioè dello splendore delle opere buone. Di lui dice Salomone che si «adopera con le sue mani», cioè con le sue opere, per quanto riguarda il prossimo, «e dimora nei palazzi dei re», cioè nella contemplazione, per ciò che riguarda Dio.
    Analogamente, la talpa è figura dell'uomo disprezzato e abbandonato, che vive soltanto di terra, perché si riconosce terra e peccatore, e mai dimentica quella maledizione: Sei terra e terra ritornerai (cf. Gn 3,19). Egli, nella cecità di questo esilio, si accontenta solo della terra, perché non mangia la carne degli altri, cioè non giudica gli altri peccatori e non li condanna, ma nell'amarezza della sua anima considera solo i suoi peccati, desiderando che tutti siano nelle viscere di Gesù Cristo (cf. Fil 1,8).
    Fratelli carissimi, supplichiamo umilmente Gesù Cristo che ci riunisca nelle viscere del suo amore, ci faccia vivere dell'acqua della compunzione, dell'aria della contemplazione, del fuoco della carità e della terra dell'umiltà, in modo da essere degni di giungere fino a lui che è la vita.
    Ce lo conceda egli stesso, che è benedetto nei secoli. Amen.
16. «Allora il padrone fece chiamare quel servo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, come io ho avuto pietà di te? E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il debito» (Mt 18,32-34).
    Da questo brano del santo vangelo si deduce chiaramente che i peccati rimessi riviviscono. Voglio quindi riportare qui tutto ciò che ho trovato nelle Sentenze su questo argomento.
    Si domanda se i peccati rimessi (già perdonati) riviviscano. La soluzione di questo problema è oscura e ambigua, perché mentre alcuni affermano, altri negano che i peccati una volta rimessi possano rivivere per essere nuovamente colpiti dal castigo. Quelli che sostengono la riviviscenza dei peccati rimessi, si fondano sulle seguenti affermazioni: Ambrogio. Perdonatevi a vicenda se uno ha peccato contro un altro, altrimenti il Signore fa rivivere i peccati rimessi. Infatti se viene disprezzato in questo precetto (del perdono), senza dubbio egli considererà nulla la penitenza per la quale ha concesso la sua misericordia, come si legge nel vangelo del servo malvagio, che è stato sorpreso mentre infieriva contro il suo compagno (cf. Mt 18,34-35).
    Rabano. Dio consegnò il servo malvagio agli aguzzini finché avesse restituito tutto il debito, perché all'uomo non vengono imputati per il castigo solo i peccati commessi dopo il battesimo, ma anche il peccato originale che nel battesimo gli era già stato rimesso.
    Gregorio. Da quanto è detto nel vangelo, consta che se non perdoniamo di cuore ciò che è stato commesso contro di noi, ci verrà di nuovo chiesto conto anche di ciò che, con gioia, pensavamo ci fosse stato rimesso con la penitenza.
    Agostino. Dio dice: Perdona, e ti sarà perdonato (cf. Lc 6,37). Ma io ho perdonato prima. Tu perdona almeno dopo, perché se non perdonerai ti richiamerò e ti domanderò di nuovo conto di ciò che ti avevo perdonato. E ancora: Colui che, dimentico della bontà divina, vuole vendicarsi delle ingiurie, non solo non meriterà il perdono per i peccati futuri, ma gli sarà chiesto di nuovo conto anche dei peccati passati, che credeva gli fossero già stati perdonati.
    Beda. «Ritornerò nella casa dalla quale sono uscito» (Mt 12,44). Si deve aver timore di ciò che dice questo versetto e tenerne conto, perché non accada che la colpa che in noi credevano estinta, non ci ricada addosso di nuovo per la nostra indolenza. E ancora: Chiunque, dopo il battesimo, viene vinto di nuovo dalla malvagità dell'eresia o dalla concupiscenza mondana, questi peccati lo precipiteranno di nuovo nel profondo di tutti i vizi.
    E ancora Agostino. Che i peccati rimessi riviviscano, là dove non c'è la carità fraterna, lo insegna chiaramente il Signore nel vangelo del servo malvagio, al quale il padrone richiese la restituzione del debito già condonato, perché lui non aveva voluto condonare il debito al suo compagno.
    Sono queste le affermazioni di coloro che sostengono che i peccati rimessi riviviscono, se vengono commessi di nuovo.
    Ad essi si obietta: Non sembra giusto che uno venga punito di nuovo per il peccato di cui ha fatto penitenza e che gli è stato perdonato. Se viene punito perché ha peccato e non si è emendato, evidentemente questo è giusto. Se invece gli viene chiesto conto di ciò che gli è stato condonato, questa o è un'ingiustizia, oppure è una giustizia misteriosa. Si ha infatti l'impressione che anche Dio giudichi e condanni due volte per lo stesso peccato, e che il castigo sia inflitto due volte, ciò che la sacra Scrittura nega (cf. Na 1,9)1.
    Ma a questo si può rispondere che non c'è un doppio castigo e che Dio non giudica due volte lo stesso peccato: ciò avverrebbe se dopo un'adeguata riparazione e una giusta pena, Dio lo punisse di nuovo; ma chi non è stato perseverante non ha riparato né adeguatamente né giustamente. Deve infatti ricordarsi continuamente del peccato commesso, non per ricadervi ma per guardarsene; non deve dimenticare tutti i doni di Dio, che sono tanti quanti sono i peccati perdonati (cf. Sal 102,2). Doveva sempre pensare che tanti erano i doni di Dio quanti erano i suoi peccati, e per quei doni rendere grazie senza fine. Ma siccome è stato ingrato, ed è ritornato al vomito come il cane (cf. 2Pt 2,22), ha distrutto tutto il bene fatto in precedenza, ha richiamato in vita il peccato rimesso, e così Dio, che gli aveva perdonato il peccato quando si era umiliato, ora glielo imputa di nuovo, vedendolo superbo ed ingrato.
    Ma poiché sembra irragionevole che i peccati rimessi vengano imputati di nuovo, alcuni sono del parere che nessuno venga punito di nuovo da Dio per i peccati una volta perdonati. E allora si dice che i peccati rimessi riviviscono e vengono imputati, perché a causa dell'ingratitudine il peccatore viene ritenuto colpevole come lo era in antecedenza. E si dice che viene chiesto conto di ciò che era già stato rimesso, perché il peccatore è stato ingrato del perdono ricevuto, e così ridiventa reo come lo era prima.
    Ci sono dottori favorevoli sia all'una che all'altra posizione; e perciò io, senza pronunciarmi né per l'una né per l'altra, lascio il giudizio all'intelligente lettore, aggiungendo che per me sarà cosa sicura e vicina alla salvezza «il mangiare le briciole che cadono sotto la mensa dei padroni» (Mt 15,27).
17. Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell'epistola: «E perciò prego che la vostra carità abbondi sempre di più in ogni conoscenza e in ogni genere di discernimento» (Fil 1,9). La carità deve abbondare, cioè crescere nella conoscenza, affinché l'uomo riesca a giudicare e a distinguere non solo il male dal bene, ma anche tra il bene e il meglio. E quindi aggiunge: «Perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere sinceri», cioè senza doppiezza per quanto riguarda voi, «senza ostilità» nei riguardi degli altri, «per il giorno di Cristo» (Fil 1,10), cioè fino al giorno della morte o del giudizio finale.
    Tutte queste cose il servo malvagio non le praticò, perché non fu sincero nei riguardi di Dio che gli aveva condonato il debito, né evitò l'ostilità verso il compagno, che anzi tentò di strangolare e fece gettare in carcere. Perciò nel giorno di Cristo egli stesso sarà consegnato ai carnefici, cioè ai demoni, e così sarà proprio strangolato.
    «Ricolmi dei frutti di giustizia», cioè delle opere che sono frutto della giustizia, «ottenuti per mezzo di Gesù Cristo», non con le vostre forze, «a gloria e lode di Dio»: entrerete così nella gloria eterna per lodare eternamente Dio; o anche: voi stessi sarete la gloria e la lode di Dio, affinché anche per merito vostro si possa dire: «Dio è mirabile nei suoi santi» (Sal 67,36), cioè nei suoi santi opera meraviglie, ossia conferisce loro il potere di operarle.
    Fratelli carissimi, imploriamo e supplichiamo il Signore che ci perdoni i peccati passati, ci conceda la grazia di non ricadervi e di perdonare di cuore al prossimo, per essere fatti degni di giungere alla sua gloria, nella quale egli è degno di lode e glorioso per i secoli eterni. Amen. Alleluia.