Sermoni Domenicali

DOMENICA VI DOPO PASQUA

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre», ecc. (Gv 15,26).
    Dice il Signore per bocca di Isaia: «Vivranno i morti, i miei uccisi risorgeranno. Risvegliatevi e cantate lodi, voi che giacete nella polvere, perché la tua rugiada è rugiada di luce» (Is 26,19). La rugiada è chiamata in lat. ros perché è rara, cioè rarefatta e leggera, e non densa e fitta come la pioggia. Si dice poi che la rugiada bagni più intensamente i campi quando la notte è più serena e la luna più limpida, e che la rugiada, nel breve corso della notte, restituisca alla terra tutta l'umidità che il calore del sole le ha sottratto lungo tutto il corso del giorno.
    La rugiada simboleggia il Paràclito, lo Spirito di verità che, scendendo con delicatezza nella mente del peccatore, raffredda l'ardore del sole, vale a dire la concupiscenza della carne. Dice infatti l'Ecclesiastico: «La rugiada che scende su chi viene dal caldo, lo rinfresca (lat. humilem facit, lo rende umile)» (Eccli 43,24). Sul peccatore, che viene dall'ardore dei vizi, scende la grazia dello Spirito Santo e ne raffredda l'ardore, e mentre gli fa conoscere in quanti e quanto grandi vizi sia impantanata la sua anima, lo rende umile fino al pianto, perché si dolga di ciò che ha commesso. Dice infatti Geremia: «Dopo che tu mi hai illuminato, io ho percosso il mio femore» (Ger 31,19). Dopo che la grazia dello Spirito Santo ha mostrato al peccatore il cumulo della sua iniquità, egli percuote con i flagelli della penitenza il suo femore, vale a dire il suo corpo.
    E osserva che giustamente lo Spirito Santo è detto «rugiada di luce»: rugiada perché rinfresca, di luce perché illumina. Perciò quando arriva la rugiada di luce, i morti per i peccati vivranno la vita della grazia, e gli uccisi dalla spada della colpa risorgeranno nella prima risurrezione, che è la penitenza. «Svegliatevi», dunque, voi che siete immersi nel sonno del peccato, «e lodate Dio» confessando il vostro crimine, «voi che abitate nella polvere» della vanità terrena, «perché rugiada di luce» è lo Spirito Santo, padre dei penitenti e consolatore di coloro che gemono: di essi il Figlio di Dio nel vangelo di oggi dice: «Quando verrà il Paràclito», ecc.
2. In questo brano evangelico sono posti in evidenza due fatti. Primo, l'invio dello Spirito, dove dice: «Quando verrà il Paràclito»; secondo, la persecuzione contro i discepoli di Cristo, dove si legge: «Vi ho detto queste cose affinché non vi scandalizziate».
    In questa domenica poi si canta l'introito: «Ascolta, Signore, la mia voce, con la quale a te ho gridato» (Sal 26,7); inoltre si legge l'epistola del beato Pietro: «Siate prudenti e vigilanti», che noi divideremo in due parti mettendone in evidenza la concordanza con le due parti del vangelo su indicate. La prima parte: «Siate prudenti e vigilanti»; la seconda, «Siate ospitali a vicenda, senza mormorazione».
3. «Quando verrà il Paràclito». Si dive notare anzitutto che in questo brano evangelico viene proclamata espressamente la fede nella santa Trinità. Dal Padre e dal Figlio viene mandato lo Spirito Santo: queste Tre divine Persone sono una sola sostanza e perfette nell'uguaglianza. Unità nell'essenza e pluralità nelle Persone. Il Signore rivela chiaramente l'Unità della divina sostanza e la Trinità delle Persone, quando dice: Andate e battezzate tutte le genti, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (cf. Mt 28,19). Dice appunto: «nel nome», e non «nei nomi», per indicare l'unità della sostanza. E con i tre nomi che aggiunge, indica che sono «Tre Persone».
    Nella Trinità è il principio ultimo di tutte le cose, la bellezza perfettissima e la suprema beatitudine. Per «principio ultimo», come dimostra Agostino nella sua opera La vera religione, s'intende Dio Padre, dal quale sono tutte le cose, dal quale sono il Figlio e lo Spirito Santo. Per «bellezza perfettissima» si intende il Figlio, cioè la verità del Padre, per nulla diverso da lui; bellezza che con lo stesso Padre e nello stesso Padre adoriamo, che è forma di tutte le cose, da un solo Dio create e ad un solo Dio ordinate. Per «suprema beatitudine» e «somma bontà» s'intende lo Spirito Santo, che è dono del Padre e del Figlio; dono che noi dobbiamo adorare e credere immutabile insieme con il Padre e il Figlio.
    In riferimento alle cose create, intendiamo la Trinità in una sola sostanza, vale a dire un solo Dio Padre dal quale proveniamo, un unico Figlio per mezzo del quale esistiamo, e un solo Spirito Santo nel quale viviamo; vale a dire: il principio al quale ci riferiamo, la forma, il modello al quale tendiamo e la grazia con la quale veniamo riconciliati. E affinché la nostra mente si innalzi alla contemplazione del Creatore, e creda senza ombra di dubbio all'Unità nella Trinità e alla Trinità nell'Unità, consideriamo quale impronta della Trinità ci sia nella mente stessa.
    Dice Agostino nell'opera La Trinità: «Benché la mente umana non sia della stessa natura di Dio, dobbiamo tuttavia cercare e trovare la sua immagine - della quale nulla di meglio esiste - in ciò che di meglio c'è nella nostra natura, vale a dire nella mente. La mente si ricorda di se stessa, comprende se stessa e ama se stessa. Se riconosciamo questo, riconosciamo la trinità: non certo Dio, ma l'immagine di Dio. Qui infatti compare una certa trinità: della memoria, dell'intelligenza e dell'amore o della volontà. Queste tre facoltà non sono tre vite, ma una sola vita; né tre menti, ma una sola mente; non tre sostanze, ma una sola sostanza. Memoria vuol dire relazione a qualche cosa; intelligenza e volontà, o amore, indicano pure relazione a qualche cosa; la vita invece è in se stessa e mente e sostanza. Quindi queste tre facoltà sono una sola cosa, in quanto sono una sola vita, una sola mente e una sola sostanza.
    Queste tre facoltà, pur essendo distinte tra loro, sono dette una cosa sola, perché esistono sostanzialmente nello spirito. E la mente stessa è quasi la genitrice, e la sua cognizione è quasi la sua prole. La mente infatti, quando riconosce se stessa, genera la conoscenza di sé ed è essa sola la genitrice della sua conoscenza. Terzo viene l'amore, che procede dalla mente stessa e dalla sua conoscenza, quando la mente, conoscendo se stessa, si ama: non potrebbe infatti amare se stessa se non conoscesse se stessa. E ama anche la prole in cui si compiace, cioè la conoscenza di sé: e così l'amore è una specie di legame tra genitrice e prole. Ecco quindi che in queste tre parole - memoria, intelligenza e amore - compare una certa impronta della Trinità.
4. «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità», ecc. Fa' attenzione a queste tre parole: Paràclito, Spirito e ‘di verità'. Nella miseria di questo mondo ci sono tre mali: l'angustia (oppressione) che tormenta, il peccato che dà la morte e la vanità che inganna.
    Dell'oppressione che tormenta è detto nell'Esodo che «il faraone impose ai figli d'Israele dei sovrintendenti ai lavori per opprimerli con i loro gravami, e così costruirono per il faraone le città-deposito, cioè Pitom e Ramses» (Es 1,11). Così il diavolo, a coloro che sono cristiani solo a parole, impone dei sovrintendenti ai lavori, cioè altri demoni incaricati a fomentare ogni vizio, perché li tormentino con il peso dei peccati. E quindi essi gemono e si lamentano: «Eravamo minacciati e afferrati per il collo; eravamo sfiniti, ma non ci si concedeva riposo. All'Egitto abbiamo teso la mano e agli Assiri, per essere saziati di pane» (Lam 5,5-6). I Babilonesi, cioè i demoni, impongono gravi pesi sul collo dell'uomo che conducono in schiavitù, e con minacce lo trascinano con una fune legata al collo, come un asino o un bue; e anche se è sfinito non gli danno tregua, poiché lo fanno precipitare di peccato in peccato.
    Ahimè, quanto grande follia è lo stancarsi nel cammino e non volersi fermare! Abbiamo teso la mano all'Egitto e agli Assiri, cioè ci siamo fatti servi del mondo e dei demoni, per essere saziati di pane, cioè dei piaceri della carne. Questi cristiani costruiscono le città-deposito per il faraone, cioè per il diavolo: Pitom e Ramses. Pitom s'interpreta «bocca dell'abisso», e Ramses «danno dalla tignola».
    Pitom simboleggia la lussuria, che è la bocca dell'abisso che mai dice basta, giacché è priva della luce della grazia e non c'è misura che la plachi. «Il piacere, dice Girolamo, ha sempre fame di se stesso».
    Di questo abisso dice il salmo: «L'abisso chiama l'abisso» (Sal 41,8), cioè la lussuria chiama lussuria, come la rana chiama la rana. La rana ha un suo richiamo particolare, che suona coax, e lo fa solo nell'acqua. È soprattutto il maschio che al tempo degli accoppiamenti chiama la femmina con questo richiamo ben noto. E la rana aumenta la sua voce quando tiene la mandibola inferiore sul livello dell'acqua e spalanca quella superiore. E a motivo della dilatazione delle due mandibole, i suoi occhi luccicano come candele. Analogo è pure il comportamento dei ragni quando vogliono accoppiarsi. La femmina attira il maschio per mezzo dei fili della tela e il maschio fa altrettanto con la femmina. E la trazione reciproca non cessa, finché non arrivano all'accoppiamento. I lussuriosi sono come le rane che, nell'acqua del piacere carnale, si incitano vicendevolmente alla lussuria con segni e richiami: i loro occhi sono pieni di adulterio, accesi di libidine e, come i ragni, si attraggono con certi fili di parole e di promesse; si attraggono e infine si congiungono nell'abisso della loro perdizione.
    Ramses simboleggia l'avarizia, che corrode la mente come la tignola corrode le vesti. La tignola è chiamata in lat. tinea, perché tiene, e penetra a tal punto da corrodere. Parimenti l'avarizia corrode la mente dell'avaro perché moltiplichi i suoi beni: ma l'infelice, più moltiplica e più ha fame. Infatti dice il beato Bernardo: «Non diversamente il cuore dell'uomo si sazia con l'oro, di quanto non si sazi il suo corpo con l'aria». E il Filosofo: «Che cosa puoi augurare di male all'avaro se non che viva a lungo?». E ancora: «Nulla di buono può fare l'avaro, se non morire» (P. Siro). Queste sono le città del diavolo, la lussuria e l'avarizia. E quale oppressione è più dolorosa di essere imprigionati nell'abisso e invasi dalla tignola?
5. Sul peccato che dà la morte si legge nella Genesi che «Rachele morì e fu sepolta sulla strada che porta ad Efrata» (Gn 35,19). Efrata s'interpreta «fertile», e simboleggia l'abbondanza delle cose temporali, dalle quali l'infelice anima è soffocata e, dopo sepolta, è schiacciata dalla massa delle abitudini cattive. Infatti «il ricco rivestito di porpora, poiché quaggiù visse sepolto nei piaceri, nell'aldilà fu sepolto nei tormenti dell'inferno (cf. Lc 16,19-22).
    Leggiamo nel secondo libro dei Paralipomeni che «posero Asa sul suo letto, pieno di aromi e di unguenti da meretrice, preparati da un esperto di profumeria, e li bruciarono su di lui in grandissima quantità (cf. 2Par 16,14). Asa s'interpreta «che s'innalza», e raffigura il ricco di questo mondo nella sua superbia, del quale dice il Profeta: «Ho visto l'empio trionfante, ergersi come il cedro del Libano» (Sal 36,35). Il suo letto è il corpo, nel quale giace dissoluto, (privo di forze) come un paralitico; letto che è pieno di aromi e di unguenti da meretrice, cioè di onori, di ricchezze e di piaceri, preparati da esperti profumieri, cioè dai demoni. Ma poi nell'aldilà l'infelice anima sarà bruciata, insieme con lo sventurato suo corpo, nel fuoco inestinguibile della geenna, in una fiamma smisurata. «Ogni uomo serve dapprima il vino buono, e poi quello meno buono» (Gv 2,10). Poiché hai bevuto dal calice d'oro di Babilonia, berrai poi fino alla feccia dal pozzo della dannazione eterna.
6. Sulla vanità ingannatrice parla il terzo libro dei Re, dove si legge che un vecchio profeta ingannò un uomo di Dio e lo costrinse ad andare con lui nella sua casa: e l'uomo di Dio nella casa di lui mangiò il pane e bevve l'acqua. E dopo aver mangiato e bevuto, sellò il suo asino. Partito di lì, l'uomo di Dio lungo la strada fu assalito da un leone, che lo uccise; il suo cadavere era steso a terra e l'asino stava fermo accanto ad esso: il leone stava vicino al cadavere dell'uomo di Dio. E il leone non fece nulla all'asino e non si cibò neppure del cadavere (cf. 3Re 13,11-30).
    Il vecchio profeta raffigura la vanità del mondo, che promette sempre cose false. Dice infatti Geremia: «I tuoi profeti fanno per te profezie false e stolte» (Lam 2,14). I nostri profeti sono la vanità del mondo e i piaceri della carne, i quali, se vedono che noi disprezziamo il mondo e mortifichiamo la carne, subito ci predicono miseria e malattie. Dicono: Se tu dài via le tue cose, di che cosa vivrai? Se tu fai del male al tuo corpo, ti ammalerai. Ahimè, quanta gente hanno ingannato questi profeti! Questi sono profeti che parlano in nome proprio e non in nome di Dio.
    Giustamente quindi è detto che il vecchio profeta ingannò l'uomo di Dio. E giustamente la vanità del mondo è detta «vecchio profeta»: infatti ha continuato ad ingannare dall'inizio del mondo fino alla feccia di questo nostro tempo, e ancora continuerà. «E nella sua casa» l'uomo di Dio «mangiò il pane e bevve l'acqua». Il pane simboleggia la grandezza della gloria del mondo, della quale Salomone dice: «È gradito all'uomo il pane della menzogna, ma poi la sua bocca sarà piena di sassi» (Pro 20,17). Il pane della menzogna è la gloria del mondo che si illude di essere qualcosa, mentre non è nulla. Dice Agostino: «Tutto ciò che ha una fine è da ritenersi come passato». Questa gloria, essendo piacevole per l'uomo, riempie la sua bocca di sassi, di pietra infuocata, cioè della pena eterna, che non può essere inghiottita né vomitata. «E bevve l'acqua». L'acqua raffigura la lussuria o l'avarizia: chi la beve avrà ancora sete (cf. Gv 4,13). Chi mangerà questo pane e berrà quest'acqua sarà ucciso dal leone, vale a dire dal diavolo.
    E osserva che il leone non fece alcun male all'asino, e non mangiò il cadavere, perché il diavolo non si cura del denaro o del corpo, ma fa di tutto solo per uccidere l'anima. Disse infatti il re di Sodoma ad Abramo: «Dammi le anime, il resto tienilo pure» (Gn 14,21). Cristo ha comperato le anime, consegnando alla morte la sua anima (cf. Is 53,12); e perciò il diavolo fa ogni sforzo per ingannare un sì grande «compratore», quando vuole uccidere l'anima nostra.
7. Ma il Signore, contro i tre mali su descritti, cioè l'oppressione, il peccato e la vanità, mandò il Paràclito, lo Spirito Santo, Spirito di verità: Paràclito contro l'oppressione, Spirito contro la colpa, di verità contro la vanità. Il Paràclito ci consola nell'oppressione delle tribolazioni. Dice Isaia: «Quando attraverserai le acque io sarò con te e i fiumi non ti sommergeranno; se camminerai in mezzo al fuoco non ti scotterai e la fiamma non ti brucerà» (Is 43,2). Fa' attenzione a queste quattro parole: acque, fiumi, fuoco e fiamma. Le acque raffigurano la gola e la lussuria; i fiumi la prosperità mondana; il fuoco l'oppressione delle avversità e la fiamma la malizia della persecuzione diabolica.
    Dice dunque: «Quando attraverserai le acque... «. La mente che lo Spirito Santo ha reso forte con il fuoco della carità, non può essere travolta dalle acque della gola e della lussuria, né sommersa dai fiumi della prosperità terrena. Dice infatti Salomone: «Le grandi acque non possono spegnere l'amore, né i fiumi travolgerlo, perché le sue vampe sono vampe di fuoco e di fiamme» (Ct 8,7. 6). La mente che lo Spirito Santo infiamma, non può essere consumata né dal fuoco delle avversità né dalla fiamma della persecuzione diabolica. Lo Spirito stesso infatti, come è detto nel libro di Daniele, allontana la fiamma di fuoco dalla fornace e fa spirare in mezzo alla fornace come un venticello rugiadoso (cf. Dn 3,49-50).
    Parimenti, contro il peccato mandò lo Spirito per ridare la vita all'anima. Leggiamo nella Genesi: «Spirò sul suo volto il soffio della vita e l'uomo divenne anima vivente» (Gn 2,7). Il soffio della vita è la grazia dello Spirito Santo, e quando Dio la infonde nel volto dell'anima, non c'è dubbio che l'anima risuscita da morte a vita.
    E questo Spirito è detto «di verità», contro la vanità del mondo, che la verità stessa discaccia. Dice Gioele: «Figlie di Sion, gioite e rallegratevi nel Signore, vostro Dio, perché vi ha dato il maestro della giustizia, e farà scendere su di voi la pioggia del mattino e della sera. E le vostre aie si riempiranno di frumento, e i vostri torchi traboccheranno di vino e di olio» (Gl 2,23-24). Sia benedetto il Signore, Dio nostro, il Figlio di Dio, nel quale noi, figli di Sion, cioè della chiesa militante e trionfante, dobbiamo gioire nel cuore e rallegrarci con le opere, perché ci ha dato il maestro della giustizia, cioè lo Spirito della grazia, che insegna a ciascuno di noi a mostrare la sua giustizia (santità). Nel darci questo Spirito, egli ha fatto discendere su di noi la pioggia del mattino, cioè la compunzione dei nostri peccati, e la pioggia della sera, cioè il dolore per i peccati degli altri. Infatti chi piange pietoso per i peccati altrui, lava perfettamente anche i propri. Nella discesa di questo Maestro della giustizia le aie, cioè le menti dei fedeli, furono riempite del frumento della fede, e i torchi, cioè i loro cuori, traboccarono del vino della compunzione e dell'olio della pietà.
    Giustamente quindi è detto: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza. E anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dall'inizio» (Gv 15,26-27).
    Infatti nel cuore dei fedeli lo Spirito di verità rende testimonianza dell'incarnazione di Cristo, della sua passione e della sua risurrezione. E anche noi dobbiamo dare a tutti gli uomini la testimonianza che Cristo si è veramente incarnato, ha veramente subìto la passione ed è veramente risorto.
8. Con questa prima parte del brano evangelico concorda la prima parte dell'epistola di oggi: «Siate prudenti e vegliate nella preghiera. Soprattutto abbiate sempre tra voi la carità, perché la carità copre una moltitudine di peccati» (1Pt 4,7-8). Osserva che il beato Pietro ci richiama a tre virtù: alla prudenza, alla vigilanza e alla costanza nella preghiera.
    Della prudenza dice Salomone: «Beato l'uomo che è pieno di prudenza: il suo possesso vale più dell'argento e il suo provento più dell'oro» (Pro 3,13-14). Chi invece è negligente e imprudente, è esposto a molti pericoli.
    Sulla vigilanza poi leggiamo nella Genesi che «Giacobbe attraversò il guado di Iabbok: trasportate all'altra riva tutte le sue cose, restò solo. Ed ecco, un uomo incominciò a lottare con lui fino al mattino, e poi gli disse: Lasciami andare perché ormai spunta l'aurora» (Gn 32,22-24). Giacobbe s'interpreta «soppiantatore»; Iabbok «torrente di polvere», e raffigura i piaceri temporali che passano come un torrente, sono sterili e accecano gli occhi come la polvere. Il penitente deve attraversare questo torrente con tutti i beni che il Signore gli ha elargito, deve attraversarlo e rimanere solo. Rimane solo colui che nulla attribuisce a se stesso, ma tutto al Signore; che sottomette la sua volontà a quella degli altri; che non conserva il ricordo delle ingiurie ricevute e che accetta di essere disprezzato (lett. sperni se non spernit, non disprezza l'essere disprezzato).
    E se in questo modo resterà solo, potrà lottare valorosamente con il Signore e ottenere da lui ciò che vuole, e meriterà di sentirsi dire: «Lasciami andare, ormai spunta l'aurora». L'aurora segna la fine della notte e l'inizio del giorno. Essa raffigura la morte del giusto, la fine della miseria di questa vita, e l'inizio della beatitudine, nella quale il Signore dice al giusto: Lasciami andare, ormai spunta l'aurora. Come dicesse: Non c'è più bisogno di lotta, finisce per te la prova, la miseria, e incomincia la gloria.
    Infatti dell'anima del giusto è detto nel Cantico dei Cantici: «Chi è costei che sorge come l'aurora, bella come la luna, fulgida come il sole?» (Ct 6,9). La luna è chiamata così perché è quasi (lat. ) luminum una, una delle luci. L'anima del giusto, quando sale dalla dimora di questa miseria, entra nella beatitudine, nella quale è bella come la luna, perché viene immersa nella luce delle anime sante, come una di esse. Ed è fulgida come il sole, perché viene illuminata dallo splendore di tutta la Trinità.
9. Dell'assiduità nell'orazione si parla nell'introito della messa di oggi: Ascolta, Signore, la mia voce, con la quale a te ho gridato. Di te ha detto il mio cuore: Ho cercato il tuo volto; il tuo volto, Signore, io cercherò. Non nascondermi il tuo volto (cf. Sal 26,7-9). Ricordati che ci sono tre specie di orazione: l'orazione mentale, l'orazione vocale e l'orazione manuale (delle opere). Della prima dice l'Ecclesiastico: «L'orazione di colui che si umilia, penetra i cieli» (Eccli 35,21). Della seconda parla il salmo: «La mia orazione entri al tuo cospetto» (Sal 87,3). Della terza parla l'Apostolo: «Pregate senza interruzione» (1Tes 5,17). Non cessa mai di pregare colui che non cessa mai di fare il bene.
    Dice dunque l'introito: «Ascolta, Signore, la mia voce», la voce del cuore, della bocca e delle opere, «con la quale a te ho gridato. A te ha detto il mio cuore: Ho cercato il tuo volto». Il volto del Signore è quell'immagine secondo la quale siamo stati creati «a sua immagine e somiglianza» e che poi abbiamo perduto quando siamo caduti nel peccato mortale. Infatti sopra il volto del Signore abbiamo disegnato il volto del diavolo; e questo lo vieta l'Ecclesiastico, dove dice: «Non assumere un volto contro il tuo volto» (Eccli 4,26). Ogni volta che commetti il peccato mortale, sovrapponi il ceffo del diavolo al volto di Dio. Dice infatti il salmo: «Fino a quando giudicherete iniquamente e assumerete la faccia dei peccatori?» (Sal 81,2).
    Per essere in grado di ritrovare il volto del Signore, che abbiamo perduto, accendiamo la lucerna, buttiamo completamente all'aria la casa, finché lo troviamo (cf. Lc 15,8): ciò significa che dobbiamo quasi distruggerci per i nostri peccati, perlustrare ogni angolo della coscienza nella confessione e perseverare nelle opere di penitenza. E così finalmente potremo ritrovare il volto del Signore, perduto con il peccato, e cantare esultanti: «Risplende su di noi, Signore, la luce del tuo volto» (Sal 4,7).
    E poiché il volto del Signore si ricompone e si conserva sino alla fine con la carità, dice Pietro di questa virtù: «Soprattutto abbiate sempre tra di voi una grande carità» (1Pt 4,8). Come Dio è il principio di tutte le cose, così la carità, virtù fondamentale, si deve conquistare prima di tutte le altre; e se sarà reciproca e costante, coprirà tutto il cumulo dei peccati. La carità dev'essere vicendevole, cioè reciproca, e fatta in comune; dev'essere continua: non deve cioè mai mancare, non solo quando tutto va bene, ma anche quando tutto sembra andar male; e dev'essere incessante e perseverare sino alla fine. Oppure anche: la carità è il Paràclito, lo Spirito di verità che, come l'olio copre ogni liquido, copre la moltitudine dei peccati. Ma fa' attenzione, che se l'olio viene soffiato via, ricompare ciò che prima era nascosto. Così la grazia di Dio che con la penitenza copre la moltitudine dei peccati, se viene soffiata via con la ricaduta nel peccato mortale, ciò che era già stato perdonato ritorna, perché chi pecca contro il primo dei precetti, cioè contro il precetto della carità, si rende colpevole anche di tutti gli altri (cf. Gc 2,10). E quindi se commetterai di nuovo il peccato mortale e ti rivolgerai ad un altro confessore, sarà necessario che tu confessi tutto.
    Lo Spirito Santo, che è l'amore del Padre e del Figlio, si degni di coprire con la sua carità la moltitudine dei nostri peccati. A lui sia onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen.
10. «Vi ho detto queste cose perché non vi scandalizziate. Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi verrà l'ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio. E vi faranno ciò perché non hanno conosciuto né il Padre né me. Ma io vi ho detto queste cose perché, quando giungerà la loro ora, vi ricordiate che ve ne ho parlato» (Gv 16,14). E poiché «i dardi che si prevedono feriscono di meno» (Gregorio), per questo il Signore ha prevenuto i suoi soldati affinché, contrapponendo ai dardi della persecuzione lo scudo della pazienza, non si scandalizzino quando si imbatteranno nel momento della prova. «Vi ho detto queste cose, perché non vi scandalizziate». Io, Verbo del Padre, da cui dovete prendere esempio di pazienza, parlo a voi affinché non vi scandalizziate.
    Chi si scandalizza nel momento della persecuzione, con lo scandalo della sua impazienza si separa dai discepoli di Cristo. «Vi scacceranno dalle loro sinagoghe». Infatti dice Giovanni: «I giudei avevano già stabilito che se uno avesse riconosciuto il Cristo, sarebbe stato espulso dalla sinagoga» (Gv 9,22).
    Cristo dice: «Io sono la verità» (Gv 14,6). Chi predica la verità professa Cristo. Chi invece nella predicazione tace la verità rinnega Cristo. «La verità genera l'odio» (Terenzio), e quindi alcuni, per non incorrere nell'odio di certe persone, si coprono la bocca con il manto del silenzio. Se predicassero la verità, se dicessero le cose come stanno, come la stessa verità esige e come la sacra Scrittura espressamente comanda, incorrerebbero - se non mi inganno - nell'odio dei carnali e forse questi li scaccerebbero dalla loro sinagoga; siccome si regolano sull'esempio degli uomini, temono lo scandalo degli uomini, mentre non è lecito rinunciare alla verità per timore dello scandalo. E infatti i discepoli dissero a Gesù: «Sai che i farisei, sentita questa parola, si sono scandalizzati? Allora Gesù rispose: Ogni albero che non è stato piantato dal Padre mio celeste, sarà sradicato. Lasciateli perdere: sono ciechi e guide di ciechi» (Mt 15,12-14).
    O predicatori ciechi, poiché temete lo scandalo dei ciechi, per questo cadete nella cecità dell'anima. Questi fanno con voi ciò che fa la vacca selvatica con il cacciatore. Si legge nella Storia Naturale che la vacca selvatica lancia da lontano il suo sterco contro il cacciatore che la insegue e lo colpisce: il cacciatore viene così trattenuto e ritardato, e intanto essa fugge. Sicuramente fanno oggi così anche alcuni prelati, vacche grasse sul monte di Samaria (cf. Am 4,1), vacche belle e molto grasse che pascolano in luoghi paludosi (cf. Gn 41,2), le quali al cacciatore, cioè al predicatore, lanciano lo sterco delle cose temporali per sfuggire alle sue rampogne. Leggiamo infatti nell'Ecclesiastico: «Il pigro sarà lapidato con sassi infangati» (Eccli 22,1). E il Signore dice per bocca di Isaia: «Susciterò contro di loro i Medi», cioè dei predicatori, «che non cerchino l'argento, né bramino l'oro, affinché uccidano con le frecce i loro pargoli», cioè gli amatori del mondo, con le frecce della santa predicazione (Is 13,17-18).
11. Con questa seconda parte del brano evangelico concorda la seconda parte dell'epistola: «Siate ospitali a vicenda, senza mormorazione; ognuno secondo la grazia che ha ricevuto, mettendola a disposizione degli altri, come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio. Se uno parla, usi le parole di Dio; se uno esercita un ufficio, lo compia con la forza che ha ricevuto da Dio» (1Pt 4,9-11).
    Ospite è colui che accoglie e anche colui che è accolto. È chiamato in lat. hospes, come mettesse un piede sulla porta (lat. infert ostio pedem), oppure perché tiene la porta aperta (ostium patens), e quindi è detto ospitale. Sono ospitali quei predicatori che sentono il dovere di aprire ai peccatori la porta della predicazione; e fanno ciò senza mormorazione, cioè senza scandalo. Non si può infatti fare della mormorazione senza scandalo.
    E giustamente i predicatori sono detti ospitali, perché come buoni amministratori devono mettere a disposizione altrui la grazia della predicazione che hanno ricevuto e che si effettua in tante forme. Infatti, come tante sono le forme con cui si fanno i peccati, così anche la predicazione deve assumere svariate forme, affinché le anime, deformate dalle varie forme di vizi, vengano riformate con la forma della predicazione. Così parla Pietro ai prelati predicatori: «Pascete il gregge di Dio, che vi è affidato, provvedendo ad esso non per forza ma volentieri, secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; e non spadroneggiando sulla parte a voi affidata, ma facendovi modelli del gregge» (1Pt 5,2-3).
    E continua: «Se uno parla, adoperi le parole di Dio». Usa le parole di Dio colui che attribuisce a Dio, e non a se stesso, la perizia che ha nel parlare. E colui che usa le parole di Dio, si ricordi che null'altro deve insegnare se non la volontà di Dio, la dottrina delle sacre Scritture e ciò che è utile ai fratelli; e si guardi bene dal tacere ciò che invece deve insegnare. «E chi esercita un ufficio», sia con la parola, sia con qualunque altro incarico di carità, «lo faccia con la forza» non sua, ma «con quella ricevuta da Dio, affinché in tutte le cose», in tutte le nostre opere, «venga glorificato Dio, per mezzo di Gesù Cristo» (1Pt 4,11).
    Fratelli carissimi, supplichiamo umilmente Cristo Gesù affinché infonda in noi il Paràclito, lo Spirito di verità, e ci dia la pazienza per non scandalizzarci nel momento della tribolazione.
    A lui appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.