MESSAGGIO ALLA CITTA’ DI PADOVA PER LA FESTA DI S.ANTONIO 2020
La pandemia da Covid-19 che ha colpito tutto il mondo ha travolto e stravolto come un uragano le nostre vite. Anche la festa del Santo ne subisce le conseguenze. Dopo secoli, la statua processionale di s. Antonio il 13 giugno non attraverserà le vie della città di Padova. Sarà invece la benedizione dall’alto di un elicottero, messo a disposizione dall’esercito, a farci sentire la presenza del Santo. Un modo non solo alternativo rispetto alla tradizionale processione, ma pure funzionale a far giungere l’intercessione del Santo a Schiavonia, sede del Covid Hospital e in particolare nei luoghi dove l’epidemia si è fatta sentire con tutta la sua virulenza come Merlara e Vo’ euganeo.
Qui vorrei contribuire però a far ricordare quest’anno per qualcosa che non siano soltanto le tragiche vicende che hanno colpito il mondo intero in questi primi sei mesi dell’anno. Infatti in questo 2020 si fa memoria degli ottocento anni della vocazione francescana di s. Antonio. A partire dal 1217 erano arrivati in Portogallo i primi frati minori di Francesco d’Assisi e alcuni si erano stabiliti a Coimbra. La vista dei discepoli di Francesco in abiti semplici e consunti che venivano a chiedere l’elemosina presso il monastero di Santa Cruz, dove allora stava il giovane Fernando, gli provoca grande impressione. L’arrivo poi in città dei primi frati inviati dal santo di Assisi per evangelizzare le terre dei Saraceni e la vicenda del loro martirio in Marocco a Marrakesh il 16 gennaio del 1220, lo turba e insieme lo attrae. Di lì a poco infatti il monaco agostiniano Fernando da Lisbona decide di lasciare il monastero e vestire l’abito francescano. Siamo nell’estate del 1220. Frate Antonio, questo ora il suo nome, partirà a sua volta verso quella terra di “infedeli” con l’ardire di convertirli a Cristo. Desiderava anch’egli ricevere la palma del martirio. “Oh, se l’Altissimo volesse far partecipe anche me della corona dei suoi santi martiri!”, riporta il primo biografo. Le cose non andranno com’egli sperava e per frate Antonio sarà l’inizio di una storia nuova.
In occasione di questo anniversario papa Francesco ha scritto una lettera – pubblicata nel numero di giugno del Messaggero di s. Antonio - al Ministro Generale del nostro Ordine dei Frati Minori Conventuali. Di quanto scrive il Papa nel suo messaggio augurale mi colpiscono due parole, su cui mi soffermo. Sono riferite in particolare ai giovani. Ricordo che Antonio all’epoca della vestizione del saio francescano aveva 25 anni e morirà, come sappiamo, a soli 36 anni nel 1231.
“La passione per la verità e la giustizia di s. Antonio – scrive il Papa – possano suscitare ancora oggi un generoso impegno di donazione di sé, nel segno della fraternità”. La passione per la verità e la giustizia. Passione. E’ la prima parola. Passione nel senso dell’appassionarsi alla vita, dell’entusiasmarsi alla verità e alla giustizia. Non basta offrire ai giovani oggetti o esperienze per godersi la vita. Il coronavirus smaschera ancor più il bisogno di ragioni di vita. Non basta garantire il ben-essere alle nuove generazioni, è necessario per noi adulti un essere-ben radicati nella nostra vocazione, credere cioè noi per primi nella verità e nella giustizia ed esserne testimoni credibili e affidabili. Solo così si genera passione alla bellezza del vivere. Solo così i nostri giovani possono affrontare l’angoscia provocata dal nichilismo. “I ragazzi non stanno bene, ma non capiscono nemmeno perché. Gli manca lo scopo. Per loro il futuro da promessa è divenuto minaccia” (U. Galimberti). L’esempio di Antonio può suscitare dunque la speranza dell’impossibile reso possibile. Dei sogni che diventano realtà, dei progetti realizzabili e realizzati.
Poi il Papa aggiunge un’altra parola interessante: “il Santo possa essere per le nuove generazioni un modello da seguire per rendere fecondo il cammino di ciascuno”. La generazione giovanile si coniuga con la fecondità. Possiamo infatti vivere una vita sterile. Possiamo rischiare di buttare via la nostra vita. Gesù aveva detto: “sono venuto perché nessuno si perda”. Noi siamo responsabili della nostra vita affinché non si perda. Per questo bisogna che la vita sia generativa. Abbiamo bisogno di giovani generativi. E non si tratta solo di pensare che i giovani si sposino e siano procreativi, cosa che certo auspico. Si tratta di uscire dal nostro delirio di autonomia e onnipotenza tecnologica, per cui siamo concentrati solo su noi stessi. Il corona virus ci ha edotti in tal senso sulle nostre fragilità, sul rischio di generare solitudine e non futuro. S. Antonio aveva una speciale devozione a Maria, forse intuiva che abbiamo bisogno di uno sguardo di donna, di madre sulla vita. Serve domandarci come e dove essere generatori di vita, capaci di donare, di vivere una vita generosa, che si spende per amore degli altri. Chiediamo allora a s. Francesco e a s. Antonio passione e spirito generativo, perché senza queste qualità non c’è possibilità di ripartenza dopo la pandemia.
Fr. Oliviero Svanera, rettore della Pontificia Basilica di s. Antonio