1. In quel tempo Simon Pietro disse a Gesù: «Ecco che noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito» (Mt 19,27).
In questo vangelo si devono considerare due fatti: - l'eccelsa dignità degli apostoli nel giudizio finale, - la ricompensa di coloro che lasciano le cose transitorie.
I. L'ECCELSA DIGNITÀ DEGLI APOSTOLI NEL GIUDIZIO FINALE
2. «Ecco che noi abbiamo lasciato tutto». Pietro, «agile corridore, che fa la sua corsa» (Ger 2,23), dice: «Ecco che noi abbiamo lasciato tutto».
Pietro, ti sei comportato saggiamente: non potevi certo, carico di pesi, tener dietro a colui che corre. Poco prima aveva sentito il Signore che affermava: «In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli» (Mt 19,23); e quindi per entrarvi con facilità lasciò tutto.
Che cosa si intende per «tutto»? Le cose esteriori e quelle interiori, cioè le cose possedute e anche la volontà di possedere, in modo tale che non ci è rimasto assolutamente nulla (alla lett. nessuna reliquia, dal lat. relinquere, lasciare). Dice il Signore per bocca di Isaia: «Distruggerò anche il nome di Babilonia, ogni sua reliquia (resto), germe e stirpe» (Is 14,22). Il nome di Babilonia sta a indicare i termini che esprimono la proprietà, come mio e tuo. Cristo ha distrutto negli apostoli non soltanto questo nome, ma anche le reliquie della proprietà; e non solo queste, ma anche il germe, cioè la tentazione di avere, e la stirpe, cioè la volontà di possedere.
Beati i religiosi nei quali queste cose vengono distrutte, perché a buon diritto anch'essi potranno dire: «Ecco che noi abbiamo lasciato tutto».
Guardate gli apostoli che volano. Dice Isaia: «Chi sono costoro che volano come le nubi, e come le colombe alle loro colombaie»? (lat. ad fenestras, alle finestre) (Is 60,8). Le nubi sono leggere. Gli apostoli, deposto il peso del mondo, volano leggeri, sulle ali dell'amore, dietro a Gesù. Dice Giobbe: «Conosci tu forse le grandi vie delle nubi e la scienza perfetta?» (Gb 37,16). Grande via è il lasciare tutto: via stretta durante il pellegrinaggio di questa vita, ma larga e grande nel momento della ricompensa. Scienza perfetta è amare Gesù e camminare dietro a lui. Questa fu la via e questa fu la scienza degli apostoli, che come colombe volarono alle loro finestre.
«Finestre» è come dire «che portano fuori» (lat. ferentes extra). Gli apostoli e gli uomini apostolici, semplici e innocenti come colombe, se ne volarono lontano dalle cose terrene in modo da custodire le finestre dei sensi, per non uscire attraverso di esse a quelle cose esteriori che avevano abbandonato. Per queste finestre è uscita quella colomba senza cuore, che si lasciò sedurre. Racconta la Genesi che Dina, figlia di Giacobbe, uscì a vedere le fanciulle di quella regione. La vide Sichem, che la rapì e violò la sua verginità (cf. Gn 34,1-2). Così l'anima sventurata viene portata all'esterno attraverso i sensi del corpo per vedere le bellezze mondane; e mentre va errando qua e là, con il suo consenso viene rapita dal diavolo, e il risultato è la sua rovina. Quale diversità di volo! Gli apostoli dalle cose terrene volano a quelle celesti; costei dalle cose celesti scende a quelle terrene; questa vola verso il diavolo, quelli verso Cristo.
Pietro, ti sei comportato saggiamente: non potevi certo, carico di pesi, tener dietro a colui che corre. Poco prima aveva sentito il Signore che affermava: «In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli» (Mt 19,23); e quindi per entrarvi con facilità lasciò tutto.
Che cosa si intende per «tutto»? Le cose esteriori e quelle interiori, cioè le cose possedute e anche la volontà di possedere, in modo tale che non ci è rimasto assolutamente nulla (alla lett. nessuna reliquia, dal lat. relinquere, lasciare). Dice il Signore per bocca di Isaia: «Distruggerò anche il nome di Babilonia, ogni sua reliquia (resto), germe e stirpe» (Is 14,22). Il nome di Babilonia sta a indicare i termini che esprimono la proprietà, come mio e tuo. Cristo ha distrutto negli apostoli non soltanto questo nome, ma anche le reliquie della proprietà; e non solo queste, ma anche il germe, cioè la tentazione di avere, e la stirpe, cioè la volontà di possedere.
Beati i religiosi nei quali queste cose vengono distrutte, perché a buon diritto anch'essi potranno dire: «Ecco che noi abbiamo lasciato tutto».
Guardate gli apostoli che volano. Dice Isaia: «Chi sono costoro che volano come le nubi, e come le colombe alle loro colombaie»? (lat. ad fenestras, alle finestre) (Is 60,8). Le nubi sono leggere. Gli apostoli, deposto il peso del mondo, volano leggeri, sulle ali dell'amore, dietro a Gesù. Dice Giobbe: «Conosci tu forse le grandi vie delle nubi e la scienza perfetta?» (Gb 37,16). Grande via è il lasciare tutto: via stretta durante il pellegrinaggio di questa vita, ma larga e grande nel momento della ricompensa. Scienza perfetta è amare Gesù e camminare dietro a lui. Questa fu la via e questa fu la scienza degli apostoli, che come colombe volarono alle loro finestre.
«Finestre» è come dire «che portano fuori» (lat. ferentes extra). Gli apostoli e gli uomini apostolici, semplici e innocenti come colombe, se ne volarono lontano dalle cose terrene in modo da custodire le finestre dei sensi, per non uscire attraverso di esse a quelle cose esteriori che avevano abbandonato. Per queste finestre è uscita quella colomba senza cuore, che si lasciò sedurre. Racconta la Genesi che Dina, figlia di Giacobbe, uscì a vedere le fanciulle di quella regione. La vide Sichem, che la rapì e violò la sua verginità (cf. Gn 34,1-2). Così l'anima sventurata viene portata all'esterno attraverso i sensi del corpo per vedere le bellezze mondane; e mentre va errando qua e là, con il suo consenso viene rapita dal diavolo, e il risultato è la sua rovina. Quale diversità di volo! Gli apostoli dalle cose terrene volano a quelle celesti; costei dalle cose celesti scende a quelle terrene; questa vola verso il diavolo, quelli verso Cristo.
3. «E ti abbiamo seguìto» (Mt 19,27). Per te abbiamo lasciato tutto, siamo diventati poveri. Ma poiché tu sei ricco, ti abbiamo seguito perché tu renda ricchi anche noi. Sono più miserabili di tutti gli uomini quei religiosi che lasciano tutto, e tuttavia non seguono Cristo. Essi ne hanno un doppio danno: sono privati di ogni consolazione esteriore, e non hanno neppure quella interiore; mentre i mondani, anche se mancano di quelle interiori, hanno almeno le consolazioni esteriori.
«Abbiamo seguito te», noi creature abbiamo seguito il Creatore, noi figli il padre, noi bam-bini la madre, noi affamati il pane, noi sitibondi la sorgente, noi malati il medico, noi stanchi il sostegno, noi esuli il paradiso. «Ti abbiamo seguito»: Noi corriamo alla fragranza dei tuoi pro-fumi (cf. Ct 1,3), perché «il profumo dei tuoi unguenti supera tutti gli aromi (Ct 4,10).
Si legge nella Storia Naturale che la pantera è un fiera di meravigliosa bellezza e che il suo odore è talmente inebriante da superare ogni altro profumo. Perciò, quando gli altri animali ne fiutano la presenza, subito le si avvicinano e la seguono, perché si sentono rinvigoriti in modo straordinario dalla sua vista e dal suo odore (Aristotele e Plinio). Quale sia l'amabilità e la bellezza del Signore nostro Gesù Cristo, lo sperimentano i beati nella patria, ma anche i giusti lo pregustano in qualche misura in questa vita. E quando gli apostoli costatarono la sua amabilità, lasciato tutto, subito lo seguirono.
«Noi ti abbiamo seguito: che cosa dunque ne otterremo?» (Mt 19,27). Dice Giobbe: «Come coloro che cercano un tesoro, e si rallegrano grandemente quando trovano un sepolcro» (Gb 3,21-22). Il tesoro nel sepolcro è figura di Dio nel corpo assunto dalla Vergine.
O apostoli, avete già trovato il tesoro, ormai lo possedete interamente. E che cosa cercate di più? «Che cosa ne otterremo?». E che cosa volete avere ancora? Conservate ciò che avete trovato, perché egli è tutto ciò che cercate. In lui - dice Baruc - c'è la sapienza, la prudenza, la fortezza, l'intelligenza, la longevità e il nutrimento, la luce degli occhi e la pace (cf. Bar 3,12. 14). C'è la sapienza che tutto crea; la prudenza con cui governa le cose create, la fortezza con la quale tiene a freno il diavolo, l'intelligenza con la quale tutto penetra, la longevità che rende eterni i salvati, il nutrimento con il quale li sazia, la luce che illumina, la pace che conforta e rassicura.
«Abbiamo seguito te», noi creature abbiamo seguito il Creatore, noi figli il padre, noi bam-bini la madre, noi affamati il pane, noi sitibondi la sorgente, noi malati il medico, noi stanchi il sostegno, noi esuli il paradiso. «Ti abbiamo seguito»: Noi corriamo alla fragranza dei tuoi pro-fumi (cf. Ct 1,3), perché «il profumo dei tuoi unguenti supera tutti gli aromi (Ct 4,10).
Si legge nella Storia Naturale che la pantera è un fiera di meravigliosa bellezza e che il suo odore è talmente inebriante da superare ogni altro profumo. Perciò, quando gli altri animali ne fiutano la presenza, subito le si avvicinano e la seguono, perché si sentono rinvigoriti in modo straordinario dalla sua vista e dal suo odore (Aristotele e Plinio). Quale sia l'amabilità e la bellezza del Signore nostro Gesù Cristo, lo sperimentano i beati nella patria, ma anche i giusti lo pregustano in qualche misura in questa vita. E quando gli apostoli costatarono la sua amabilità, lasciato tutto, subito lo seguirono.
«Noi ti abbiamo seguito: che cosa dunque ne otterremo?» (Mt 19,27). Dice Giobbe: «Come coloro che cercano un tesoro, e si rallegrano grandemente quando trovano un sepolcro» (Gb 3,21-22). Il tesoro nel sepolcro è figura di Dio nel corpo assunto dalla Vergine.
O apostoli, avete già trovato il tesoro, ormai lo possedete interamente. E che cosa cercate di più? «Che cosa ne otterremo?». E che cosa volete avere ancora? Conservate ciò che avete trovato, perché egli è tutto ciò che cercate. In lui - dice Baruc - c'è la sapienza, la prudenza, la fortezza, l'intelligenza, la longevità e il nutrimento, la luce degli occhi e la pace (cf. Bar 3,12. 14). C'è la sapienza che tutto crea; la prudenza con cui governa le cose create, la fortezza con la quale tiene a freno il diavolo, l'intelligenza con la quale tutto penetra, la longevità che rende eterni i salvati, il nutrimento con il quale li sazia, la luce che illumina, la pace che conforta e rassicura.
4. «E Gesù disse loro: In verità vi dico: Voi che mi avete seguito» (Mt 19,28). Il Signore non dice: «Voi che avete lasciato tutto», ma: «Voi che mi avete seguito»: ciò che è proprio degli apostoli e dei perfetti. Sono molti quelli che lasciano tutto, ma che tuttavia non seguono Cristo, perché, per così dire, trattengono se stessi. Se vuoi seguire e conseguire, è necessario che tu lasci te stesso. Chi segue un altro nella via, non guarda a se stesso, ma all'altro che ha costituito guida del suo cammino. Lasciare se stesso significa non confidare in sé in nessun caso, ritenersi inutile anche quando si è fatto tutto ciò che è stato comandato (cf. Lc 17,10), disprezzare se stesso come un cane morto o una pulce (cf. 1Re 24,15), nel proprio cuore non anteporsi a nessuno, reputarsi peggiore di tutti i più grandi peccatori, considerare tutte le proprie opere buone come un panno di donna immonda (cf. Is 64,6), mettere se stesso davanti a sé e piangersi come morto, umiliarsi profondamente in ogni occasione e abbandonarsi totalmente a Dio. Sentiamo che cosa è promesso a coloro che così si comportano.
«Nella nuova creazione» (lat. in regeneratione) - la prima rigenerazione avviene nell'anima per mezzo del battesimo; la seconda avverrà nel corpo il giorno del giudizio, quando i morti risorgeranno incorrotti (cf. 1Cor 15,52) -, «quando il Figlio dell'uomo», cioè Gesù che nella condizione di servo fu sottoposto a giudizio qui in terra, «sarà seduto», eserciterà il suo potere di giudice «sul trono della sua gloria», che è la chiesa, dove sarà manifestata la sua onnipotenza, «sederete anche voi su dodici troni» (Mt 19,28). Se soltanto i dodici apostoli, seduti sui dodici troni, saranno giudici con Cristo nel giorno del giudizio, dove sederà Paolo, «vaso di elezione» (At 9,15), che oggi da lupo è stato trasformato in agnello, che ha faticato più di tutti (cf. 1Cor 15,10), che fu rapito fino al terzo cielo, dove fu messo a parte di segreti che all'uomo non è lecito rivelare? (cf. 2Cor 12,2. 4). Dove sederà, io mi chiedo, un sì grande uomo, se nel tribunale ci sono per i giudici soltanto dodici troni, dal momento ch'egli afferma: «Non sapete che noi giudicheremo gli angeli?» (1Cor 6,3), si intende gli angeli cattivi.
Per questo, è necessario sapere che il numero dodici è usato per indicare la pienezza del po-tere, e che nelle dodici tribù d'Israele sono indicati tutti coloro che dovranno essere sottoposti a giudizio. Ecco dunque che i poveri, insieme con Gesù povero, figlio della Vergine poverella, giudicheranno con giustizia tutto il mondo (cf. Sal 9,9; 95,13). Dice anche Giobbe: «Dio non salva gli empi, e lascerà il giudizio ai poveri» (Gb 36,6). Dice «ai poveri» e non ai ricchi, «la cui gloria costituirà la loro confusione» (Fil 3,19). Infatti saranno confusi, quando vedranno seduti in giudizio con Cristo, e con Cristo giudicare, coloro che un tempo, in questo mondo, avevano deriso e schernito (cf. Sap 5,3).
«Nella nuova creazione» (lat. in regeneratione) - la prima rigenerazione avviene nell'anima per mezzo del battesimo; la seconda avverrà nel corpo il giorno del giudizio, quando i morti risorgeranno incorrotti (cf. 1Cor 15,52) -, «quando il Figlio dell'uomo», cioè Gesù che nella condizione di servo fu sottoposto a giudizio qui in terra, «sarà seduto», eserciterà il suo potere di giudice «sul trono della sua gloria», che è la chiesa, dove sarà manifestata la sua onnipotenza, «sederete anche voi su dodici troni» (Mt 19,28). Se soltanto i dodici apostoli, seduti sui dodici troni, saranno giudici con Cristo nel giorno del giudizio, dove sederà Paolo, «vaso di elezione» (At 9,15), che oggi da lupo è stato trasformato in agnello, che ha faticato più di tutti (cf. 1Cor 15,10), che fu rapito fino al terzo cielo, dove fu messo a parte di segreti che all'uomo non è lecito rivelare? (cf. 2Cor 12,2. 4). Dove sederà, io mi chiedo, un sì grande uomo, se nel tribunale ci sono per i giudici soltanto dodici troni, dal momento ch'egli afferma: «Non sapete che noi giudicheremo gli angeli?» (1Cor 6,3), si intende gli angeli cattivi.
Per questo, è necessario sapere che il numero dodici è usato per indicare la pienezza del po-tere, e che nelle dodici tribù d'Israele sono indicati tutti coloro che dovranno essere sottoposti a giudizio. Ecco dunque che i poveri, insieme con Gesù povero, figlio della Vergine poverella, giudicheranno con giustizia tutto il mondo (cf. Sal 9,9; 95,13). Dice anche Giobbe: «Dio non salva gli empi, e lascerà il giudizio ai poveri» (Gb 36,6). Dice «ai poveri» e non ai ricchi, «la cui gloria costituirà la loro confusione» (Fil 3,19). Infatti saranno confusi, quando vedranno seduti in giudizio con Cristo, e con Cristo giudicare, coloro che un tempo, in questo mondo, avevano deriso e schernito (cf. Sap 5,3).
II. RICOMPENSA DI COLORO CHE LASCIANO I BENI TERRENI
5. Ricompensa di coloro che lasciano i beni terreni: «Chiunque avrà lasciato casa, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, [o moglie (Lc 18,29)], o figli, o campi, ecc. « (Mt 19,29), avrà cioè posto il mio amore al di sopra di tutti gli affetti terreni.
6. Senso morale. La casa simboleggia l'abitudine cattiva, i fratelli i sensi del corpo, le sorelle i pensieri oziosi della mente, il padre il diavolo, la madre la sensualità, la moglie la vanità del mondo, i figli le opere, il campo le preoccupazioni terrene.
Seguendo il procedimento della generazione umana, determiniamo anche quella del peccatore, che da figlio di Dio diventa figlio del diavolo. Dalla suggestione del diavolo e dalla concupiscenza della sensualità, come da due semi, viene generato il peccatore. Infatti è detto in Ezechie-le: «Tuo padre è Amorreo, tua madre Cetea» (Ez 16,3).
Amorreo s'interpreta «che rende amaro» (amaricans). Di quale amarezza sia il diavolo, lo sanno coloro che sono stati contaminati dalla sua dolcezza, che è come il verme (cf. Is 66,24). Nessuno può sentire bene l'amarezza di una cosa, se prima non ha bevuto qualcosa di dolce. Dice Abacuc: «Guai a colui che dà da bere al suo amico, versandogli il fiele e ubriacandolo, per vedere la sua nudità. Sarà ricolmo di ignominia, non di gloria» (Ab 2,15-16). Il diavolo, per ingannare più facilmente e perché il peccatore beva più tranquillo, offre dapprima il miele del piacere, per poi inoculargli l'amarezza della morte mentre il miele viene avidamente sorbito; e così il peccatore, amico del diavolo, viene subito spogliato della grazia di Dio, e nella vita futura, in cambio della gloria del mondo, sarà coperto dell'ignominia dell'inferno.
Cetea s'interpreta «schiacciata». E questa è la concupiscenza della carne, che dev'essere schiacciata sotto il giogo dell'umiltà; infatti dice l'Ecclesiastico: «Il giogo e la fune piegano il collo duro, e la fatica continua doma lo schiavo. Per lo schiavo cattivo tortura e catene; fallo faticare perché non stia in ozio, poiché l'ozio insegna molte cattiverie» (Eccli 33,27-29). Lo schiavo raffigura la sensualità, la cui protervia si piega con il giogo dell'umiltà, la cui lascivia si frena con il tormento dell'astinenza e la catena dell'obbedienza.
Ecco il padre e la madre del peccatore, i cui fratelli sono gli illeciti appetiti dei sensi. Questi sono i fratelli di Giuseppe, che lo calarono in una vecchia cisterna (cf. Gn 37,20). Giuseppe raffigura lo spirito dell'uomo; la vecchia cisterna è il peccato mortale o anche l'inferno. Questi fratelli, come dice Giovanni, vogliono che lo spirito partecipi a questa festa (cf. Gv 7,8), cioè alla gloria delle cose temporali. Di essi dice Giobbe: «I miei fratelli mi sono passati avanti, come il torrente che scorre rapido verso le valli» (Gb 6,15). Verso le valli scendono le immondizie. I sensi della carne corrono vorticosamente verso le valli della gola e della lussuria, senza curarsi della rovina dello spirito.
Ci sono poi le «sorelle», così chiamate da seme, perché esse sole con i fratelli fanno parte della stretta parentela. Le sorelle del peccatore sono i pensieri lascivi della mente, che nascono dal seme della suggestione diabolica. Di essi dice Ezechiele: «Ci furono due donne, figlie della stessa madre, che si prostituirono in Egitto. I nomi loro: quello della maggiore Oolla e quello della minore Ooliba» (Ez 23,2-4). Due sono, in modo particolare, i pensieri dei quali per lo più si rende colpevole la mente del peccatore: la bramosia del denaro e il piacere della lussuria, che sono come due sorelle prostitute.
E infine la «moglie» del peccatore è la vanità del mondo. E questa è Gezabel, moglie di acab, della quale leggiamo nel terzo libro dei Re: «Istigato da Gezabel, sua moglie, Acab commise molti abomini, adorando gli idoli» (3Re 21,25-26). Gezabel s'interpreta «flusso di sangue», o «sangue che fluisce» o anche «letamaio». E questa è la vanità del mondo, dalla quale scorre il sangue di tutti i peccati, e che nel momento della morte sarà cambiata in letamaio. Si legge infatti nel primo libro dei Maccabei: «La gloria del peccatore è sterco e vermi. Oggi è esaltato, domani non si trova più, perché si è cambiato in terra, e il suo disegno fallirà» (1Mac 2,62-63). Questa moglie non permette che il suo uomo se ne stia in pace, ma lo istìga ad adorare gli idoli, cioè a commettere ogni sorta di peccato, e perciò si rende ripugnante a Dio.
Seguendo il procedimento della generazione umana, determiniamo anche quella del peccatore, che da figlio di Dio diventa figlio del diavolo. Dalla suggestione del diavolo e dalla concupiscenza della sensualità, come da due semi, viene generato il peccatore. Infatti è detto in Ezechie-le: «Tuo padre è Amorreo, tua madre Cetea» (Ez 16,3).
Amorreo s'interpreta «che rende amaro» (amaricans). Di quale amarezza sia il diavolo, lo sanno coloro che sono stati contaminati dalla sua dolcezza, che è come il verme (cf. Is 66,24). Nessuno può sentire bene l'amarezza di una cosa, se prima non ha bevuto qualcosa di dolce. Dice Abacuc: «Guai a colui che dà da bere al suo amico, versandogli il fiele e ubriacandolo, per vedere la sua nudità. Sarà ricolmo di ignominia, non di gloria» (Ab 2,15-16). Il diavolo, per ingannare più facilmente e perché il peccatore beva più tranquillo, offre dapprima il miele del piacere, per poi inoculargli l'amarezza della morte mentre il miele viene avidamente sorbito; e così il peccatore, amico del diavolo, viene subito spogliato della grazia di Dio, e nella vita futura, in cambio della gloria del mondo, sarà coperto dell'ignominia dell'inferno.
Cetea s'interpreta «schiacciata». E questa è la concupiscenza della carne, che dev'essere schiacciata sotto il giogo dell'umiltà; infatti dice l'Ecclesiastico: «Il giogo e la fune piegano il collo duro, e la fatica continua doma lo schiavo. Per lo schiavo cattivo tortura e catene; fallo faticare perché non stia in ozio, poiché l'ozio insegna molte cattiverie» (Eccli 33,27-29). Lo schiavo raffigura la sensualità, la cui protervia si piega con il giogo dell'umiltà, la cui lascivia si frena con il tormento dell'astinenza e la catena dell'obbedienza.
Ecco il padre e la madre del peccatore, i cui fratelli sono gli illeciti appetiti dei sensi. Questi sono i fratelli di Giuseppe, che lo calarono in una vecchia cisterna (cf. Gn 37,20). Giuseppe raffigura lo spirito dell'uomo; la vecchia cisterna è il peccato mortale o anche l'inferno. Questi fratelli, come dice Giovanni, vogliono che lo spirito partecipi a questa festa (cf. Gv 7,8), cioè alla gloria delle cose temporali. Di essi dice Giobbe: «I miei fratelli mi sono passati avanti, come il torrente che scorre rapido verso le valli» (Gb 6,15). Verso le valli scendono le immondizie. I sensi della carne corrono vorticosamente verso le valli della gola e della lussuria, senza curarsi della rovina dello spirito.
Ci sono poi le «sorelle», così chiamate da seme, perché esse sole con i fratelli fanno parte della stretta parentela. Le sorelle del peccatore sono i pensieri lascivi della mente, che nascono dal seme della suggestione diabolica. Di essi dice Ezechiele: «Ci furono due donne, figlie della stessa madre, che si prostituirono in Egitto. I nomi loro: quello della maggiore Oolla e quello della minore Ooliba» (Ez 23,2-4). Due sono, in modo particolare, i pensieri dei quali per lo più si rende colpevole la mente del peccatore: la bramosia del denaro e il piacere della lussuria, che sono come due sorelle prostitute.
E infine la «moglie» del peccatore è la vanità del mondo. E questa è Gezabel, moglie di acab, della quale leggiamo nel terzo libro dei Re: «Istigato da Gezabel, sua moglie, Acab commise molti abomini, adorando gli idoli» (3Re 21,25-26). Gezabel s'interpreta «flusso di sangue», o «sangue che fluisce» o anche «letamaio». E questa è la vanità del mondo, dalla quale scorre il sangue di tutti i peccati, e che nel momento della morte sarà cambiata in letamaio. Si legge infatti nel primo libro dei Maccabei: «La gloria del peccatore è sterco e vermi. Oggi è esaltato, domani non si trova più, perché si è cambiato in terra, e il suo disegno fallirà» (1Mac 2,62-63). Questa moglie non permette che il suo uomo se ne stia in pace, ma lo istìga ad adorare gli idoli, cioè a commettere ogni sorta di peccato, e perciò si rende ripugnante a Dio.
7. Dopo che il diavolo ha dato moglie al suo figlio, vuole che da essa generi dei figli, nipoti del diavolo stesso: in essi sono raffigurate le opere vane, inutili, le opere delle tenebre, degne della morte eterna. Dice in proposito Neemia: «Vidi che i giudei prendevano in moglie donne moabite, e i loro figli parlavano la lingua di Azoto e non sapevano parlare giudaico» cioè ebraico (2Esd 13,23-24). Moab s'interpreta «dal padre», Azoto «incendio» o «fuoco». Così anche oggi molti cristiani e religiosi prendono mogli, cioè seguono le vanità del mondo, generate dal diavolo, e da esse generano figli, vale a dire opere che non sanno parlare giudaico, non sanno cioè lodare Dio, ma parlano solo la lingua di Azoto, coltivano cioè l'incendio della gola e della lussuria e il fuoco dell'avarizia.
Ecco «la generazione iniqua e perversa» (Dt 32,5), alla quale il diavolo fornisce la casa delle cattive abitudini. Questa è la casa e la fornace di ferro dell'Egitto di cui dice l'Esodo: «Ricordatevi di questo giorno nel quale siete usciti dall'Egitto e dalla casa della schiavitù» (Es 13,3). Il giorno è il sole che splende sulla terra; il sole è la grazia di Dio la quale, mentre illumina la mente, libera dalla schiavitù delle cattive abitudini. Il peccatore già liberato deve ricordarsi di «questo giorno» e renderne sempre grazie a Dio.
Il diavolo dà anche i campi delle preoccupazioni terrene. Campo si dice in lat. ager, perché in esso si lavora, lat. àgitur. Dice la Genesi: «Caino disse ad Abele, suo fratello: Andiamo fuori. Quando furono nel campo, Caino si avventò su Abele e lo uccise» (Gn 4,8). Caino s'interpreta «possesso», Abele «pianto». Nel campo delle preoccupazioni terrene, il possesso delle ricchezze uccide il pianto della penitenza. Questo è l'Akeldamà, vale a dire il campo del sangue (At 1,19). Matteo però dice campi (Mt 19,29), e non campo, proprio per il grande numero delle preoccupazioni materiali.
Coloro, dunque, che avranno lasciato tutte queste cose, in questo mondo riceveranno il centuplo, cioè i beni spirituali i quali, paragonati ai beni materiali, e soprattutto per il loro valore intrinseco, sono come il numero cento paragonato a un numeretto. Dice Marco: «Riceverà cento volte tanto nella vita presente, con persecuzioni», cioè in questa vita piena di persecuzioni, «e nell'aldilà la vita eterna» (Mc 10,30).
Al possesso di questa vita ci conduca colui che è benedetto nei secoli. Amen.
Ecco «la generazione iniqua e perversa» (Dt 32,5), alla quale il diavolo fornisce la casa delle cattive abitudini. Questa è la casa e la fornace di ferro dell'Egitto di cui dice l'Esodo: «Ricordatevi di questo giorno nel quale siete usciti dall'Egitto e dalla casa della schiavitù» (Es 13,3). Il giorno è il sole che splende sulla terra; il sole è la grazia di Dio la quale, mentre illumina la mente, libera dalla schiavitù delle cattive abitudini. Il peccatore già liberato deve ricordarsi di «questo giorno» e renderne sempre grazie a Dio.
Il diavolo dà anche i campi delle preoccupazioni terrene. Campo si dice in lat. ager, perché in esso si lavora, lat. àgitur. Dice la Genesi: «Caino disse ad Abele, suo fratello: Andiamo fuori. Quando furono nel campo, Caino si avventò su Abele e lo uccise» (Gn 4,8). Caino s'interpreta «possesso», Abele «pianto». Nel campo delle preoccupazioni terrene, il possesso delle ricchezze uccide il pianto della penitenza. Questo è l'Akeldamà, vale a dire il campo del sangue (At 1,19). Matteo però dice campi (Mt 19,29), e non campo, proprio per il grande numero delle preoccupazioni materiali.
Coloro, dunque, che avranno lasciato tutte queste cose, in questo mondo riceveranno il centuplo, cioè i beni spirituali i quali, paragonati ai beni materiali, e soprattutto per il loro valore intrinseco, sono come il numero cento paragonato a un numeretto. Dice Marco: «Riceverà cento volte tanto nella vita presente, con persecuzioni», cioè in questa vita piena di persecuzioni, «e nell'aldilà la vita eterna» (Mc 10,30).
Al possesso di questa vita ci conduca colui che è benedetto nei secoli. Amen.
III. SERMONE ALLEGORICO
8. Giuseppe comandò che sulla bocca del sacco del fratello più giovane, Beniamino, fosse posta la sua coppa d'argento (cf. Gn 44,1-2). Troviamo un riferimento a queste parole nel libro dei Proverbi: «Argento pregiato è la lingua del giusto» (Pro 10,20). Beniamino fu dapprima chiamato Benoni, cioè «figlio del mio dolore», e solo in seguito Beniamino, vale a dire «figlio della destra» (cf. Gn 35,18). Egli è figura del beato Paolo il quale, scrivendo ai Filippesi, dice di se stesso: «Io, circonciso l'ottavo giorno, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo quanto all'osservanza della legge; quanto a zelo, persecutore della chiesa di Dio» (Fil 3,5-6).
Ecco Benoni. Prima fu infatti figlio del dolore, e solo dopo figlio della destra. Dicono gli Atti: «Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore... « (At 9,1). Saulo s'interpreta «tentazione» . Dove c'è tentazione c'è dolore. Senti la tentazione e il dolore: «Saulo intanto imperversava contro la chiesa ed entrando nelle case prendeva uomini e donne e li faceva mettere in prigione» (At 8,3). Il Capo della chiesa era in cielo, i piedi camminavano sulla terra, e Saulo li calpestava, li opprimeva. Per questo il Capo dal cielo gridava: «Sau-lo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4; 22,7). Saulo tentava, e il Capo soffriva e gridava: Tentazione, tentazione, perché mi perseguiti? E che cosa ne ricaverai? Ecco, ne ricaverai che per una sola persecuzione sarai battuto cinque volte con le verghe, ricevendo ogni volta quaranta colpi meno uno (cf. 2Cor 11,24). Subirai anche tu le tentazioni «nei numerosi viaggi, con pericoli di fiumi e pericoli di briganti» (2Cor 11,26). Sei figlio del dolore, e dolore dovrai sostenere perché tre volte sarai flagellato, una volta lapidato e tre volte farai naufragio (cf. 2Cor 11,25).
Abbiamo sentito di Benoni, sentiamo anche di Beniamino, e come il figlio del dolore sia stato oggi cambiato nel figlio della destra: quella Destra che oggi ha abbattuto il lupo e l'ha fatto rialzare agnello. Racconta Luca: «E mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all'improvviso lo avvolse una luce dal cielo. Cadde in terra e udì una voce che gli diceva» in ebraico: Saulo, Saulo!... «, ecc. (At 9,3-4). Destra suona, in latino, quasi come dans extra «che dà fuori». La destra dell'Onnipotente «diede fuori» un tale colpo sul duro collo del rinoceronte, che lo fece cadere a terra. «Lo avvolse» in pieno giorno «una luce dal cielo» che superava lo splendore del sole. O pietoso e benigno intervento della Destra! Tu colpisci con il flagello della luce, rimproveri con voce accorata: «Perché mi perseguiti?» (At 9,4). Oggi si è avverato ciò che era scritto: «La destra del Signore ha fatto meraviglie!» (Sal 117,16). La destra del Signore, abbattendo il persecutore Saulo lo ha esaltato, poiché del lupo ha fatto un agnello, del persecutore della chiesa un suo predicatore.
Ecco Benoni. Prima fu infatti figlio del dolore, e solo dopo figlio della destra. Dicono gli Atti: «Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore... « (At 9,1). Saulo s'interpreta «tentazione» . Dove c'è tentazione c'è dolore. Senti la tentazione e il dolore: «Saulo intanto imperversava contro la chiesa ed entrando nelle case prendeva uomini e donne e li faceva mettere in prigione» (At 8,3). Il Capo della chiesa era in cielo, i piedi camminavano sulla terra, e Saulo li calpestava, li opprimeva. Per questo il Capo dal cielo gridava: «Sau-lo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4; 22,7). Saulo tentava, e il Capo soffriva e gridava: Tentazione, tentazione, perché mi perseguiti? E che cosa ne ricaverai? Ecco, ne ricaverai che per una sola persecuzione sarai battuto cinque volte con le verghe, ricevendo ogni volta quaranta colpi meno uno (cf. 2Cor 11,24). Subirai anche tu le tentazioni «nei numerosi viaggi, con pericoli di fiumi e pericoli di briganti» (2Cor 11,26). Sei figlio del dolore, e dolore dovrai sostenere perché tre volte sarai flagellato, una volta lapidato e tre volte farai naufragio (cf. 2Cor 11,25).
Abbiamo sentito di Benoni, sentiamo anche di Beniamino, e come il figlio del dolore sia stato oggi cambiato nel figlio della destra: quella Destra che oggi ha abbattuto il lupo e l'ha fatto rialzare agnello. Racconta Luca: «E mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all'improvviso lo avvolse una luce dal cielo. Cadde in terra e udì una voce che gli diceva» in ebraico: Saulo, Saulo!... «, ecc. (At 9,3-4). Destra suona, in latino, quasi come dans extra «che dà fuori». La destra dell'Onnipotente «diede fuori» un tale colpo sul duro collo del rinoceronte, che lo fece cadere a terra. «Lo avvolse» in pieno giorno «una luce dal cielo» che superava lo splendore del sole. O pietoso e benigno intervento della Destra! Tu colpisci con il flagello della luce, rimproveri con voce accorata: «Perché mi perseguiti?» (At 9,4). Oggi si è avverato ciò che era scritto: «La destra del Signore ha fatto meraviglie!» (Sal 117,16). La destra del Signore, abbattendo il persecutore Saulo lo ha esaltato, poiché del lupo ha fatto un agnello, del persecutore della chiesa un suo predicatore.
9. «La destra del Signore ha operato meraviglie», quando sulla bocca del sacco ha riposto la sua coppa d'argento. «Va', Anania, poiché costui è per me un vaso di elezione, per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d'Israele» (At 9,15). La coppa d'argento è figura della sapienza luminosa ed eloquente, che Giuseppe, cioè Cristo, pose come speciale prerogativa nel cuore e nella bocca del più giovane Beniamino, cioè del beato Paolo. Beniamino era il più piccolo e l'ultimo tra i suoi fratelli; e Paolo, nella prima lettera ai Corinzi dice: «Ultimo fra tutti, il Signore apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il «minimo», l'infimo degli apostoli e non sono neppure degno di essere chiamato apostolo», ecc. (1Cor 15,8-9). Minimo è un termine che viene da mònade (l'unità), perché non c'è numero più piccolo dell'unità. O umiltà del minimo! Egli non si gloria, non si esalta per il dono della sapienza e dell'eloquenza, non per la grandezza delle rivelazioni e dei miracoli, non degli arcani segreti che ha udito, ma piange su se stesso per la persecuzione che ha scatenato contro la chiesa. «Io non sono neppure degno di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di Dio» (1Cor 15,9).
Guai a noi miseri, che nascondiamo ai nostri occhi i nostri numerosi peccati per non vederli; e se una sola cosa buona abbiamo fatto, che è quasi niente, ce la mettiamo davanti agli occhi e la ostentiamo agli altri. Dovremmo fare invece come fanno i «ribaldi» che, quando vogliono guadagnare qualcosa, nascondono le vesti buone, se ne hanno, e ostentano la loro nudità e la loro miseria ai ricchi di questo mondo. Così anche noi, se abbiamo fatto del bene, teniamolo nascosto, e mostriamo invece le miserie della nostra debolezza per ricevere dal Signore il dono della sua grazia.
Rendiamo grazie a Gesù Nazareno che oggi, da un persecutore, ci ha dato un mirabile dottore, con la cui dottrina ci illumina. Sia egli benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
Guai a noi miseri, che nascondiamo ai nostri occhi i nostri numerosi peccati per non vederli; e se una sola cosa buona abbiamo fatto, che è quasi niente, ce la mettiamo davanti agli occhi e la ostentiamo agli altri. Dovremmo fare invece come fanno i «ribaldi» che, quando vogliono guadagnare qualcosa, nascondono le vesti buone, se ne hanno, e ostentano la loro nudità e la loro miseria ai ricchi di questo mondo. Così anche noi, se abbiamo fatto del bene, teniamolo nascosto, e mostriamo invece le miserie della nostra debolezza per ricevere dal Signore il dono della sua grazia.
Rendiamo grazie a Gesù Nazareno che oggi, da un persecutore, ci ha dato un mirabile dottore, con la cui dottrina ci illumina. Sia egli benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
IV. SERMONE MORALE
10. Giuseppe comandò che alla bocca del sacco di Beniamino fosse posta la sua coppa d'argento. Vediamo quale significato morale abbiano Beniamino, il suo sacco, la bocca del sacco e la coppa d'argento.
Beniamino è figura del peccatore, che dapprima è figlio del dolore: «Ho sempre dinanzi a me il mio dolore» (Sal 37,18). Fa' attenzione che dice: dinanzi a me. Raccontano che lo struzzo tiene le sue uova davanti a sé, le guarda fissamente e di continuo e fissandole le riscalda, e così le uova si schiudono e nascono i pulcini. Così il peccatore deve tenere sempre dinanzi alla mente le sue opere, esaminarle spesso e attentamente con dolore, per far germogliare da esse il frutto della penitenza. Chi mette se stesso davanti a sé, non trova in se stesso altro che dolore. Invece i miseri peccatori fanno come le scimmie, delle quali dice la Storia Naturale che quando c'è la luna piena saltano allegramente, e quando la luna è cornuta (calante o crescente) allora sono malinconiche; reggono sul davanti i piccoli che amano, sul dorso invece quelli che non amano. Il capriccio della fortuna cambia come l'aspetto della luna: cresce e cala, e non può mai restare la stessa. Quando la fortuna del mondo è come la luna piena, allora i carnali esultano. Leggiamo nel libro di Giobbe: «Si divertono con giochi, cantano al suono di timpani e cetre, e danzano al suono degli strumenti. Passano nei godimenti i loro giorni, ma poi in un punto (in un istante) sprofondano nell'inferno» (Gb 21,11-13). Punto deriva da pungere. Nell'ora della morte i mondani saranno punti dal diavolo talmente forte, che dal letto, nel quale stanno sdraiati, saranno costretti a fare un salto fin giù all'inferno. Quando infatti la fortuna presenta loro «i corni» delle avversità, cadono nella tristezza, perché le avversità deprimono, mentre la prosperità esalta. Costoro portano nel petto i figli, cioè la gloria del mondo, i piaceri della gola e la lussuria della carne, cose che amano; invece la sofferenza, la penitenza e le miserie di questa vita le tengono dietro le spalle, dove nulla vedono.
Ma sentiamo che cosa fa Benoni. «Il mio dolore è sempre dinanzi a me». Poiché ama il dolore, lo tiene sempre dinanzi a sé, e in esso si esamina come in uno specchio e scopre le sue macchie. Dice Geremia: «Fatti un punto di osservazione, mettiti nell'amarezza e dirigi il tuo cuore sulla via retta» (Ger 31,21). Una cosa deriva dall'altra: Chi mette davanti a sé lo specchio della sua vita, si mette nell'amarezza, e necessariamente orienta il suo cuore sulla via delle buone opere. Colui che in questo modo sarà Benoni, diventerà Beniamino, cioè figlio della destra.
Beniamino è figura del peccatore, che dapprima è figlio del dolore: «Ho sempre dinanzi a me il mio dolore» (Sal 37,18). Fa' attenzione che dice: dinanzi a me. Raccontano che lo struzzo tiene le sue uova davanti a sé, le guarda fissamente e di continuo e fissandole le riscalda, e così le uova si schiudono e nascono i pulcini. Così il peccatore deve tenere sempre dinanzi alla mente le sue opere, esaminarle spesso e attentamente con dolore, per far germogliare da esse il frutto della penitenza. Chi mette se stesso davanti a sé, non trova in se stesso altro che dolore. Invece i miseri peccatori fanno come le scimmie, delle quali dice la Storia Naturale che quando c'è la luna piena saltano allegramente, e quando la luna è cornuta (calante o crescente) allora sono malinconiche; reggono sul davanti i piccoli che amano, sul dorso invece quelli che non amano. Il capriccio della fortuna cambia come l'aspetto della luna: cresce e cala, e non può mai restare la stessa. Quando la fortuna del mondo è come la luna piena, allora i carnali esultano. Leggiamo nel libro di Giobbe: «Si divertono con giochi, cantano al suono di timpani e cetre, e danzano al suono degli strumenti. Passano nei godimenti i loro giorni, ma poi in un punto (in un istante) sprofondano nell'inferno» (Gb 21,11-13). Punto deriva da pungere. Nell'ora della morte i mondani saranno punti dal diavolo talmente forte, che dal letto, nel quale stanno sdraiati, saranno costretti a fare un salto fin giù all'inferno. Quando infatti la fortuna presenta loro «i corni» delle avversità, cadono nella tristezza, perché le avversità deprimono, mentre la prosperità esalta. Costoro portano nel petto i figli, cioè la gloria del mondo, i piaceri della gola e la lussuria della carne, cose che amano; invece la sofferenza, la penitenza e le miserie di questa vita le tengono dietro le spalle, dove nulla vedono.
Ma sentiamo che cosa fa Benoni. «Il mio dolore è sempre dinanzi a me». Poiché ama il dolore, lo tiene sempre dinanzi a sé, e in esso si esamina come in uno specchio e scopre le sue macchie. Dice Geremia: «Fatti un punto di osservazione, mettiti nell'amarezza e dirigi il tuo cuore sulla via retta» (Ger 31,21). Una cosa deriva dall'altra: Chi mette davanti a sé lo specchio della sua vita, si mette nell'amarezza, e necessariamente orienta il suo cuore sulla via delle buone opere. Colui che in questo modo sarà Benoni, diventerà Beniamino, cioè figlio della destra.
11. Fa' attenzione, perché la destra è figura di due cose: della grazia nella vita presente, e della gloria in quella futura. Della destra della grazia si dice nell'Apocalisse: «E teneva nella sua destra sette stelle» (Ap 1,16). Queste sette stelle sono presentate nella lettura della messa, quando si legge di Saulo: All'improvviso lo avvolse una luce dal cielo, cadde a terra, si alzò ed entrò in città, ricuperò la vista, ricevette il battesimo, prese cibo, e predicò Gesù (cf. At 9,3-20 passim).
Nel primo evento [lo avvolse una luce] è indicata la grazia che previene, nel secondo la considerazione della fragilità, nel terzo il riconoscimento della propria iniquità, nel quarto la purificazione della coscienza, nel quinto l'effusione delle lacrime, nel sesto la dolcezza della contemplazione, nel settimo l'annuncio della Parola o anche il rendimento di grazie. Consideriamoli ad uno ad uno.
Quando il peccatore si avvia verso Damasco, nome che s'interpreta «bevanda di sangue» , tende cioè ad assimilare la nefandezza del peccato, all'improvviso, poiché non sa da dove viene e dove va, «lo avvolge una luce dal cielo», della quale Giobbe dice: Indicami in quale via abita la luce, e dove hanno dimora le tenebre, perché tu le conduca ai loro luoghi (cf. Gb 38,18-20). La luce è la grazia; la dimora delle tenebre è la mente cieca del peccatore; il luogo del peccato è la fine, il termine. Quando la mente del peccatore viene illuminata dalla grazia, si pone fine al peccato.
«Cadde a terra». Dice il salmo: «Al suo cospetto cadranno tutti coloro che discendono nella terra» (Sal 21,30). Come dicesse: Al cospetto di Dio si umilia colui che considera la sua fragilità.
«Entra in città». Dice il salmo: «Tutto il giorno entravo pieno di tristezza» (Sal 37,7). All'esterno lotte, all'interno colpe e timori (cf. 2Cor 7,5). Se uno, quando è fuori casa, riceve un'offesa, e poi rientrando trovasse la casa sudicia e in disordine, forse che non ne sarebbe pro-fondamente addolorato e rattristato? Non c'è dubbio. Così il penitente, considerando l'immondezza esteriore del mondo e riconoscendo anche quella interiore della sua coscienza, si aggira tutto il giorno ricolmo di tristezza. Fa' attenzione che dice «tutto il giorno». Prima che un raggio di sole entri nella casa, non è visibile al suo interno la polvere sospesa nell'aria; ma se vi entra un raggio di sole, l'aria si mostra subito piena di polvere. Il raggio di sole è la conoscenza che mostra all'uomo le colpe della sua coscienza, e mette in evidenza con grande chiarezza ciò che prima era nascosto. E poiché uno deve rientrare in se stesso non ogni tanto ma continuamente, e rattristarsi del suo stato, dice appunto «tutto il giorno». Chi vuol conoscere la sua miseria in modo completo, deve entrare in se stesso e rattristarsi non per metà giornata, ma tutto il giorno. E poiché da questa tristezza si arriva all'emendazione della coscienza, ecco il quarto punto: «Ricuperò la vista». «Improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame (At 9,18). Abbiamo un riferimento a questo nel libro di Tobia: «Incominciò ad uscire dai suoi occhi una materia bianca simile alla membrana dell'uovo. Tobi, prendendola, la tolse dagli occhi di suo padre, e questi ricuperò la vista» (Tb 11,14-15). Le squame sono figura dell'impurità della mente, e la membrana dell'uovo simboleggia la vanagloria. Dice Geremia: «Le sue vergini sono rugose» (Lam 1,4), cioè scabbiose. La scabbia nell'uomo è paragonabile alle squame del pesce o del serpente. Come dicesse: Anche se sono vergini nel corpo, sono scabbiose a motivo dell'immondo eccitamento della fantasia. La membrana dell'uovo, che è sottile e candida, raffigura la vanagloria, che è molto sottile, cioè astuta, perché quando sembra che qualcosa venga fatto per devozione, vien fatto invece per brama di lode mondana; è candida perché si compiace solo dell'apparenza esteriore. «Candido» è un termine che insinua l'idea di una bianchezza artificiale (candeggiato), mentre con il termine «bianco» si indica la bianchezza naturale. Queste due colpe, l'impurità della mente e la vanagloria, accecano gli uomini, ma quando, con la grazia di Dio, vengono rimosse, la coscienza viene purificata e si ricupera la vista.
«Ricevette il battesimo». Si legge nel libro di Giuditta che questa «usciva di notte nella valle sotto Betulia, e si lavava (lat. baptizabat se) ad una sorgente d'acqua» (Gdt 12,7). Giuditta si interpreta «che confessa», Betulia «casa che partorisce il Signore», notte «tempo silenzioso», valle «umiltà», sorgente «lacrime». Chi si confessa, cioè il penitente, esce dal tumulto interiore ed esteriore, esce di notte (alla lettera), oppure nel silenzio, nella valle sotto Betulia, nell'umiltà della coscienza, con la quale partorisce il Signore, per sé nella contrizione, per gli altri con la predicazione, e lì si battezza, si lava, nella compunzione delle lacrime.
«Prese cibo». Dice l'Ecclesiastico: «Lo nutrirà con pane di vita e di intelligenza» (Eccli 15,3). Considera che c'è una duplice dolcezza nella contemplazione: la prima è nel sentimento e appartiene alla vita, la seconda è nell'intelletto e appartiene al sapere. Questa seconda avviene con l'elevazione della mente, mentre la prima si verifica in una specie di alienazione della mente. L'elevazione della mente si ha quando l'acutezza dell'intelligenza, illuminata da Dio, trascende i traguardi delle umane capacità, senza però arrivare all'alienazione della mente, così che ciò che vede è al di sopra di se stessa, tuttavia non si allontana del tutto dalle cose abituali. L'alienazione della mente si ha quando la memoria [il ricordo] delle cose presenti abbandona la mente e, trasfigurata dall'intervento divino, passa in un certo stato d'animo straordinario e inaccessibile all'umana capacità.
Chi è ristorato con tale cibo è in grado, ben rinfrancato, «di predicare Gesù», oppure anche rendergli grazie. Infatti, dice il salmo: «I poveri mangeranno e saranno saziati e canteranno lodi al Signore» (Sal 21,27). I poveri, cioè gli umili, prima mangeranno con l'intelligenza, e quindi saranno saziati nell'affetto, nel sentimento, e così canteranno lodi al Signore.
Queste sono dunque le sette stelle che stanno nella destra di Cristo, il cui figlio è ora Beniamino, poiché prima è stato Benoni.
Nel primo evento [lo avvolse una luce] è indicata la grazia che previene, nel secondo la considerazione della fragilità, nel terzo il riconoscimento della propria iniquità, nel quarto la purificazione della coscienza, nel quinto l'effusione delle lacrime, nel sesto la dolcezza della contemplazione, nel settimo l'annuncio della Parola o anche il rendimento di grazie. Consideriamoli ad uno ad uno.
Quando il peccatore si avvia verso Damasco, nome che s'interpreta «bevanda di sangue» , tende cioè ad assimilare la nefandezza del peccato, all'improvviso, poiché non sa da dove viene e dove va, «lo avvolge una luce dal cielo», della quale Giobbe dice: Indicami in quale via abita la luce, e dove hanno dimora le tenebre, perché tu le conduca ai loro luoghi (cf. Gb 38,18-20). La luce è la grazia; la dimora delle tenebre è la mente cieca del peccatore; il luogo del peccato è la fine, il termine. Quando la mente del peccatore viene illuminata dalla grazia, si pone fine al peccato.
«Cadde a terra». Dice il salmo: «Al suo cospetto cadranno tutti coloro che discendono nella terra» (Sal 21,30). Come dicesse: Al cospetto di Dio si umilia colui che considera la sua fragilità.
«Entra in città». Dice il salmo: «Tutto il giorno entravo pieno di tristezza» (Sal 37,7). All'esterno lotte, all'interno colpe e timori (cf. 2Cor 7,5). Se uno, quando è fuori casa, riceve un'offesa, e poi rientrando trovasse la casa sudicia e in disordine, forse che non ne sarebbe pro-fondamente addolorato e rattristato? Non c'è dubbio. Così il penitente, considerando l'immondezza esteriore del mondo e riconoscendo anche quella interiore della sua coscienza, si aggira tutto il giorno ricolmo di tristezza. Fa' attenzione che dice «tutto il giorno». Prima che un raggio di sole entri nella casa, non è visibile al suo interno la polvere sospesa nell'aria; ma se vi entra un raggio di sole, l'aria si mostra subito piena di polvere. Il raggio di sole è la conoscenza che mostra all'uomo le colpe della sua coscienza, e mette in evidenza con grande chiarezza ciò che prima era nascosto. E poiché uno deve rientrare in se stesso non ogni tanto ma continuamente, e rattristarsi del suo stato, dice appunto «tutto il giorno». Chi vuol conoscere la sua miseria in modo completo, deve entrare in se stesso e rattristarsi non per metà giornata, ma tutto il giorno. E poiché da questa tristezza si arriva all'emendazione della coscienza, ecco il quarto punto: «Ricuperò la vista». «Improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame (At 9,18). Abbiamo un riferimento a questo nel libro di Tobia: «Incominciò ad uscire dai suoi occhi una materia bianca simile alla membrana dell'uovo. Tobi, prendendola, la tolse dagli occhi di suo padre, e questi ricuperò la vista» (Tb 11,14-15). Le squame sono figura dell'impurità della mente, e la membrana dell'uovo simboleggia la vanagloria. Dice Geremia: «Le sue vergini sono rugose» (Lam 1,4), cioè scabbiose. La scabbia nell'uomo è paragonabile alle squame del pesce o del serpente. Come dicesse: Anche se sono vergini nel corpo, sono scabbiose a motivo dell'immondo eccitamento della fantasia. La membrana dell'uovo, che è sottile e candida, raffigura la vanagloria, che è molto sottile, cioè astuta, perché quando sembra che qualcosa venga fatto per devozione, vien fatto invece per brama di lode mondana; è candida perché si compiace solo dell'apparenza esteriore. «Candido» è un termine che insinua l'idea di una bianchezza artificiale (candeggiato), mentre con il termine «bianco» si indica la bianchezza naturale. Queste due colpe, l'impurità della mente e la vanagloria, accecano gli uomini, ma quando, con la grazia di Dio, vengono rimosse, la coscienza viene purificata e si ricupera la vista.
«Ricevette il battesimo». Si legge nel libro di Giuditta che questa «usciva di notte nella valle sotto Betulia, e si lavava (lat. baptizabat se) ad una sorgente d'acqua» (Gdt 12,7). Giuditta si interpreta «che confessa», Betulia «casa che partorisce il Signore», notte «tempo silenzioso», valle «umiltà», sorgente «lacrime». Chi si confessa, cioè il penitente, esce dal tumulto interiore ed esteriore, esce di notte (alla lettera), oppure nel silenzio, nella valle sotto Betulia, nell'umiltà della coscienza, con la quale partorisce il Signore, per sé nella contrizione, per gli altri con la predicazione, e lì si battezza, si lava, nella compunzione delle lacrime.
«Prese cibo». Dice l'Ecclesiastico: «Lo nutrirà con pane di vita e di intelligenza» (Eccli 15,3). Considera che c'è una duplice dolcezza nella contemplazione: la prima è nel sentimento e appartiene alla vita, la seconda è nell'intelletto e appartiene al sapere. Questa seconda avviene con l'elevazione della mente, mentre la prima si verifica in una specie di alienazione della mente. L'elevazione della mente si ha quando l'acutezza dell'intelligenza, illuminata da Dio, trascende i traguardi delle umane capacità, senza però arrivare all'alienazione della mente, così che ciò che vede è al di sopra di se stessa, tuttavia non si allontana del tutto dalle cose abituali. L'alienazione della mente si ha quando la memoria [il ricordo] delle cose presenti abbandona la mente e, trasfigurata dall'intervento divino, passa in un certo stato d'animo straordinario e inaccessibile all'umana capacità.
Chi è ristorato con tale cibo è in grado, ben rinfrancato, «di predicare Gesù», oppure anche rendergli grazie. Infatti, dice il salmo: «I poveri mangeranno e saranno saziati e canteranno lodi al Signore» (Sal 21,27). I poveri, cioè gli umili, prima mangeranno con l'intelligenza, e quindi saranno saziati nell'affetto, nel sentimento, e così canteranno lodi al Signore.
Queste sono dunque le sette stelle che stanno nella destra di Cristo, il cui figlio è ora Beniamino, poiché prima è stato Benoni.
12. Beniamino è detto «più giovane», perché era il minore, l'ultimo di tutti i fratelli: in questo è indicata l'umiltà del penitente. La stessa cosa è detta anche di Davide: «Rimane ancora il più piccolo, che ora sta pascolando le pecore» (1Re 16,11). Soltanto l'umiltà della coscienza pascola le pecore dell'innocenza. Nella bocca del sacco di questo Beniamino, l'antico Giuseppe comandò che fosse posta la sua coppa d'argento. La coppa d'argento simboleggia l'aperta ed esplicita confessione dei peccati, che il penitente deve riempire con il vino della compunzione ed offrire a Cristo. Dice infatti Neemia: «Alzai la coppa del vino e l'offrii al re. Mi sentivo quasi languire e venir meno alla sua presenza» (2Esd 2,1). E la sposa del Cantico dei Cantici: «Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme», cioè potenze celesti, «se incontrate il mio diletto, ditegli che io languisco di amore» (Ct 5,8). Chi languisce di amore per Cristo, gli offre il vino della compunzione. E osserva che dice «alzai». L'ipocrita non alza, non aumenta la compunzione, ma la reprime, perché lui sparge lacrime solo per la vanagloria.
Questa coppa d'argento è posta sulla bocca, e non sul fondo del sacco. Il sacco è ispido e ruvido, ed è figura del cuore contrito, di cui nel libro di Giona si dice che il re di Ninive «si vestì di sacco e si mise a sedere sulla cenere» (Gio 3,6). Ninive s'interpreta «appariscente». E questa è la vanità del mondo, che è come il fango coperto di neve; il suo re è il penitente, perché egli la calpesta: vestito di sacco, siede sulla cenere perché, nella contrizione del cuore, medita sulla sua fine, quando sarà ridotto in cenere. Egli non nasconde nel fondo, ma porta alla bocca la coppa d'argento della sua confessione, sempre pronto all'accusa di se stesso. E osserva che dice «la sua coppa». La grazia della confessione non devi attribuirla a te stesso ma a Cristo, dal quale viene quanto c'è in te di bene.
A lui dunque sia gloria e onore. Egli da un Benoni trae un Beniamino, da un figlio del dolore trae nella vita presente un figlio della grazia, e ne fa nella vita futura un figlio della gloria, quando, insieme con coloro che stanno alla destra, meriterà di sentire: Venite, benedetti del Padre mio, e ricevete il regno! (cf. Mt 25,34).
Si degni di concederlo anche a noi colui che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
Questa coppa d'argento è posta sulla bocca, e non sul fondo del sacco. Il sacco è ispido e ruvido, ed è figura del cuore contrito, di cui nel libro di Giona si dice che il re di Ninive «si vestì di sacco e si mise a sedere sulla cenere» (Gio 3,6). Ninive s'interpreta «appariscente». E questa è la vanità del mondo, che è come il fango coperto di neve; il suo re è il penitente, perché egli la calpesta: vestito di sacco, siede sulla cenere perché, nella contrizione del cuore, medita sulla sua fine, quando sarà ridotto in cenere. Egli non nasconde nel fondo, ma porta alla bocca la coppa d'argento della sua confessione, sempre pronto all'accusa di se stesso. E osserva che dice «la sua coppa». La grazia della confessione non devi attribuirla a te stesso ma a Cristo, dal quale viene quanto c'è in te di bene.
A lui dunque sia gloria e onore. Egli da un Benoni trae un Beniamino, da un figlio del dolore trae nella vita presente un figlio della grazia, e ne fa nella vita futura un figlio della gloria, quando, insieme con coloro che stanno alla destra, meriterà di sentire: Venite, benedetti del Padre mio, e ricevete il regno! (cf. Mt 25,34).
Si degni di concederlo anche a noi colui che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.