Sermoni Domenicali

DOMENICA II DOPO L'OTTAVA DELL'EPIFANIA

1. In quel tempo: «Quando Gesù fu sceso dal monte, molta folla lo seguiva. Ed ecco venire un lebbroso», ecc. (Mt 8,1-2).
    Leggiamo nel libro della Sapienza: «Non un'erba né un unguento li risanò, ma la tua onnipotente Parola, o Signore, che tutto risana» (Sap 16,12). Fa' attenzione a queste due parole: erba e unguento. Nell'erba sono indicate le ricchezze transitorie, nell'unguento, o empiastro, la sapienza di questo mondo.
    Il verdeggiare dell'erba raffigura il lusso della ricchezza, la quale, quando arde la fiamma della morte, si secca. Dice Giacomo: «Il ricco passerà come fiore d'erba. Si levò il sole con il suo ardore e fece seccare l'erba e il suo fiore cadde e la bellezza del suo aspetto svanì. Così il ricco appassirà nelle sue imprese» (Gc 1,10-11). E Isaia: «La canna e il giunco marciranno» (Is 19,6). Nella canna, che all'esterno è lucida e all'interno è vuota, è simboleggiata la vanagloria; nel giunco, che è avido d'acqua, la cupidigia delle ricchezze, le quali poi alla morte marciranno. Dice Isaia: «Sarà come il fiore caduco della splendida gloria di Efraim» (Is 28,4), cioè dei carnali, i quali dicono: «Non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera; coroniamoci di rose prima che avvizziscano, e non ci sia prato che sfugga alle scorribande della nostra lussuria» (Sap 2,7-8).
    O sventurati! Che giova al ladrone, se viene trascinato alla forca attraverso un prato verdeggiante e fiorito? E al ricco epulone che vantaggio ha dato la porpora e il bisso, se dopo un po' è stato sepolto nell'inferno? (cf. Lc 16,19. 22). «Io so - dice Giobbe - che il plauso degli empi dura poco, e il giubilo dell'ipocrita è come un punto» (Gb 20,4-5), cioè dura un solo istante. Ecco, adesso sai perché l'erba delle ricchezze non guarisce l'anima dalla malattia del peccato, anzi piuttosto la uccide. In quell'erba infatti non c'è salute ma veleno, veleno che si espelle solo con l'antidoto della povertà.
    Così, neppure l'unguento (il balsamo) della sapienza del mondo dà la salute perché, come dice Isaia: «I saggi consiglieri del faraone gli diedero un consiglio stolto» (Is 19,11). A quel consiglio non si deve attenere l'anima di coloro che cercano il Signore (cf. Gn 49,6). La loro sapienza è svanita (cf. Sal 106,27): essi stanno sempre lì a studiare, ma non giungono mai alla conoscenza della verità (cf. 2Tm 3,7). «Come Iannes e Iambres - sapienti del faraone - si opposero a Mosè, così costoro si mettono contro la verità: uomini dalla mente corrotta e riprovati in materia di fede. Essi però non potranno progredire» (2Tm 3,8-9). Come potranno dunque conferire la salute coloro che dalla salute sono così lontani? Non è dunque l'erba delle ricchezze che risana il lebbroso; anzi, quel che è peggio, rende lebbroso un sano. Né l'unguento della sapienza terrena risana il servo paralizzato, ma, peggio ancora, lo strazia crudelmente (cf. Mt 8,6). «Sono sapienti nel fare il male, ma non sanno fare il bene» (Ger 4,22).
    «Invece è la tua onnipotente parola, o Signore, - «Lo voglio, sii mondato! (Mt 8,3), e «Va', e sia fatto secondo la tua fede» (Mt 8,13) - che guarisce il lebbroso e il servo paralizzato del centurione. Di tutto questo parla il vangelo di oggi: «Quando Gesù fu sceso dal monte».
2. In questo vangelo si devono considerare due eventi: la guarigione del lebbroso e quella del servo paralizzato. Il primo dove dice: «Quando Gesù fu sceso dal monte»; il secondo: «Entrato Gesù in Cafarnao».
    Nell'introito della messa di oggi si canta: «Adorate il Signore, voi tutti suoi angeli» (Sal 96,7). Si legge poi la lettera ai Romani: «Non vogliate essere prudenti ai vostri occhi»; la divideremo in due parti e la confronteremo con le due parti del brano evangelico. La prima parte: «Non vogliate», ecc. ; la seconda: «Se il tuo nemico ha fame».
 
3. «Quando Gesù fu sceso dal monte». Vediamo che cosa significhi il monte, e che cosa la discesa di Gesù.
    Il monte è l'eternità della gloria celeste. Dice il salmo: «Chi salirà il monte del Signore?» (Sal 23,3). Colui che scende da se stesso «e si umilia, si fa piccolo come un bambino» (Mt 18,4), questi è colui che discende dal monte. La discesa di Gesù nella carne umana fu la sua umiliazione: «Abbassò i cieli» della divinità «e discese» (Sal 17,10) nel grembo della Vergine Madre.
    Poiché abbiamo trattato già varie volte di questo argomento, affinché la ripetizione non produca noia, non vogliamo insistervi ulteriormente, ma passiamo alla guarigione del lebbroso, come sia stata operata e quale ne sia il significato morale.
    «Ed ecco venire un lebbroso e prostrarsi davanti a lui» (Mt 8,2).
    Per le varie specie di lebbra e il loro significato, vedi il vangelo dei dieci lebbrosi, sermone della domenica XIV dopo Pentecoste, parte II.
    Questo lebbroso è figura del peccatore colpito dalla lebbra del peccato mortale. Il Levitico dice: «Quando il colore bianco compare sulla pelle, e il colore dei capelli cambia, e sulla pelle compare la carne viva, si tratta certamente di lebbra inveterata e sviluppata nel corpo» (Lv 13,10-11). Nel colore bianco sono indicate la superbia e la vanagloria; nel cambiamento del colore dei capelli l'avarizia; nella carne viva la lussuria. Ecco la lebbra ormai inveterata. Dice il Signore: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che assomigliate a sepolcri imbiancati: all'esterno sono belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all'esterno, davanti agli uomini, ma dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità» (Mt 23,27-28). E Paolo: «Dio ti colpirà, muro imbiancato!» (At 23,3).
    Così pure del cambiamento che l'avarizia produce, dice Giacobbe a Lia e a Rachele: «Il vostro padre si è beffato di me e ha cambiato dieci volte il mio salario» (Gn 31,7). Quante volte l'avarizia cambia il colore dei capelli, cioè i pensieri della mente. «Lo stolto, cioè l'avaro, cambia come la luna» (Eccli 27,12). Cresce e cala, e non può mai restare lo stesso; ha due pesi e due misure, e perciò è in abominio davanti Dio (cf. Pro 20,10). Dice infatti Michea: «Nella casa dell'empio ci sono ancora, come fuoco, i tesori iniquamente accumulati, e le misure scarse sono ripiene d'ira. Potrò io giustificare le false bilance e il sacchetto dei pesi falsi? Con essi i ricchi della città si sono riempiti di ingiustizie e i suoi abitanti dicono menzogne e nella loro bocca c'è una lingua ingannatrice» (Mic 6,10-12). Quante le lingue, tante le coscienze. Questo non è «il mutamento della destra dell'Altissimo» (Sal 76,11). «La loro destra è ricolma di regali» (Sal 25,10), e perciò saranno posti a sinistra.
    Parimenti, la lussuria è così chiamata dal lusso del cibo e delle bevande, per il cui eccesso la carne viva e sfrontata si dà alla lussuria. Vivendo in questo modo, «nessun vivente sarà giustificato al tuo cospetto» (Sal 142,2), anzi sarà condannato. Dice Rebecca: «Sono disgustata della mia vita, a causa delle figlie di Hit», nome che s'interpreta «vita»; se Giacobbe prenderà in moglie una donna di questo paese, non voglio più vivere» (Gn 27,46). Gesù Cristo, crocifisso e morto, non prese una «sposa viva», ma crocifissa e morta. Dice infatti l'Apostolo: «Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con i suoi vizi e le sue passioni» (Gal 5,24), e soggiunge: «Io porto nel mio corpo le stimmate del Signore Gesù» (Gal 6,17).
    Carne viva, carne lebbrosa: la sua vita non è vita, ma dev'essere detta piuttosto morte. Chi si trova in questo stato, se vuole vivere venga alla Vita, come fece il lebbroso, del quale appunto è detto:
4. «Ed ecco venire un lebbroso che, prostratosi, lo adorava dicendo: Signore, se tu vuoi, puoi mondarmi» (Mt 8,2). Nelle tre parole: venne, adorò, disse, sono indicate la contrizione, la confessione e la fede, che sono assolutamente necessarie ad ogni peccatore. Il peccatore deve anzitutto andare a Dio con la contrizione. È detto nel Cantico dei Cantici: «Vieni dal Libano!» (Ct 4,8), vieni cioè dal falso splendore della vanità del mondo; e nell'Apocalisse: «Chi ascolta, dica: Vieni!» (Ap 22,17). Chi sente nella sua mente il soffio della brezza leggera (cf. 3Re 19,12-13), che è l'ispirazione interiore, deve dire al peccatore: Vieni, per mezzo della contrizione. Anche Isaia dice: «Se volete cercare, cercate; convertitevi e venite» (Is 21,12).
    «Il lebbroso dunque venne e lo adorò». Ecco l'umiltà della confessione, della quale Marco con più precisione dice: «Venne da lui un lebbroso, supplicandolo, e piegato il ginocchio, disse: Se vuoi... « (Mc 1,40). Così il peccatore, quando va alla confessione, deve piegare le ginocchia davanti al sacerdote, che rappresenta Cristo, al quale Cristo stesso ha dato il potere di legare e di sciogliere. Il peccatore deve professare una fede così grande nella dignità del ministero del sacerdote, da dirgli: «Signore, se vuoi, puoi mondarmi», e assolvermi dai miei peccati.
    «Gesù, stendendo la mano, lo toccò e disse: Lo voglio, sii mondato!» (Mt 8,3), così, in modo imperativo. O mani piene di grazia, mani d'oro, ricolme di giacinti (cf. Ct 5,14), al cui tocco si scioglie il nodo della lingua del muto, risuscita la figlia del capo della sinagoga, la lebbra del lebbroso viene mondata! Dice Isaia: «Tutto questo ha fatto la mia mano» (Is 66,2). Mano suona quasi come munus, dono. O Signore, stendi dunque, per porgere il dono, quella mano che fu tenuta stesa sulla croce dal chiodo, e tocca il lebbroso; tutto ciò che con essa toccherai sarà mondato e risanato.
    «E toccandogli l'orecchio - racconta Luca - lo guarì» (Lc 22,51). Stese la mano e largì il dono della guarigione dicendo: «Lo voglio, sii mondato! E subito la sua lebbra scomparve» (Mt 8,3). «Egli opera tutto ciò che vuole» (Sal 113B,3). Tra il suo dire e il suo fare non c'è distanza alcuna.
    Questa stessa cosa il Signore opera ogni giorno nell'anima del peccatore con il ministero del sacerdote, il quale pure deve compiere questi tre atti: stendere, toccare, volere. Stende la mano quando effonde a Dio la sua preghiera per il peccatore, e soffre di compassione per lui; lo tocca quando lo consola e gli promette il perdono; ha la volontà di mondarlo quando lo assolve dai suoi peccati. E questo è quel triplice «pascere», che Gesù rivolse a Pietro, quando gli disse «Pasci... pasci... pasci!» (Gv 21,15-17).
5. «E gli disse Gesù: Guàrdati dal dirlo a qualcuno!» (Mt 8,4). Certamente non dicono e non pensano così coloro che, quando fanno qualcosa di bene, suonano la tromba davanti a sé, e la loro sinistra sa molto bene quello che fa la loro destra (cf. Mt 6,3); coloro che «prostituiscono la loro figlia», mentre Mosè lo proibiva dicendo: «Non prostituire la figlia tua» (Lv 19,29). La «figlia tua» è la tua opera buona, che metti nel postribolo quando la vendi nel lupanare del mondo per il denaro della vanagloria.
    O miserabile scambio! Vendere il premio del Regno dei cieli per il vento che esce dalla bocca dell'uomo! Guàrdati dal dirlo a qualcuno, non mostrare ad alcuno le tue cose. Fratello, non ti bastano Dio e la tua coscienza? Che vantaggio ti dà la lingua dell'uomo, la quale lodando condanna e condannando loda? la quale precipita il giusto fino al profondo dell'inferno, e invece pretende di innalzare l'iniquo fino al trono di Dio e dell'Agnello? Guàrdati bene, dunque, dal dirlo a qualcuno. Dice L'Ecclesiastico: «Non dare all'acqua un'uscita, neppure piccola» (Eccli 25,34). E Isaia: «Il mio segreto è per me, il mio segreto è per me!» (Is 24,16).
    Infatti leggiamo nel quarto libro dei Re che, alla parola di Eliseo, «la donna andò e chiuse la porta dietro di sé e i suoi figli» (4Re 4,5). E Matteo: «Chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,6). E Luca: «Non passate di casa in casa» (Lc 10,7). Guàrdati, dunque, dal dirlo a qualcuno. La natura ha collocato due porte davanti alla lingua: i denti e le labbra, proprio perché quella meretrice, che ama sempre il luogo pubblico, non vada fuori in piazza, «loquace, randagia e insofferente di pace» (Pro 7,1011). Serra dunque i denti, stringi le labbra, affinché la meretrice non entri nel lupanare. Dice infatti l'Ecclesiastico: «Non dare alla donna malvagia il permesso di comparire» (Eccli 25,34), e così obbedirai al comando di Cristo: «Guàrdati dal dirlo a qualcuno!».
    «Ma va', e mostrati ai sacerdoti» (Mt 8,4). Per il significato di queste parole vedi il vangelo dei dieci lebbrosi: «Mentre Gesù andava verso Gerusalemme» (Lc 17,11); sermone della domenica XIV dopo Pentecoste, II parte.
6. «Offri il dono prescritto da Mosè, in testimonianza per loro» (Mt 8,4). Leggiamo nel Levitico: «Il Signore parlò a Mosè dicendo: Questo è il rito da osservare con il lebbroso per il giorno della sua purificazione. Egli sarà condotto al sacerdote. Il sacerdote uscirà dall'accampamento e lo esaminerà; se riscontrerà che la piaga della lebbra è guarita, comanderà al lebbroso che viene purificato di offrire per sé due passeri vivi, dei quali sia lecito cibarsi, legno di cedro, panno scarlatto ed issopo. Il sacerdote ordinerà di immolare uno dei passeri in un vaso di terracotta con acqua viva (di sorgente); poi prenderà il passero vivo, il legno di cedro, il panno scarlatto e l'issopo e li immergerà nel sangue del passero sgozzato sopra l'acqua viva. Ne aspergerà poi sette volte colui che dev'essere purificato dalla lebbra; lo dichiarerà mondo, e lascerà andare libero a volare per la campagna il passero vivo» (Lv 14,1-7). Quindi colui che deve essere purificato «prenderà» (offrirà) «due agnelli senza macchia, un'agnella di un anno senza macchia, tre decimi di efa di fior di farina intrisa di olio, in sacrificio, e un sestario (mezzo litro) di olio» (Lv 14,10). «Se [il lebbroso] è povero e non può disporre delle cose suddette, prenderà un agnello in riparazione del suo peccato, un decima (di efa) di fior di farina intrisa con olio, come sacrificio, e un sestario di olio; prenderà anche due tortore o due colombi: uno per espiazione del suo peccato e l'altro per l'olocausto. Offrirà queste cose al sacerdote, all'ingresso della tenda della testimonianza, davanti al Signore» (Lv 14,21-23).
    Vediamo il significato morale di questo rito. Anzitutto, due sono le specie di penitenti che vengono mondati dalla lebbra del peccato: la prima si trova nella religione (ordine religioso), la seconda nel mondo. I religiosi devono fare la prima offerta. Gli altri, cioè i coniugati e i buoni cristiani, costretti a occuparsi anche delle cose del secolo, che non sono così ricchi di virtù, devono fare la seconda.
    I due passeri vivi sono il corpo e lo spirito del religioso, che può dire con l'Apostolo: « Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20). Offre questi due passeri al Signore per la sua purificazione. Infatti il libro dei Giudici dice: «Voi che vi offriste volontari alla prova, benedite il Signore. Voi che montate su asini affaticati1, che sedete nei tribunali e camminate sulla via» (Gdc 5,9-10). Gli asini affaticati sono i corpi dei religiosi, che portano il peso del giorno e del caldo (cf. Mt 20,12), e che devono venir nutriti, come gli asini, di cibi ordinari e frugali. Dice l'Ecclesiastico: «Foraggio, bastone e soma per l'asino; pane, severità e lavoro per il servo» (Eccli 33,25), cioè per il religioso, che siede in tribunale quando obbedisce al suo superiore, e cammina sulla via di cui parla Geremia: Questa è la via, camminate su di essa (cf. Ger 6,16); la Via stessa che dice: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6).
    Deve anche offrire legno di cedro, nel quale è raffigurata la povertà, e il panno scarlatto o cocco, che simboleggia la carità, e l'issopo nel quale è indicata l'umiltà. Il cedro sublime della povertà, che con il suo profumo scaccia i serpenti dell'avarizia e della rapina, ben si accorda con l'issopo dell'umiltà che guarisce il gonfiore del polmone, cioè l'orgoglio, mediante il panno scarlatto della duplice carità [verso Dio e verso il prossimo]. «E immolerà uno dei due passeri», cioè il corpo, per poter dire con l'Apostolo: «Per me il mondo è stato crocifisso, come lo sono io per il mondo» (Gal 6,14); e ancora: «Io sono già versato in libagione» (2Tm 4,6), vengo cioè offerto in sacrificio. «In un vaso di terracotta». Dice l'Apostolo: «Abbiamo questo tesoro in vasi di terracotta, fragili» (2Cor 4,7). «Sopra acqua viva», che è la compunzione delle lacrime: sono vive quando fluiscono dalla sorgente superiore e da quella inferiore. Dice Zaccaria: «In quel giorno acque vive sgorgheranno da Gerusalemme», cioè dal cuore del penitente; «la metà verso il mare orientale», ecco la sorgente superiore; «e l'altra metà verso il mare occidentale» (Zc 14,8), ecco la sorgente inferiore. Il mare orientale è l'amarezza, invece dello splendore della luce eterna; il mare occidentale è l'acuta afflizione per aver commesso il peccato, per la dimora di questo esilio terreno, per i peccati del prossimo. Quindi il religioso sacrifica il passero in un vaso di terracotta sopra l'acqua viva, quando crocifigge il suo corpo con i suoi vizi e le sue concupiscenze, e nell'amarezza della sua anima medita sulla fragilità della vita e sulla infelicità dell'esilio.
    «L'altro passero vivo... « Il passero vivo raffigura lo spirito che, insieme con il legno di cedro della povertà, con lo scarlatto della carità e l'issopo dell'umiltà, deve essere immerso nel sangue del passero immolato, cioè del corpo, sull'altare della penitenza. Infatti la sofferenza e la macerazione del corpo, indicate nel sangue, purificano e santificano lo spirito, il quale in questo modo, mediante le virtù suddette, sulle ali della contemplazione vola libero per la campagna, cioè nel cielo.
    «Prenderà due agnelli senza macchia e un'agnella di un anno senza macchia, tre decimi di efa di fior di farina e un sestario di olio». Nei due agnelli è simboleggiata la mitezza dello spirito e del corpo, nell'agnella la retta e pura intenzione in tutto ciò che si fa, e nei tre decimi (di efa) di fior di farina la triplice obbedienza, quella prestata ai superiori, agli uguali e agli inferiori; nel sestario di olio sono indicate le sei opere di misericordia. E questa è l'offerta che ogni religioso deve presentare in espiazione dei suoi peccati.
    «Se invece è povero»... , ecc. Nell'agnello è simboleggiata l'innocenza della vita, nel decimo (di efa) di fior di farina la perfezione dell'eterno amore, nel sestario di olio le sei opere di misericordia, nelle due tortore, o due colombi il duplice lamento della contrizione che il peccatore deve emettere per i peccati commessi e per i peccati di omissione. E questa è l'offerta che, in riparazione dei loro peccati, devono presentare al Signore i coniugati e le altre brave persone che vivono nel mondo: vivere nell'onestà, amare il prossimo, praticare le opere di misericordia, pentirsi dei peccati commessi e di quelli di omissione. Diciamo dunque: «Va' e mostrati ai sacerdoti: Fa' l'offerta ordinata da Mosè in testimonianza per loro».
7. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte del brano dell'epistola: «Non vogliate essere prudenti per voi stessi» (Rm 12,16). La prudenza della carne è la lebbra dell'anima. «La prudenza della carne è morte» (Rm 8,6). Dice Isaia: «La tua scienza e la tua sapienza ti hanno ingannato» (Is 47,10). E Geremia: «Sono sapienti nel fare il male, ma non sanno operare il bene» (Ger 4,22). Ma «non c'è sapienza, non c'è prudenza, non c'è consiglio contro il Signore» (Pro 21,30), il quale «rende stolti i consiglieri e priva i giudici di senno» (Gb 12,17). Dice il profeta Abdia: «Disperderò i saggi dall'Idumea e la prudenza dal monte di Esaù» (Abd 1,8). Idumea s'interpreta «sanguinosa», Esaù «mucchio di pietre». Gli Idumei raffigurano i legisti e i canonisti, che spremono il sangue dei poveri. Essi sono «le due figlie della sanguisuga», cioè del diavolo, che dicono sempre «ancora, ancora», e mai «basta!» (cf. Pro 30,15). Il monte di Esaù raffigura le dignità ecclesiastiche, che nella chiesa di Cristo sono come dei mucchi di pietre; costoro, come le pietre miliari, mostrano la via agli altri, ma essi restano lì immobili, duri e insensibili. Il Signore disperderà la sapienza degli Idumei e la prudenza di costoro. Non vogliate, dunque, essere prudenti per voi stessi.
    «Non rendete a nessuno male per male» (Rm 12,17), ecco la mitezza e l'onestà, raffigurate nei suddetti agnelli senza macchia. «Procurate di compiere il bene non soltanto davanti a Dio, ma anche davanti a tutti gli uomini» (Rm 12,17): ecco il sestario di olio, cioè le opere di misericordia. «Se è possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti» (Rm 12,18): ecco l'agnella senza macchia e il decimo (di efa) di fior di farina intrisa d'olio. «Non vendicatevi, o carissimi, ma lasciate fare all'ira divina» (Rm 12,19): ecco i piccoli colombi, che sono senza fiele. Lasciate «a me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore» (Rm 12,19), il quale nel giorno della ricompensa si pronunzierà a favore dei miti e dei mansueti della terra, cioè delle tortore e delle colombe, dei penitenti e degli umili della santa chiesa, i quali presentano la suddetta offerta per essere purificati dalla loro lebbra.
    Fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo di mondarci dalla lebbra della superbia e della vanagloria, dalla lebbra della lussuria e dell'avarizia, affinché siamo degni di presentargli l'offerta stabilita e, purificati da tutti i peccati, meritiamo di essere presentati a lui, che è benedetto nei secoli eterni. Amen.
8. «Entrato Gesù a Cafarnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava... « (Mt 8,5).
    Per il nome di Cafarnao e il suo significato vedi il vangelo: «Vi era un funzionario del re, che aveva il figlio ammalato a Cafarnao» (Gv 4,46); sermone della domenica XXI dopo Pentecoste, prima parte.
    Il Signore non volle andare dal figlio del funzionario del re, per non sembrare un estimatore della ricchezza; invece acconsentì subito ad andare dal servo del centurione per non sembrare (con un rifiuto) uno spregiatore della condizione servile. Perciò disse: «Io verrò e lo curerò» (Mt 8,7). Ecco il nostro medico che con la sola parola cura tutto l'universo. Di lui dice l'Ecclesiastico: «Onora il medico a motivo del bisogno» (Eccli 38,1) che hai di lui.
    «Ma il centurione disse: «Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto» (Mt 8,8). Invece Zaccheo accolse il Signore pieno di gioia (cf. Lc 19,6). In questo si deve osservare il modo diverso di intendere. Alcuni, a motivo del rispetto che nutrono verso il Corpo di Cristo, dicono: Signore, non sono degno; e perciò si astengono dall'accostarsi con frequenza all'Eucaristia; altri invece, proprio per onorare il Corpo di Cristo, lo ricevono con gioiosa riconoscenza. Dice Agostino: Non lodo e non biasimo coloro che ricevono ogni giorno l'Eucaristia, perché alcuni proprio per venerazione non osano riceverla quotidianamente, altri invece per la stessa venerazione, non osano lasciar passare giorno senza riceverla.
    «Ma di' soltanto una parola, e il mio servo sarà guarito. Perché anch'io, che sono un subalterno, ho soldati sotto di me e dico a uno: Va', ed egli va; e a un altro: Vieni, ed egli viene» (Mt 8,8-9). Da questo è provato che colui al quale gli angeli servono e obbediscono in adorazione, senza presenza corporale può ordinare alla malattia di andarsene, e alla guarigione di venire. Si canta infatti nell'introito della messa di oggi: «Adorate Dio, voi tutti suoi angeli» (Sal 96,7). «All'udire ciò, Gesù ne fu ammirato e disse a coloro che lo seguivano: In verità vi dico, non ho trovato tanta fede in Israele» (Mt 8,10), cioè nel popolo israelitico del suo tempo; l'ho trovata invece negli antichi, cioè nei patriarchi e nei profeti. Sono esclusi da questa affermazione la Vergine e i discepoli, ai quali è stata infusa dal cielo una fede maggiore.
    «Ora vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente», verranno cioè alla fede cattolica molti pagani, dei quali il centurione è figura, «e sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli», cioè riposeranno con gli altri salvati; «invece i figli del Regno», cioè i giudei, «saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti» (Mt 8,11-12). Il pianto sta per il fuoco, lo stridore di denti per il freddo, perché, come dice Giobbe, passeranno dalle acque nevose [gelate] a un calore smisurato (cf. Gb 24,19); nell'inferno c'è un fuoco inestinguibile e un gelo intollerabile: sono le pene alle quali il Signore si riferisce.
    «E Gesù disse al centurione: Va', e sia fatto secondo la tua fede» (Mt 8,13), poiché ad ognuno è dato ciò che domanda, ma solo nella misura della sua fede. «E proprio in quell'istante il servo guarì» (Mt 8,13). La tua parola onnipotente, o Signore, ha mondato il lebbroso e ha guarito il servo.
9. Senso morale. Il centurione circondato di soldati raffigura il prelato o anche il semplice giusto, che dev'essere dotato di virtù, come di soldati, a sua difesa. Leggiamo nel secondo libro dei Re: «Tutto il popolo e tutti i guerrieri camminavano a destra e a sinistra del re Davide» (2Re 16,6); e ancora: «Tutti i ministri del re camminavano al suo fianco, e anche le legioni dei Cretei», cioè degli sterminatori, «e quelle dei Peletei» (2Re 15,18), cioè dei vivificatori: in tutti costoro sono raffigurate le virtù che distruggono i vizi e ridanno la vita all'anima.
    Leggiamo nel secondo libro dei Maccabei che quando Giuda Maccabeo e Timoteo vennero a conflitto, «accesasi una durissima lotta, apparvero dal cielo ai nemici (dei giudei) cinque uomini splendidi su cavalli dalle briglie d'oro, che guidavano i giudei. Due di essi presero in mezzo Giuda Maccabeo e, proteggendolo con le loro armature, lo preservavano illeso; invece scagliavano dardi e folgori contro i nemici; questi, confusi e accecati, si dispersero in preda alla confusione» (2Mac 10,29-30).
    Timoteo s'interpreta «benèfico», ma indica il diavolo che verso coloro che amano il mondo sembra al momento benèfico, ma col passar del tempo diverrà venèfico, perché quelli che lo hanno seguito quando li incitava al peccato, se lo ritroveranno carnefice nei tormenti.
    Il diavolo dunque, radunato l'esercito dei vizi, avanza per combattere contro il Maccabeo, cioè contro il giusto. E quando tra le due parti si accende una violenta battaglia, ecco apparire dal cielo, dalla misericordia celeste, cinque personaggi, cioè cinque virtù, che sono l'umiltà della mente, la castità del corpo, l'amore alla povertà, la perfezione della duplice carità e il proposito della perseveranza finale. Queste virtù, «sul cavallo» della buona volontà, - «il cavallo, dice Salomone, è pronto alla battaglia, ma è il Signore che dà la salvezza» (Pro 21,31) -, «con il morso» dell'astinenza e della disciplina, con il morso «d'oro» della discrezione, «fanno da guida ai giudei», cioè ai penitenti. Invece «ai nemici», cioè ai demoni e ai vizi, preparano lo sterminio. Infatti quando subentrano le virtù, vengono scacciati i vizi. L'umiltà difende e conserva incolume il Maccabeo, cioè il giusto, dalla superbia del cuore, e la castità dalla depravazione del corpo.
    Chi è difeso da simili combattenti, ben a ragione potrà «dire a uno: Va'»: potrà dire cioè all'umiltà della mente o alla pazienza: Va' all'obbedienza, accetta qualsiasi dipendenza; va' e sopporta ogni offesa; e quelle virtù andranno, perché dice il Filosofo: Gode chi è paziente nelle durezze; e «Sopra il mio dorso» cioè sulla mia pazienza, «hanno costruito i peccatori» (Sal 128,3). Potrà «dire ad un altro: Vieni»: potrà dire cioè alla castità o all'astinenza: vieni a frenare la brama della gola, la lubricità della carne, e quelle virtù «verranno». E questo vale anche per tutte le altre virtù.
10. «E dico al mio servo: Fa' questo, ed egli lo fa» (Mt 8,9). Il servo del giusto è la carne, il corpo. Dice l'Ecclesiastico: «Per il servo cattivo tortura e ceppi; mandalo al lavoro perché non stia in ozio: poiché l'ozio insegna molte cattiverie» (Eccli 33,28-29). E quanto fortunato è colui che ha un servo così soggetto, da obbedirgli in tutto ciò che giustamente gli viene comandato; che quando gli dice: digiuna, egli digiuna; e quando gli dice: veglia, egli veglia; e così in tutto il resto. Allora l'uomo spirituale dice al suo servo: «Fa' questo, ed egli lo fa».
    Il servo del centurione è il parrocchiano affidato al suo pastore, il parrocchiano crudelmente tormentato dalla paralisi, che ogni qualvolta cerca di liberarsi dai vizi e dai piaceri, viene trattenuto brutalmente dal diavolo. Ma il prelato che, cinto e protetto dalle sue virtù, ha domato virilmente il suo servo, cioè la carne, il corpo, è certamente in grado di ottenere la guarigione del suo suddito, sull'esempio del centurione.
    Considera inoltre che, come in questo vangelo risalta meravigliosamente la misericordia di Dio, la sua pietà e la carità verso il lebbroso e il paralizzato, così nella seconda parte dell'epistola di oggi risalta la misericordia e la carità che dobbiamo avere noi verso il prossimo, senza alcuna distinzione.
    «Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare, se ha sete, dagli da bere» (Rm 12,20). Così fece Eliseo che - come racconta il quarto libro dei Re - davanti ai suoi nemici che cercavano di catturarlo, fece mettere pane e acqua perché mangiassero e bevessero (cf. 4Re 6,22). «Facendo questo, infatti, ammasserai carboni ardenti» di carità «sopra il suo capo» (Rm 12,20), cioè nella sua mente e nel suo cuore. La cattiveria di una mente fredda, insensibile, si brucia al fuoco della carità quando si ama colui che nutre odio, quando si previene con atti di bontà colui che ci perseguita. La natura dell'uomo si vergogna di non amare colui che ama, di non circondare con le braccia della carità colui che devotamente serve.
    Fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo di difenderci e rafforzarci con i suddetti soldati, di risanare il servo paralizzato, di infiammare con il fuoco della carità la mente fredda e insensibile.
    Si degni di concederci tutto questo colui che è benedetto, degno di lode e glorioso nei secoli. E ogni anima risanata dalla paralisi dica: Amen. Alleluia!