TEMI DEL SERMONE
ESORDIO - SERMONE SULL'UNZIONE DELLA GRAZIA
1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: «In verità, in verità vi dico: Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà» (Gv 16,23).
Dice Giovanni nella sua prima lettera: «La sua unzione vi istruisce su ogni cosa» (1Gv 2,27).
Osserva che l'unzione è duplice: la prima è l'infusione della grazia, della quale dice il profeta: «Ti ha unto Dio, il tuo Dio, con olio di letizia, a preferenza dei tuoi eguali» (Sal 44,8). O Dio Figlio, il Dio Padre tuo ti ha unto, in quanto uomo, con l'olio di letizia, cioè con il dono della grazia settiforme, che ti ha reso immune da ogni peccato; «a preferenza dei tuoi eguali», perché a te lo Spirito è stato infuso senza misura, mentre agli altri è stato infuso con certe limitazioni. Infatti leggiamo in Giovanni: «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto» (Gv 1,16).
La seconda unzione è la predicazione della parola di Dio, della quale è detto nel terzo libro dei Re, che Zadoc e Natan unsero Salomone in Gichon (cf. 3Re 1,38-39). Zadoc s'interpreta «giustizia», Natan «dono della grazia», Salomone «pacifico», Gichon «lotta». La giustizia della vita onesta e il dono della grazia, vale a dire la predicazione della parola di Dio, ungono il peccatore, riconciliato con Dio in Gichon per mezzo della confessione, affinché, spoglio dei peccati e delle cose temporali, sia in grado di lottare contro il diavolo.
Quando la prima unzione unge interiormente l'anima, la seconda diventa molto efficace. Ma se la prima manca, la seconda non ha più alcuna efficacia. Perciò la Glossa commenta: La sua unzione ci istruisce su tutto. Nessuno attribuisca a chi insegna ciò che sente e comprende dalla bocca di lui; se non c'è all'interno uno che istruisce, la lingua del maestro si affatica invano all'esterno; non per questo il maestro deve tacere, anzi deve fare quanto sta in lui, perché la sua predicazione è utile a creare le buone disposizioni. Infatti l'unzione dell'ispirazione interiore, o della predicazione del Signore, ci istruisce su tutte le cose riguardanti la salvezza dell'anima, che sono: il disprezzo del mondo, l'umile sentire di sé, la ricerca della felicità celeste. E a questo proposito il Signore, nel vangelo di oggi, dice: «In verità, in verità vi dico: Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la concederà».
Dice Giovanni nella sua prima lettera: «La sua unzione vi istruisce su ogni cosa» (1Gv 2,27).
Osserva che l'unzione è duplice: la prima è l'infusione della grazia, della quale dice il profeta: «Ti ha unto Dio, il tuo Dio, con olio di letizia, a preferenza dei tuoi eguali» (Sal 44,8). O Dio Figlio, il Dio Padre tuo ti ha unto, in quanto uomo, con l'olio di letizia, cioè con il dono della grazia settiforme, che ti ha reso immune da ogni peccato; «a preferenza dei tuoi eguali», perché a te lo Spirito è stato infuso senza misura, mentre agli altri è stato infuso con certe limitazioni. Infatti leggiamo in Giovanni: «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto» (Gv 1,16).
La seconda unzione è la predicazione della parola di Dio, della quale è detto nel terzo libro dei Re, che Zadoc e Natan unsero Salomone in Gichon (cf. 3Re 1,38-39). Zadoc s'interpreta «giustizia», Natan «dono della grazia», Salomone «pacifico», Gichon «lotta». La giustizia della vita onesta e il dono della grazia, vale a dire la predicazione della parola di Dio, ungono il peccatore, riconciliato con Dio in Gichon per mezzo della confessione, affinché, spoglio dei peccati e delle cose temporali, sia in grado di lottare contro il diavolo.
Quando la prima unzione unge interiormente l'anima, la seconda diventa molto efficace. Ma se la prima manca, la seconda non ha più alcuna efficacia. Perciò la Glossa commenta: La sua unzione ci istruisce su tutto. Nessuno attribuisca a chi insegna ciò che sente e comprende dalla bocca di lui; se non c'è all'interno uno che istruisce, la lingua del maestro si affatica invano all'esterno; non per questo il maestro deve tacere, anzi deve fare quanto sta in lui, perché la sua predicazione è utile a creare le buone disposizioni. Infatti l'unzione dell'ispirazione interiore, o della predicazione del Signore, ci istruisce su tutte le cose riguardanti la salvezza dell'anima, che sono: il disprezzo del mondo, l'umile sentire di sé, la ricerca della felicità celeste. E a questo proposito il Signore, nel vangelo di oggi, dice: «In verità, in verità vi dico: Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, egli ve la concederà».
2. In questo vangelo si devono considerare tre momenti. Primo, la richiesta della gioia perfetta, quando dice: «In verità, in verità vi dico», ecc. Secondo, la supplica di Gesù Cristo al Padre per noi: «Io pregherò il Padre per voi». Terzo, la conoscenza che ha Cristo stesso di tutte le cose: «Adesso conosciamo che sai tutto».
Nell'introito della messa di questa domenica si canta: «Con voce di giubilo annunziate... « (Is 48,20), e si legge l'epistola del beato Giacomo: «Siate esecutori della Parola» (Gc 1,22). Divideremo il brano dell'epistola in tre parti e ne vedremo la concordanza con le tre parti del brano evangelico. Ecco le tre parti dell'epistola: primo: «Siate esecutori della Parola»; secondo, «chi invece fissa lo sguardo nella legge della perfetta libertà»; terzo, «se qualcuno pensa di essere religioso», ecc.
Nell'introito della messa di questa domenica si canta: «Con voce di giubilo annunziate... « (Is 48,20), e si legge l'epistola del beato Giacomo: «Siate esecutori della Parola» (Gc 1,22). Divideremo il brano dell'epistola in tre parti e ne vedremo la concordanza con le tre parti del brano evangelico. Ecco le tre parti dell'epistola: primo: «Siate esecutori della Parola»; secondo, «chi invece fissa lo sguardo nella legge della perfetta libertà»; terzo, «se qualcuno pensa di essere religioso», ecc.
I. CHIEDERE LA PIENEZZA DEL GAUDIO
3. «In verità, in verità vi dico: Se chiederete qualcosa al Padre nel mio nome, egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena» (Gv 16,23-24). «In verità», si dice in ebraico amen, ed è un'affermazione solenne, un giuramento. La Verità (Gesù Cristo) ci promette la gioia ripetendo due volte la parola del giuramento, affinché crediamo senza alcun dubbio a ciò che dice.
«Se chiederete qualcosa al Padre nel mio nome». Fa' attenzione a queste tre parole: Padre, qualcosa, nel mio nome. Non può essere chiamato padre se non colui che ha un figlio, perché padre e figlio sono due nomi correlativi. Quando dice «padre», pensa al «figlio», del quale è padre. Il Padre è Dio, di cui noi siamo i figli e al quale ogni giorno diciamo: «Padre nostro, che sei nei cieli» (Mt 6,9). Anche Isaia dice: «Tu, Signore, sei il nostro Padre, il nostro redentore: da sempre questo è il tuo nome» (Is 63,16).
E Dio stesso ci dice con le parole di Geremia: «Ed ora grida verso di me: Padre mio, sei tu la guida della mia verginità» (Ger 3,4). La verginità dell'anima è la fede, che agisce per mezzo dell'amore (cf. Gal 5,6) e preserva l'anima dalla corruzione: è Dio Padre che, come un condottiero, guida l'anima alla fede. Noi, figli, dobbiamo dunque chiedere al nostro Padre qualcosa. Tutto ciò che esiste è nulla, eccetto amare Dio. Amare Dio è qualcosa; è questo qualcosa che dobbiamo chiedere, e cioè che noi, figli, amiamo il nostro Padre, come il figlio della cicogna ama il padre suo.
Si dice che il nato della cicogna ami così tanto il padre, che, quando invecchia, lo sostenta e lo nutre, e questo fa parte delle sue caratteristiche (del suo istinto). Così in questo mondo che va ormai invecchiando, noi dobbiamo sostentare il nostro Padre nelle sue membra deboli e ammalate, nutrirlo nei poveri e nei bisognosi. Egli ha detto: Ciò che avete fatto ad uno solo di questi miei più piccoli, l'avete fatto a me (cf. Mt 25,40). Se chiederemo l'amore, il Padre stesso che è amore, ci darà ciò che egli è: appunto l'amore.
«Se chiederete qualcosa al Padre nel mio nome». Fa' attenzione a queste tre parole: Padre, qualcosa, nel mio nome. Non può essere chiamato padre se non colui che ha un figlio, perché padre e figlio sono due nomi correlativi. Quando dice «padre», pensa al «figlio», del quale è padre. Il Padre è Dio, di cui noi siamo i figli e al quale ogni giorno diciamo: «Padre nostro, che sei nei cieli» (Mt 6,9). Anche Isaia dice: «Tu, Signore, sei il nostro Padre, il nostro redentore: da sempre questo è il tuo nome» (Is 63,16).
E Dio stesso ci dice con le parole di Geremia: «Ed ora grida verso di me: Padre mio, sei tu la guida della mia verginità» (Ger 3,4). La verginità dell'anima è la fede, che agisce per mezzo dell'amore (cf. Gal 5,6) e preserva l'anima dalla corruzione: è Dio Padre che, come un condottiero, guida l'anima alla fede. Noi, figli, dobbiamo dunque chiedere al nostro Padre qualcosa. Tutto ciò che esiste è nulla, eccetto amare Dio. Amare Dio è qualcosa; è questo qualcosa che dobbiamo chiedere, e cioè che noi, figli, amiamo il nostro Padre, come il figlio della cicogna ama il padre suo.
Si dice che il nato della cicogna ami così tanto il padre, che, quando invecchia, lo sostenta e lo nutre, e questo fa parte delle sue caratteristiche (del suo istinto). Così in questo mondo che va ormai invecchiando, noi dobbiamo sostentare il nostro Padre nelle sue membra deboli e ammalate, nutrirlo nei poveri e nei bisognosi. Egli ha detto: Ciò che avete fatto ad uno solo di questi miei più piccoli, l'avete fatto a me (cf. Mt 25,40). Se chiederemo l'amore, il Padre stesso che è amore, ci darà ciò che egli è: appunto l'amore.
4. Dio stesso dice nell'Esodo: «Ti darò una terra dove scorre latte e miele» (Es 13,5). Fa' attenzione a queste quattro parole: terra, scorre, latte e miele.
La terra, per la sua stabilità, simboleggia l'amore di Dio, che dà all'uomo la sicurezza di essere nella verità. Infatti Salomone dice: «Una generazione passa, una generazione viene: la terra invece resta in eterno» (Eccle 1,4). La generazione, cioè l'amore della carne, passa, e una generazione, cioè l'amore del mondo, viene; la terra invece, cioè l'amore di Dio, resta in eterno, perché, come dice l'Apostolo, «l'amore non avrà mai fine» (1Cor 13,8). Di questa terra è detto: «scorre», a motivo della sua abbondanza. E anche nel salmo leggiamo: «L'esuberanza del fiume rallegra la città di Dio» (Sal 45,5), cioè l'anima, nella quale Dio ha la sua dimora.
Questa terra abbonda di latte e miele. Il latte nutre, il miele addolcisce: così l'amore di Dio nutre l'anima perché cresca di virtù in virtù e addolcisce il tormento di tutte le tribolazioni. «Per chi ama, nulla è difficile» (Cicerone). Quando la dolcezza dell'amore divino viene a mancare, l'amarezza della tribolazione, anche la più piccola, diventa intollerabile. Ma il legno rese dolci le acque di Mara (cf. Es 15,23. 25); la farina del profeta Eliseo rese commestibili le amare colloquintidi (cocomeri selvatici) (cf. 4Re 4,39-41). Così l'amore di Dio cambia in dolcezza ogni amarezza. Dice infatti l'Ecclesiastico: «Il mio Spirito è dolce, e la mia eredità supera in dolcezza il miele e il favo di miele» (Eccli 24,27).
Lo Spirito del Signore è lo spirito di povertà, del quale dice Isaia: «Lo Spirito dei forti è come il turbine che si abbatte sulla parete» (Is 25,4). I forti sono i poveri, che non vacillano né nella prosperità né nelle avversità; il loro spirito (soffio), come il turbine, si abbatte sulla parete delle ricchezze, della quale ancora Isaia dice: «Lo scudo ha messo a nudo la parete» (Is 22,6). Lo scudo è detto in lat. clipeus, in quanto clepit, cioè cela, nasconde, protegge il corpo: simboleggia lo spirito di povertà che nasconde, ripara l'anima dai dardi dei demoni. Questo scudo spoglia la parete delle ricchezze.
L'eredità del Signore fu la passione della croce, che ha lasciato ai suoi figli. Infatti ha detto: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19), cioè in ricordo della mia passione. L'Apostolo, in quanto erede, possedeva questa eredità quando diceva: Porto nel mio corpo le stimmate di Cristo (cf. Gal 6,17). Quindi lo spirito di povertà e l'eredità della passione sono, per il cuore del vero amante di Cristo, più dolci del miele e di un favo di miele.
Giustamente perciò è detto: «Se domanderete qualcosa al Padre nel mio nome». Il nome di Cristo è in ebraico «Messia»; Cristo è termine greco e significa «Unto», cioè consacrato; in greco è chiamato anche Sotèr, cioè Salvatore. Quindi nel nome del Salvatore domandiamo al Padre che, se non per noi, almeno per il Figlio suo, per mezzo del quale ha salvato il genere umano, ci conceda il privilegio del suo amore; preghiamolo con le parole del Profeta: «O Dio, nostro protettore, volgi il tuo sguardo e fissa il volto del tuo Cristo» (Sal 83,10); come dicesse: Se non vuoi guardare a noi per amor nostro, guarda almeno il volto del tuo Cristo, per noi colpito dagli schiaffi, lordato dagli sputi, illividito nella morte. «Guarda al volto del tuo Cristo!».
E quale Padre non guarderebbe al volto del figlio morto? Quindi anche tu, o Padre, guarda a noi, perché il Cristo tuo Figlio è morto per noi, che siamo stati la causa della sua morte. Come egli ci ha comandato, noi ti chiediamo nel suo nome che tu dia a noi te stesso, perché senza di te non c'è esistenza. Dice infatti Agostino: «Signore, se tu vuoi che io mi allontani da te, dammi un altro te stesso: altrimenti io da te non mi allontano».
La terra, per la sua stabilità, simboleggia l'amore di Dio, che dà all'uomo la sicurezza di essere nella verità. Infatti Salomone dice: «Una generazione passa, una generazione viene: la terra invece resta in eterno» (Eccle 1,4). La generazione, cioè l'amore della carne, passa, e una generazione, cioè l'amore del mondo, viene; la terra invece, cioè l'amore di Dio, resta in eterno, perché, come dice l'Apostolo, «l'amore non avrà mai fine» (1Cor 13,8). Di questa terra è detto: «scorre», a motivo della sua abbondanza. E anche nel salmo leggiamo: «L'esuberanza del fiume rallegra la città di Dio» (Sal 45,5), cioè l'anima, nella quale Dio ha la sua dimora.
Questa terra abbonda di latte e miele. Il latte nutre, il miele addolcisce: così l'amore di Dio nutre l'anima perché cresca di virtù in virtù e addolcisce il tormento di tutte le tribolazioni. «Per chi ama, nulla è difficile» (Cicerone). Quando la dolcezza dell'amore divino viene a mancare, l'amarezza della tribolazione, anche la più piccola, diventa intollerabile. Ma il legno rese dolci le acque di Mara (cf. Es 15,23. 25); la farina del profeta Eliseo rese commestibili le amare colloquintidi (cocomeri selvatici) (cf. 4Re 4,39-41). Così l'amore di Dio cambia in dolcezza ogni amarezza. Dice infatti l'Ecclesiastico: «Il mio Spirito è dolce, e la mia eredità supera in dolcezza il miele e il favo di miele» (Eccli 24,27).
Lo Spirito del Signore è lo spirito di povertà, del quale dice Isaia: «Lo Spirito dei forti è come il turbine che si abbatte sulla parete» (Is 25,4). I forti sono i poveri, che non vacillano né nella prosperità né nelle avversità; il loro spirito (soffio), come il turbine, si abbatte sulla parete delle ricchezze, della quale ancora Isaia dice: «Lo scudo ha messo a nudo la parete» (Is 22,6). Lo scudo è detto in lat. clipeus, in quanto clepit, cioè cela, nasconde, protegge il corpo: simboleggia lo spirito di povertà che nasconde, ripara l'anima dai dardi dei demoni. Questo scudo spoglia la parete delle ricchezze.
L'eredità del Signore fu la passione della croce, che ha lasciato ai suoi figli. Infatti ha detto: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19), cioè in ricordo della mia passione. L'Apostolo, in quanto erede, possedeva questa eredità quando diceva: Porto nel mio corpo le stimmate di Cristo (cf. Gal 6,17). Quindi lo spirito di povertà e l'eredità della passione sono, per il cuore del vero amante di Cristo, più dolci del miele e di un favo di miele.
Giustamente perciò è detto: «Se domanderete qualcosa al Padre nel mio nome». Il nome di Cristo è in ebraico «Messia»; Cristo è termine greco e significa «Unto», cioè consacrato; in greco è chiamato anche Sotèr, cioè Salvatore. Quindi nel nome del Salvatore domandiamo al Padre che, se non per noi, almeno per il Figlio suo, per mezzo del quale ha salvato il genere umano, ci conceda il privilegio del suo amore; preghiamolo con le parole del Profeta: «O Dio, nostro protettore, volgi il tuo sguardo e fissa il volto del tuo Cristo» (Sal 83,10); come dicesse: Se non vuoi guardare a noi per amor nostro, guarda almeno il volto del tuo Cristo, per noi colpito dagli schiaffi, lordato dagli sputi, illividito nella morte. «Guarda al volto del tuo Cristo!».
E quale Padre non guarderebbe al volto del figlio morto? Quindi anche tu, o Padre, guarda a noi, perché il Cristo tuo Figlio è morto per noi, che siamo stati la causa della sua morte. Come egli ci ha comandato, noi ti chiediamo nel suo nome che tu dia a noi te stesso, perché senza di te non c'è esistenza. Dice infatti Agostino: «Signore, se tu vuoi che io mi allontani da te, dammi un altro te stesso: altrimenti io da te non mi allontano».
5. Perciò dice giustamente: «In verità, in verità vi dico: Se domanderete qualcosa al Padre nel mio nome, ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome».
Commenta la Glossa: Fiduciosi nella mia presenza, non avete mai chiesto qualcosa, che sia cioè qualcosa, anche paragonato a ciò che è eterno. In questo passo il Signore rimprovera coloro che chiedono cose temporali, che sono un nulla. Di costoro dice Osea: «La vostra misericordia è come nube del mattino, e come la rugiada al mattino svanisce» (Os 6,4). Come dicesse: Quando domandate a Dio misericordia, voi domandate cose temporali che sono come le nubi del mattino, le quali sono soltanto aria ispessita, come vanità ispessita. Così i beni temporali sono come un nulla; ma quel nulla, per sembrare qualcosa, è come avvolto in certe apparenze fantasmagoriche. Le nubi impediscono la vista del sole, e l'abbondanza delle cose temporali toglie la conoscenza di Dio. Giobbe infatti dice: «Il grasso copre la sua faccia» (Gb 15,27), perché la pinguedine della ricchezza acceca gli occhi della mente. Infatti leggiamo nel salmo: «Cadde su di loro il fuoco e non videro più il sole» (Sal 57,9). Il fuoco dell'amore delle cose terrene acceca gli occhi dell'uomo, come una padella bollente acceca gli occhi dell'orso1. Quindi «la vostra misericordia, come nube del mattino e come rugiada che all'alba si dissolve», viene meno quando il sole brucia, proprio quando più sarebbe necessaria; le erbe e i fiori restano esposti all'ardore del sole e così ne sono bruciati. Anche la felicità terrena dà qualche sollievo in questo mondo, ma purtroppo avvia gli uomini agli eterni supplizi.
Leggiamo in Naum: «Ninive, le sue acque sono come una pozzanghera» (Na 2,8). Ninive s'interpreta «splendida», e simboleggia il mondo che si copre di falsa bellezza, come il fango coperto di neve; il suo conforto è paragonato a quello di una pozzanghera che abbonda di acqua d'inverno ma si secca d'estate. Il mondo infatti abbonda ora delle acque della ricchezza ma, quando arriva la vampa della morte, sarà svuotato delle ricchezze e consegnato agli eterni supplizi. Perciò finora non avete chiesto nulla, e se avete chiesto, non l'avete fatto nel mio nome, vale a dire per la salvezza dell'anima vostra.
L'ordine con il quale dobbiamo chiedere e supplicare ce lo indica l'Apostolo, scrivendo a Timoteo: «Ti raccomando dunque che prima di tutto si facciano suppliche, orazioni, domande e ringraziamenti» (1Tm 2,1). La supplica, tra le pratiche spirituali, è una fervorosa e insistente preghiera a Dio: in queste pratiche chi, prima della grazia soccorritrice, mette la sua cultura, non mette altro che dolore. L'orazione invece è il sentimento dell'uomo che si mette in rapporto con Dio, un pio e familiare colloquio, la sosta della mente illuminata per fruirne, per quanto è possibile.
La domanda è la preoccupazione, l'ansia di ottenere alcune cose temporali, necessarie alla vita presente: in questo caso Dio, pur considerando la buona volontà di chi prega, fa tuttavia ciò che egli giudica più utile ed esaudisce volentieri colui che domanda rettamente. Di questa specie di preghiera, la domanda, dice il salmista: «La mia preghiera è volta alle cose che anch'essi amano» (Sal 140,5), cioè gli empi; infatti in generale è di tutti, e soprattutto dei figli di questo secolo, desiderare la tranquillità della pace, la salute del corpo, la clemenza del tempo e le altre cose che riguardano le esigenze e i bisogni di questa vita, nonché i piaceri di chi ne abusa. Chi domanda con coscienza queste cose, non le chieda se non per necessità, e in questo modo sottomette sempre la propria volontà a quella di Dio. In queste domande si deve pregare con devozione e con coscienza: ma non bisogna ostinarsi in quelle richieste, perché solo il Padre che è nei cieli sa che cosa ci è necessario in questa vita, e non noi.
In fine il ringraziamento consiste nel comprendere e nel riconoscere la grazia di Dio e la sua volontà salvifica, nel continuo e instancabile orientamento a Dio, anche se qualche volta l'atto esteriore o l'affetto interiore non ci sono o sono alquanto tiepidi. Dice in proposito l'Apostolo: «C'è in me la volontà, ma non trovo la via per compiere il bene» (Rm 7,18); come dicesse: C'è sempre la volontà, ma talvolta dorme, cioè è inefficace; perché io cerco di compiere l'opera buona, ma non ne trovo il modo. Questa è la carità, che non viene mai meno (cf. 1Cor 13,8); con la carità si realizza «la preghiera senza interruzione», e il rendimento di grazie, di cui dice l'Apostolo: «Pregate senza cessare mai» (1Ts 5,17), «rendendo sempre grazie a Dio» (Ef 5,20).
Ben a ragione quindi dice: «Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, affinché la vostra gioia sia piena».
Commenta la Glossa: Fiduciosi nella mia presenza, non avete mai chiesto qualcosa, che sia cioè qualcosa, anche paragonato a ciò che è eterno. In questo passo il Signore rimprovera coloro che chiedono cose temporali, che sono un nulla. Di costoro dice Osea: «La vostra misericordia è come nube del mattino, e come la rugiada al mattino svanisce» (Os 6,4). Come dicesse: Quando domandate a Dio misericordia, voi domandate cose temporali che sono come le nubi del mattino, le quali sono soltanto aria ispessita, come vanità ispessita. Così i beni temporali sono come un nulla; ma quel nulla, per sembrare qualcosa, è come avvolto in certe apparenze fantasmagoriche. Le nubi impediscono la vista del sole, e l'abbondanza delle cose temporali toglie la conoscenza di Dio. Giobbe infatti dice: «Il grasso copre la sua faccia» (Gb 15,27), perché la pinguedine della ricchezza acceca gli occhi della mente. Infatti leggiamo nel salmo: «Cadde su di loro il fuoco e non videro più il sole» (Sal 57,9). Il fuoco dell'amore delle cose terrene acceca gli occhi dell'uomo, come una padella bollente acceca gli occhi dell'orso1. Quindi «la vostra misericordia, come nube del mattino e come rugiada che all'alba si dissolve», viene meno quando il sole brucia, proprio quando più sarebbe necessaria; le erbe e i fiori restano esposti all'ardore del sole e così ne sono bruciati. Anche la felicità terrena dà qualche sollievo in questo mondo, ma purtroppo avvia gli uomini agli eterni supplizi.
Leggiamo in Naum: «Ninive, le sue acque sono come una pozzanghera» (Na 2,8). Ninive s'interpreta «splendida», e simboleggia il mondo che si copre di falsa bellezza, come il fango coperto di neve; il suo conforto è paragonato a quello di una pozzanghera che abbonda di acqua d'inverno ma si secca d'estate. Il mondo infatti abbonda ora delle acque della ricchezza ma, quando arriva la vampa della morte, sarà svuotato delle ricchezze e consegnato agli eterni supplizi. Perciò finora non avete chiesto nulla, e se avete chiesto, non l'avete fatto nel mio nome, vale a dire per la salvezza dell'anima vostra.
L'ordine con il quale dobbiamo chiedere e supplicare ce lo indica l'Apostolo, scrivendo a Timoteo: «Ti raccomando dunque che prima di tutto si facciano suppliche, orazioni, domande e ringraziamenti» (1Tm 2,1). La supplica, tra le pratiche spirituali, è una fervorosa e insistente preghiera a Dio: in queste pratiche chi, prima della grazia soccorritrice, mette la sua cultura, non mette altro che dolore. L'orazione invece è il sentimento dell'uomo che si mette in rapporto con Dio, un pio e familiare colloquio, la sosta della mente illuminata per fruirne, per quanto è possibile.
La domanda è la preoccupazione, l'ansia di ottenere alcune cose temporali, necessarie alla vita presente: in questo caso Dio, pur considerando la buona volontà di chi prega, fa tuttavia ciò che egli giudica più utile ed esaudisce volentieri colui che domanda rettamente. Di questa specie di preghiera, la domanda, dice il salmista: «La mia preghiera è volta alle cose che anch'essi amano» (Sal 140,5), cioè gli empi; infatti in generale è di tutti, e soprattutto dei figli di questo secolo, desiderare la tranquillità della pace, la salute del corpo, la clemenza del tempo e le altre cose che riguardano le esigenze e i bisogni di questa vita, nonché i piaceri di chi ne abusa. Chi domanda con coscienza queste cose, non le chieda se non per necessità, e in questo modo sottomette sempre la propria volontà a quella di Dio. In queste domande si deve pregare con devozione e con coscienza: ma non bisogna ostinarsi in quelle richieste, perché solo il Padre che è nei cieli sa che cosa ci è necessario in questa vita, e non noi.
In fine il ringraziamento consiste nel comprendere e nel riconoscere la grazia di Dio e la sua volontà salvifica, nel continuo e instancabile orientamento a Dio, anche se qualche volta l'atto esteriore o l'affetto interiore non ci sono o sono alquanto tiepidi. Dice in proposito l'Apostolo: «C'è in me la volontà, ma non trovo la via per compiere il bene» (Rm 7,18); come dicesse: C'è sempre la volontà, ma talvolta dorme, cioè è inefficace; perché io cerco di compiere l'opera buona, ma non ne trovo il modo. Questa è la carità, che non viene mai meno (cf. 1Cor 13,8); con la carità si realizza «la preghiera senza interruzione», e il rendimento di grazie, di cui dice l'Apostolo: «Pregate senza cessare mai» (1Ts 5,17), «rendendo sempre grazie a Dio» (Ef 5,20).
Ben a ragione quindi dice: «Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, affinché la vostra gioia sia piena».
6. Osserva che c'è una gioia vuota, quella dei carnali, e una gioia piena, quella dei santi. Della gioia vuota dei carnali, dice Isaia: «La gioia degli ònagri (asini selvatici) sono i pascoli dei greggi» (Is 32,14). Ci sono due specie di ònagri: la prima ha le corna e si trova in Grecia; di essa dice Giobbe: «Chi ha lasciato libero l'ònagro e chi ha sciolto i suoi legami?» (Gb 39,5); la seconda specie si trova in Spagna, e di questa dice sempre Giobbe: «Il vanaglorioso si innalza nella sua superbia e si crede libero come il puledro dell'ònagro» (Gb 11,12). Parimenti in questo mondo ci sono due specie di ònagri, cioè di superbi. Ci sono appunto alcuni che vanno tronfi delle «corna» della loro dignità; altri che vanno in superbia solo per la vanità della loro mente, e scuotono da sé il giogo dell'obbedienza. Quindi gioia degli ònagri sono i pascoli dei greggi, cioè dei poveri: ma coloro che ingoiano e depredano i beni dei poveri, saranno essi stessi preda del diavolo. Dice infatti Salomone: «La preda di caccia del leone, cioè del diavolo, è l'ònagro nel deserto» (Eccli 13,23); e Isaia: «Guai a te, che depredi! Non sarai forse anche tu depredato?» (Is 33,1).
Della gioia vuota dei carnali dice ancora Salomone: «Fiorirà il mandorlo, s'ingrasserà la locusta, sarà disperso il cappero» (Eccle 12,5). Come il mandorlo fiorisce prima delle altre piante, così l'uomo carnale brama il fiore in questo mondo, ma nell'altro resterà nudo di ogni fiore: del suo fiore caduco s'ingrasserà la locusta, cioè il diavolo; la grassezza del diavolo, se così si può dire, consiste nella gioia sfrenata della gloria temporale; e il cappero della concupiscenza carnale e della gloria mondana sarà disperso. Dice infatti Giacomo: «Il ricco passerà come il fiore d'erba. Si leva il sole con il suo ardore e fa seccare l'erba; il suo fiore cade, la bellezza del suo volto svanisce: il ricco appassirà nelle sue imprese» (Gc 1,10-11). La radice è la concupiscenza della carne; il fiore è il godimento delle cose temporali. Al sopraggiungere del sole, cioè all'arrivo dell'inesorabilità della morte e della severità del giudice, la radice si seccherà, il fiore cadrà, la bellezza del suo volto, cioè l'onore del mondo, gli amici e i vicini svaniranno. Per questo la gioia del mondo è vuota.
Invece della gioia piena e vera della vita eterna, dice sempre Salomone: «Fiorirà il mandorlo, s'ingrasserà la locusta, sarà disperso il cappero». Osserva che la gioia dei santi consiste in tre cose: nella risurrezione del corpo, nella beatitudine dell'anima, nella liberazione dallo stimolo della carne e della tentazione diabolica. Il mandorlo, cioè il corpo, fiorirà di quattro prerogative: la luminosità, l'agilità, la sottigliezza e l'immortalità. E la locusta, cioè l'anima, si sazierà della visione di Dio, della beatitudine degli angeli, della compagnia dei santi. E allora sarà disperso il cappero, cioè lo stimolo della carne, la tentazione del demonio. Scrive infatti l'Apostolo ai Corinzi: «Quando questo corpo mortale sarà rivestito di immortalità, allora si avvererà la parola della Scrittura: La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione? Il pungiglione della morte è il peccato» (1Cor 15,54-56). Allora sarà disperso il cappero perché, come dice il Profeta, gli estranei non passeranno più per Gerusalemme (cf. Gl 3,17), vale a dire i demoni non tenteranno più il giusto, e la mala bestia, cioè la concupiscenza della carne, non passerà più per la sua anima (cf. Is 35,9).
Della gioia vuota dei carnali dice ancora Salomone: «Fiorirà il mandorlo, s'ingrasserà la locusta, sarà disperso il cappero» (Eccle 12,5). Come il mandorlo fiorisce prima delle altre piante, così l'uomo carnale brama il fiore in questo mondo, ma nell'altro resterà nudo di ogni fiore: del suo fiore caduco s'ingrasserà la locusta, cioè il diavolo; la grassezza del diavolo, se così si può dire, consiste nella gioia sfrenata della gloria temporale; e il cappero della concupiscenza carnale e della gloria mondana sarà disperso. Dice infatti Giacomo: «Il ricco passerà come il fiore d'erba. Si leva il sole con il suo ardore e fa seccare l'erba; il suo fiore cade, la bellezza del suo volto svanisce: il ricco appassirà nelle sue imprese» (Gc 1,10-11). La radice è la concupiscenza della carne; il fiore è il godimento delle cose temporali. Al sopraggiungere del sole, cioè all'arrivo dell'inesorabilità della morte e della severità del giudice, la radice si seccherà, il fiore cadrà, la bellezza del suo volto, cioè l'onore del mondo, gli amici e i vicini svaniranno. Per questo la gioia del mondo è vuota.
Invece della gioia piena e vera della vita eterna, dice sempre Salomone: «Fiorirà il mandorlo, s'ingrasserà la locusta, sarà disperso il cappero». Osserva che la gioia dei santi consiste in tre cose: nella risurrezione del corpo, nella beatitudine dell'anima, nella liberazione dallo stimolo della carne e della tentazione diabolica. Il mandorlo, cioè il corpo, fiorirà di quattro prerogative: la luminosità, l'agilità, la sottigliezza e l'immortalità. E la locusta, cioè l'anima, si sazierà della visione di Dio, della beatitudine degli angeli, della compagnia dei santi. E allora sarà disperso il cappero, cioè lo stimolo della carne, la tentazione del demonio. Scrive infatti l'Apostolo ai Corinzi: «Quando questo corpo mortale sarà rivestito di immortalità, allora si avvererà la parola della Scrittura: La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione? Il pungiglione della morte è il peccato» (1Cor 15,54-56). Allora sarà disperso il cappero perché, come dice il Profeta, gli estranei non passeranno più per Gerusalemme (cf. Gl 3,17), vale a dire i demoni non tenteranno più il giusto, e la mala bestia, cioè la concupiscenza della carne, non passerà più per la sua anima (cf. Is 35,9).
7. Con questa duplice gioia, cioè quella vuota e quella piena, concorda la prima parte dell'epistola di oggi: «Siate esecutori della Parola e non solo uditori, ingannando voi stessi. Perché se uno è uditore della parola ma non esecutore, questi è paragonabile a un uomo che esamina il suo volto allo specchio: lo considera e poi se ne va, e subito dimentica come era» (Gc 1,22-24). Esecutori della parola di Dio sono coloro che domandano la gioia piena e la ricevono; solo ascoltatori sono quelli che si sforzano di conseguire la gioia vuota del mondo. A questo proposito dice il salmo: «È tempo di agire, Signore», non solo di ascoltare o di parlare; «hanno violato la tua legge» (Sal 118,126) coloro che ascoltano e non agiscono. E Salomone: «Chi distrugge la siepe», cioè la legge, «lo morderà il serpente» (Eccle 10,8), cioè il diavolo. Viola la legge colui che non vive secondo quanto dice o ascolta; di lui appunto è detto: «Se uno è solo uditore della parola e non esecutore», ecc.
Osserva che lo specchio non è altro che un vetro sottilissimo, nel quale si devono considerare tre caratteristiche: lo scarso valore, la fragilità e la trasparenza. Il vetro è una materia di poco valore, perché è fabbricato con un po' di sabbia, è di sostanza fragile e trasparente nella sua chiarezza; posto contro il sole, risplende come un altro sole. È detto specchio perché riflette lo splendore, oppure perché le donne, guardandolo, ammirano la bellezza (lat. species) del loro volto, o anche perché è trasparente come il vetro. E il vetro è così chiamato perché risplende con chiarezza allo sguardo (lat. vitrum, visum).
Lo specchio, o il vetro, simboleggia la sacra Scrittura, nel cui splendore sta il volto della nostra origine: da dove siamo nati, quali siamo nati, e a che scopo siamo nati. Da dove siamo nati, si riferisce alla meschinità della nostra origine fisica; quali (di che natura) siamo nati, riguarda la fragilità della nostra sostanza; a che scopo siamo nati, si riferisce alla dignità della gloria, nella quale, se saremo stati esecutori della Parola, per la vicinanza con il vero sole, come il sole risplenderemo.
Nello specchio della sacra dottrina si ritrovano queste tre caratteristiche. Sul poco valore della materia, sta scritto nella Genesi: «Sei cenere e in cenere ritornerai» (Gn 3,19). Sulla fragilità della nostra sostanza dice il salmo: «I nostri anni saranno considerati come tela di ragno» (Sal 89,9). Che cosa c'è di più fragile, di più inconsistente della tela di ragno? E che cos'è la vita dell'uomo corruttibile, che si consuma per una piccola lesione e per una anche minima febbriciattola? Della luminosità poi è detto nel vangelo: «I giusti splenderanno come il sole», ecc. (Mt 13,43).
In questo specchio il misero uomo osserva il volto della sua nascita, come sia nato, quanto sia fragile, e che cosa sarà di lui, e da queste considerazioni si sente nascere talvolta la compunzione e la volontà di fare penitenza. Ma siccome è solo uditore della Parola, e non esecutore, è amante della gioia vana e vuota, subito dimentica com'era e come si è veduto. Il piacere della vanità scaccia il pensiero della propria salvezza; al contrario, il pensiero della vera gioia produce nell'anima l'amore alla propria salvezza. «Chiedete, dunque, e otterrete, affinché la vostra gioia sia piena».
Di questa gioia si ricorda la chiesa nell'introito della messa di oggi: Con voce di giubilo date l'annuncio fino agli estremi confini della terra (cf. Is 48,20). O predicatori, date l'annuncio di gioia: «Chiedete, affinché la vostra gioia sia piena», non soltanto ai giusti che sono in seno alla chiesa, ma fatelo risuonare fino agli estremi confini della terra, e anche per coloro che sono fuori dei confini, cioè fuori dei comandamenti di Dio, i quali sono per noi come i confini del vivere, perché tutti sentano la voce dell'esultanza e possano conquistare la gioia piena, che non avrà mai fine.
A questa gioia ci conduca Gesù Cristo. Amen.
Osserva che lo specchio non è altro che un vetro sottilissimo, nel quale si devono considerare tre caratteristiche: lo scarso valore, la fragilità e la trasparenza. Il vetro è una materia di poco valore, perché è fabbricato con un po' di sabbia, è di sostanza fragile e trasparente nella sua chiarezza; posto contro il sole, risplende come un altro sole. È detto specchio perché riflette lo splendore, oppure perché le donne, guardandolo, ammirano la bellezza (lat. species) del loro volto, o anche perché è trasparente come il vetro. E il vetro è così chiamato perché risplende con chiarezza allo sguardo (lat. vitrum, visum).
Lo specchio, o il vetro, simboleggia la sacra Scrittura, nel cui splendore sta il volto della nostra origine: da dove siamo nati, quali siamo nati, e a che scopo siamo nati. Da dove siamo nati, si riferisce alla meschinità della nostra origine fisica; quali (di che natura) siamo nati, riguarda la fragilità della nostra sostanza; a che scopo siamo nati, si riferisce alla dignità della gloria, nella quale, se saremo stati esecutori della Parola, per la vicinanza con il vero sole, come il sole risplenderemo.
Nello specchio della sacra dottrina si ritrovano queste tre caratteristiche. Sul poco valore della materia, sta scritto nella Genesi: «Sei cenere e in cenere ritornerai» (Gn 3,19). Sulla fragilità della nostra sostanza dice il salmo: «I nostri anni saranno considerati come tela di ragno» (Sal 89,9). Che cosa c'è di più fragile, di più inconsistente della tela di ragno? E che cos'è la vita dell'uomo corruttibile, che si consuma per una piccola lesione e per una anche minima febbriciattola? Della luminosità poi è detto nel vangelo: «I giusti splenderanno come il sole», ecc. (Mt 13,43).
In questo specchio il misero uomo osserva il volto della sua nascita, come sia nato, quanto sia fragile, e che cosa sarà di lui, e da queste considerazioni si sente nascere talvolta la compunzione e la volontà di fare penitenza. Ma siccome è solo uditore della Parola, e non esecutore, è amante della gioia vana e vuota, subito dimentica com'era e come si è veduto. Il piacere della vanità scaccia il pensiero della propria salvezza; al contrario, il pensiero della vera gioia produce nell'anima l'amore alla propria salvezza. «Chiedete, dunque, e otterrete, affinché la vostra gioia sia piena».
Di questa gioia si ricorda la chiesa nell'introito della messa di oggi: Con voce di giubilo date l'annuncio fino agli estremi confini della terra (cf. Is 48,20). O predicatori, date l'annuncio di gioia: «Chiedete, affinché la vostra gioia sia piena», non soltanto ai giusti che sono in seno alla chiesa, ma fatelo risuonare fino agli estremi confini della terra, e anche per coloro che sono fuori dei confini, cioè fuori dei comandamenti di Dio, i quali sono per noi come i confini del vivere, perché tutti sentano la voce dell'esultanza e possano conquistare la gioia piena, che non avrà mai fine.
A questa gioia ci conduca Gesù Cristo. Amen.
II. GESÙ CRISTO INTERCEDE PER NOI PRESSO IL PADRE
8. «Io pregherò il Padre per voi: il Padre stesso vi ama, perché voi avete amato me e avete creduto che io sono uscito dal Padre» (Gv 16,26-27). Cristo, sacerdote secondo l'ordine di Melchisedek, mediatore tra Dio e gli uomini, prega per noi il Padre. Leggiamo nel Levitico: «Il sacerdote pregherà per loro, e il Signore sarà loro propizio» (Lv 4,20); e di nuovo: «Il sacerdote pregherà per lui e per il suo peccato, e il peccato gli sarà perdonato» (Lv 4,26). Concordano con questo le parole del libro dei Numeri: «Mosè disse ad Aronne: Prendi il turibolo, accendilo con il fuoco dell'altare, mettici sopra l'incenso e va' subito dal popolo a pregare per loro: perché l'ira del Signore è divampata e il flagello è già incominciato. Aronne eseguì il comando: corse in mezzo alla moltitudine, già colpita dal flagello, offrì gli incensi; e stando tra i morti e i vivi pregò per il popolo, e il flagello cessò» (Nm 16,46-48).
«Disse Mosè ad Aronne», cioè il Padre al Figlio: «Prendi il turibolo» dell'umanità, che fu fabbricato per opera di Bezaleel (cf. Es 31,2), che s'interpreta «divino adombramento»: adombramento dello Spirito Santo nel grembo della Vergine gloriosa, che dallo Spirito Santo fu appunto «adombrata» (cf. Lc 1,35), apportandole così il refrigerio ed estinguendo totalmente in lei il fomite del peccato. «Riempi» con il fuoco della divinità il turibolo dell'umanità, nella quale abitò corporalmente la pienezza della divinità (cf. Col 2,9).
E giustamente dice «dall'altare», perché sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo (cf. Gv 16,28). «E mettivi sopra l'incenso» della tua passione e così, quale mediatore, pregherai per il popolo, che l'incendio del diavolo sta atrocemente devastando. Ed egli, obbediente alla volontà di colui che comandava, preso il turibolo, corse «alla morte, e alla morte di croce» (Fil 2,8). «E stando» sulla croce con le braccia aperte, «tra i morti e i vivi», cioè tra i due ladroni, dei quali uno fu salvato e l'altro dannato - oppure anche tra i morti e i vivi, cioè tra quelli che erano rinchiusi nel carcere dell'inferno e quelli che vivevano nella miseria di questo esilio -, li liberò tutti dall'incendio della persecuzione diabolica offrendo se stesso in sacrificio di soave odore (cf. Ef 5,2).
Ben a ragione quindi dice di se stesso: «Io pregherò il Padre per voi». E Giovanni nella sua lettera canonica scrive: «Abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto: egli è propiziazione», cioè espiazione, «per i nostri peccati» (1Gv 2,1-2). Per questo ogni giorno lo offriamo al Padre nel sacramento dell'altare, perché sempre di nuovo espii per i nostri peccati.
Facciamo infatti come fa la donna che ha un bambino piccolo: quando il marito arrabbiato vuole percuoterla, essa, tenendo il bambino tra le braccia, lo mette davanti all'uomo dicendo: Percuoti questo, colpisci questo! Il bambino, con le lacrime agli occhi, soffre insieme con la madre. Invece il padre, che si sente sconvolgere le viscere per le lacrime del figlio che ama immensamente, a motivo del figlio perdona alla moglie. Così anche noi, a Dio Padre adirato per i nostri peccati, offriamo il figlio suo Gesù Cristo nel sacramento dell'altare come patto della nostra riconciliazione; e Dio Padre, se non per riguardo a noi, almeno per riguardo al suo Figlio diletto, allontani da noi i giusti flagelli che abbiamo meritato e ci perdoni ricordando le sue lacrime, le sue sofferenze e la sua passione.
Il Figlio stesso infatti dice per bocca di Isaia: «Io ho fatto e io reggerò; io porterò e salverò» (Is 46,4). Fa' attenzione ai quattro verbi: Io «ho fatto» l'uomo e io lo «reggerò» sulle mie spalle come una pecora smarrita e stanca; io lo «porterò» come la nutrice porta il bimbo tra le braccia. E che cosa può fare il Padre, se non rispondere: «Io salverò»? Giustamente quindi Cristo dice: «Io pregherò il Padre per voi; il Padre stesso vi ama, perché voi avete amato me e avete creduto che io sono uscito dal Padre». Il Padre e il Figlio sono una cosa sola. Il Figlio stesso lo ha affermato: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30). Chi ama il Padre ama anche il Figlio, e il Padre e il Figlio amano lui. Nel vangelo di Giovanni infatti, il Figlio dice: «Chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui» (Gv 14,21).
«Disse Mosè ad Aronne», cioè il Padre al Figlio: «Prendi il turibolo» dell'umanità, che fu fabbricato per opera di Bezaleel (cf. Es 31,2), che s'interpreta «divino adombramento»: adombramento dello Spirito Santo nel grembo della Vergine gloriosa, che dallo Spirito Santo fu appunto «adombrata» (cf. Lc 1,35), apportandole così il refrigerio ed estinguendo totalmente in lei il fomite del peccato. «Riempi» con il fuoco della divinità il turibolo dell'umanità, nella quale abitò corporalmente la pienezza della divinità (cf. Col 2,9).
E giustamente dice «dall'altare», perché sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo (cf. Gv 16,28). «E mettivi sopra l'incenso» della tua passione e così, quale mediatore, pregherai per il popolo, che l'incendio del diavolo sta atrocemente devastando. Ed egli, obbediente alla volontà di colui che comandava, preso il turibolo, corse «alla morte, e alla morte di croce» (Fil 2,8). «E stando» sulla croce con le braccia aperte, «tra i morti e i vivi», cioè tra i due ladroni, dei quali uno fu salvato e l'altro dannato - oppure anche tra i morti e i vivi, cioè tra quelli che erano rinchiusi nel carcere dell'inferno e quelli che vivevano nella miseria di questo esilio -, li liberò tutti dall'incendio della persecuzione diabolica offrendo se stesso in sacrificio di soave odore (cf. Ef 5,2).
Ben a ragione quindi dice di se stesso: «Io pregherò il Padre per voi». E Giovanni nella sua lettera canonica scrive: «Abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto: egli è propiziazione», cioè espiazione, «per i nostri peccati» (1Gv 2,1-2). Per questo ogni giorno lo offriamo al Padre nel sacramento dell'altare, perché sempre di nuovo espii per i nostri peccati.
Facciamo infatti come fa la donna che ha un bambino piccolo: quando il marito arrabbiato vuole percuoterla, essa, tenendo il bambino tra le braccia, lo mette davanti all'uomo dicendo: Percuoti questo, colpisci questo! Il bambino, con le lacrime agli occhi, soffre insieme con la madre. Invece il padre, che si sente sconvolgere le viscere per le lacrime del figlio che ama immensamente, a motivo del figlio perdona alla moglie. Così anche noi, a Dio Padre adirato per i nostri peccati, offriamo il figlio suo Gesù Cristo nel sacramento dell'altare come patto della nostra riconciliazione; e Dio Padre, se non per riguardo a noi, almeno per riguardo al suo Figlio diletto, allontani da noi i giusti flagelli che abbiamo meritato e ci perdoni ricordando le sue lacrime, le sue sofferenze e la sua passione.
Il Figlio stesso infatti dice per bocca di Isaia: «Io ho fatto e io reggerò; io porterò e salverò» (Is 46,4). Fa' attenzione ai quattro verbi: Io «ho fatto» l'uomo e io lo «reggerò» sulle mie spalle come una pecora smarrita e stanca; io lo «porterò» come la nutrice porta il bimbo tra le braccia. E che cosa può fare il Padre, se non rispondere: «Io salverò»? Giustamente quindi Cristo dice: «Io pregherò il Padre per voi; il Padre stesso vi ama, perché voi avete amato me e avete creduto che io sono uscito dal Padre». Il Padre e il Figlio sono una cosa sola. Il Figlio stesso lo ha affermato: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30). Chi ama il Padre ama anche il Figlio, e il Padre e il Figlio amano lui. Nel vangelo di Giovanni infatti, il Figlio dice: «Chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui» (Gv 14,21).
9. In riferimento a questo amore, concordano anche le parole dell'epistola di oggi: «Chi invece fissa lo sguardo sulla legge della perfetta libertà e le resterà fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi sarà beato nel praticarla» (Gc 1,25). La legge della perfetta libertà è l'amore di Dio, che rende l'uomo perfetto in tutto e libero da ogni schiavitù. Perciò il salmo dice del giusto: «La legge del suo Dio è nel suo cuore» (Sal 36,31). Nel cuore del giusto infatti c'è la legge dell'amore di Dio, e quindi Dio dice: «Figlio, dammi il tuo cuore» (Pro 23,26). Come lo sparviero quando cattura degli uccelli ne cerca prima di tutto il cuore e lo mangia, così Dio nulla ricerca e nulla ama maggiormente nell'uomo come il suo cuore, nel quale c'è la legge dell'amore, e quindi «i suoi passi non vacilleranno» (Sal 36,31).
I passi del giusto sono le sue opere o anche gli affetti della mente, che mai vacilleranno, cioè mai sono colti nel laccio della suggestione diabolica, né scivolano nella piazza della vanità mondana. Del laccio parla Giobbe: «Il suo piede sarà preso al laccio e la sete infierirà contro di lui» (Gb 18,9). Il piede dell'iniquo è preso nel laccio della cattiva suggestione e così infierisce contro di lui la sete della cupidigia.
Dello scivolamento parla Geremia: «I nostri piedi scivolarono nel cammino verso le nostre piazze» (Lam 4,18). Piazza (lat. platea) viene dal greco plàtos, larghezza. I nostri piedi - detti in lat. vestigia, perché per mezzo di essi si invèstiga, cioè si scopre il percorso di chi è passato - stanno ad indicare le opere, in base alle quali uno viene conosciuto. Nella fangosa vastità del piacere mondano scivolano le opere dei peccatori, perché cadono di peccato in peccato e alla fine rovinano nell'inferno. Dice infatti il salmo: «Le loro vie divengano oscure e scivolose, e l'angelo del Signore», cioè l'angelo cattivo (del Signore, perché anche lui è creatura di Dio), «li perseguiti» (Sal 34,6), finché li precipiti nell'abisso dell'inferno. Invece i passi del giusto non vacillano, perché nel suo cuore c'è la legge dell'amore, e chi ad essa è fedele «troverà la felicità nell'osservarla». L'amore di Dio infonde la grazia nella vita presente e la beatitudine della gloria in quella futura.
Ad essa ci conduca colui che è benedetto nei secoli. Amen.
I passi del giusto sono le sue opere o anche gli affetti della mente, che mai vacilleranno, cioè mai sono colti nel laccio della suggestione diabolica, né scivolano nella piazza della vanità mondana. Del laccio parla Giobbe: «Il suo piede sarà preso al laccio e la sete infierirà contro di lui» (Gb 18,9). Il piede dell'iniquo è preso nel laccio della cattiva suggestione e così infierisce contro di lui la sete della cupidigia.
Dello scivolamento parla Geremia: «I nostri piedi scivolarono nel cammino verso le nostre piazze» (Lam 4,18). Piazza (lat. platea) viene dal greco plàtos, larghezza. I nostri piedi - detti in lat. vestigia, perché per mezzo di essi si invèstiga, cioè si scopre il percorso di chi è passato - stanno ad indicare le opere, in base alle quali uno viene conosciuto. Nella fangosa vastità del piacere mondano scivolano le opere dei peccatori, perché cadono di peccato in peccato e alla fine rovinano nell'inferno. Dice infatti il salmo: «Le loro vie divengano oscure e scivolose, e l'angelo del Signore», cioè l'angelo cattivo (del Signore, perché anche lui è creatura di Dio), «li perseguiti» (Sal 34,6), finché li precipiti nell'abisso dell'inferno. Invece i passi del giusto non vacillano, perché nel suo cuore c'è la legge dell'amore, e chi ad essa è fedele «troverà la felicità nell'osservarla». L'amore di Dio infonde la grazia nella vita presente e la beatitudine della gloria in quella futura.
Ad essa ci conduca colui che è benedetto nei secoli. Amen.
III. IL CRISTO CHE TUTTO SA E CONOSCE
10. «Gli dicono i suoi discepoli: Ora conosciamo che sai tutto e non hai bisogno che alcuno ti interroghi. Per questo crediamo che sei uscito da Dio» (Gv 16,29-30). A ragione i discepoli hanno detto: «Ora conosciamo che sai tutto». E su questo abbiamo la testimonianza dell'Apostolo: «La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. E non v'è creatura alcuna che possa nascondersi di fronte a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi» (Eb 4,12-13).
La Parola, cioè il Figlio di Dio, per mezzo della quale abbiamo conosciuto la sua volontà, è viva, cioè conferisce la vita; è efficace, cioè capace di effetto, e può con facilità compiere ciò che vuole. La parola di Dio è efficace, perché il Figlio di Dio «operò tutto ciò che volle» (Sal 113 B,3). Opera ciò che vuole, dove vuole e quando vuole. Dice infatti Giobbe: «Egli comanda al sole, e questo non sorge, e alle stelle pone il suo sigillo. Egli da solo stende i cieli e cammina sulle onde del mare. Crea le costellazioni di Arturo (l'Orsa Maggiore) e di Orione, le Pleiadi e i penetrali dell'Austro. Egli fa cose grandiose e inconcepibili e meraviglie senza numero» (Gb 9,7-10). Colui che fa tali cose, conosce e sa veramente tutto. Il Figlio di Dio può fare veramente tutto: egli è vita e potenza.
«Comanda al sole, e questo non sorge». Nel sole è raffigurata l'illuminazione della grazia, che sorge quando viene infusa nella mente, e non sorge quando non viene concessa. Dice perciò il Signore: «Avrò misericordia di chi vorrò, e sarò clemente verso chi mi piace» (Es 33,19). E ancora: «Io indurirò il cuore del faraone» (Es 4,21). Si dice che il Signore indurisce il cuore quando toglie la sua grazia, oppure non la concede. Dice infatti per bocca di Osea: «Non visiterò le vostre figlie quando si prostituiranno» (Os 4,14). All'anima peccatrice non può accadere nulla di peggio, come quando il Signore abbandona il peccatore alla depravazione del suo cuore e non lo corregge con il flagello del paterno castigo.
«Alle stelle pone il suo sigillo». Il sigillo è un segno che s'imprime su qualche cosa, perché resti nascosta finché il sigillo non verrà rimosso. Le stelle raffigurano i santi, che Cristo mette sotto il sigillo della sua provvidenza, affinché non compaiano in pubblico quando vogliono, ma siano sempre pronti per il tempo stabilito da Dio e quando udranno con l'orecchio del cuore la voce di colui che comanda, escano dal segreto della contemplazione per operare a seconda delle necessità.
«Egli da solo stende i cieli». I cieli raffigurano i predicatori santi, che piovono con le parole, lampeggiano con gli esempi della vita santa, tuonano con le minacce della pena eterna. Questi cieli stende il Signore, perché diffondano la luce e ne ricoprano i peccatori e li inducano a liberarsi dal vischio delle cose temporali.
«E cammina sui flutti del mare». I flutti del mare raffigurano i superbi di questo mondo, sopra i quali il Signore cammina quando nel loro cuore imprime le orme della sua umiltà. Dice infatti nell'Ecclesiastico: «Il giro del cielo da sola ho percorso, sono penetrata nella profondità dell'abisso, ho camminato sui flutti del mare, ho sostato su tutta la terra; su ogni popolo e su ogni gente ho posto il mio dominio, e di tutti i grandi ho soggiogato il cuore con la mia potenza» (Eccli 24,8-11). «Il giro del cielo», cioè il cuore del giusto io circondo, difendo e proteggo; penetrai «nelle profondità dell'abisso», cioè nel cuore dei cattivi, per convertirli alla penitenza; camminai «sui flutti del mare», cioè su coloro che sono oppressi dalle tentazioni; e mi fermai «su tutta la terra»: Dio si ferma sull'umile, su coloro che fanno frutti di opere buone e sono costanti, mentre il diavolo si ferma sulla sabbia; «su ogni popolo e su ogni gente» ho posto il mio dominio: di tutti questi è formata e composta la chiesa.
La Parola, cioè il Figlio di Dio, per mezzo della quale abbiamo conosciuto la sua volontà, è viva, cioè conferisce la vita; è efficace, cioè capace di effetto, e può con facilità compiere ciò che vuole. La parola di Dio è efficace, perché il Figlio di Dio «operò tutto ciò che volle» (Sal 113 B,3). Opera ciò che vuole, dove vuole e quando vuole. Dice infatti Giobbe: «Egli comanda al sole, e questo non sorge, e alle stelle pone il suo sigillo. Egli da solo stende i cieli e cammina sulle onde del mare. Crea le costellazioni di Arturo (l'Orsa Maggiore) e di Orione, le Pleiadi e i penetrali dell'Austro. Egli fa cose grandiose e inconcepibili e meraviglie senza numero» (Gb 9,7-10). Colui che fa tali cose, conosce e sa veramente tutto. Il Figlio di Dio può fare veramente tutto: egli è vita e potenza.
«Comanda al sole, e questo non sorge». Nel sole è raffigurata l'illuminazione della grazia, che sorge quando viene infusa nella mente, e non sorge quando non viene concessa. Dice perciò il Signore: «Avrò misericordia di chi vorrò, e sarò clemente verso chi mi piace» (Es 33,19). E ancora: «Io indurirò il cuore del faraone» (Es 4,21). Si dice che il Signore indurisce il cuore quando toglie la sua grazia, oppure non la concede. Dice infatti per bocca di Osea: «Non visiterò le vostre figlie quando si prostituiranno» (Os 4,14). All'anima peccatrice non può accadere nulla di peggio, come quando il Signore abbandona il peccatore alla depravazione del suo cuore e non lo corregge con il flagello del paterno castigo.
«Alle stelle pone il suo sigillo». Il sigillo è un segno che s'imprime su qualche cosa, perché resti nascosta finché il sigillo non verrà rimosso. Le stelle raffigurano i santi, che Cristo mette sotto il sigillo della sua provvidenza, affinché non compaiano in pubblico quando vogliono, ma siano sempre pronti per il tempo stabilito da Dio e quando udranno con l'orecchio del cuore la voce di colui che comanda, escano dal segreto della contemplazione per operare a seconda delle necessità.
«Egli da solo stende i cieli». I cieli raffigurano i predicatori santi, che piovono con le parole, lampeggiano con gli esempi della vita santa, tuonano con le minacce della pena eterna. Questi cieli stende il Signore, perché diffondano la luce e ne ricoprano i peccatori e li inducano a liberarsi dal vischio delle cose temporali.
«E cammina sui flutti del mare». I flutti del mare raffigurano i superbi di questo mondo, sopra i quali il Signore cammina quando nel loro cuore imprime le orme della sua umiltà. Dice infatti nell'Ecclesiastico: «Il giro del cielo da sola ho percorso, sono penetrata nella profondità dell'abisso, ho camminato sui flutti del mare, ho sostato su tutta la terra; su ogni popolo e su ogni gente ho posto il mio dominio, e di tutti i grandi ho soggiogato il cuore con la mia potenza» (Eccli 24,8-11). «Il giro del cielo», cioè il cuore del giusto io circondo, difendo e proteggo; penetrai «nelle profondità dell'abisso», cioè nel cuore dei cattivi, per convertirli alla penitenza; camminai «sui flutti del mare», cioè su coloro che sono oppressi dalle tentazioni; e mi fermai «su tutta la terra»: Dio si ferma sull'umile, su coloro che fanno frutti di opere buone e sono costanti, mentre il diavolo si ferma sulla sabbia; «su ogni popolo e su ogni gente» ho posto il mio dominio: di tutti questi è formata e composta la chiesa.
11. «Egli fa Arturo e Orione, le Pleiadi e i segreti dell'Austro». Fa' attenzione a queste quattro parole. Arturo (l'Orsa Maggiore) è chiamato dai latini settentrione, perché è composto di sette stelle; è chiamato anche «carro» perché le stelle sono disposte a forma di carro. Infatti cinque formano il carro, e due, che sembrano quasi nello stesso punto, fanno da buoi. Le cinque stelle raffigurano i cinque sensi del corpo; le due stelle, che a guisa di buoi devono tirare, sono la speranza e il timore. E qui hai la concordanza con quanto è scritto nel primo libro dei Re, dove si narra che i filistei presero due mucche, le attaccarono al carro e posero l'arca sopra il carro che era nuovo (cf. 1Re 6,10-11).
Il carro è detto in lat. plaustrum, che suona quasi come pilastro, attorno al quale si gira, ed è figura del nostro corpo che deve rivolgersi alle opere di misericordia; nuovo, per aver riparato ai peccati con la penitenza, perché deve portare l'arca dell'obbedienza. E questo carro devono tirarlo due mucche, cioè la speranza e il timore, fino a Betsames, che s'interpreta «casa del sole», cioè alla dimora della vita eterna, nella quale abita il Sole di giustizia.
«Orione» è chiamata la stella della spada. Per questo i latini la chiamano iugula, cioè spada per scannare: infatti è armata come un gladiatore (gladius, spada) e per la sua luce è la più spettacolare e luminosa delle stelle. Le stelle di Orione compaiono proprio nel rigore del tempo invernale e la loro comparsa porta piogge e tempeste. Le stelle di Orione raffigurano la contrizione del cuore e la confessione della bocca: quando queste compaiono producono la pioggia delle lacrime e le tempeste della disciplina, del digiuno e dell'astinenza.
«Le Pleiadi» sono cinque stelle, disposte come la lettera greca ìpsilon (Y). Le Pleiadi raffigurano quelle cinque parole che Paolo, scrivendo ai Corinzi, voleva dire nella chiesa (cf. 1Cor 14,19), nel senso da lui inteso. Esse sono: orazione, lode, consiglio, esortazione e confessione.
«I penetrali dell'Austro». L'Austro è un vento caldo e simboleggia lo Spirito Santo, del quale la sposa del Cantico dei Cantici dice: «Lèvati, Aquilone, e tu, o Austro, vieni e soffia nel mio giardino, per far stillare i suoi aromi» (Ct 4,16). «L'Aquilone», così chiamato quasi perché «lega le acque» (aquas ligans), è simbolo del diavolo, che con il gelo della malizia fa rapprendere le acque della compunzione nel cuore del peccatore. All'Aquilone è detto «lèvati», cioè allontànati; «e vieni tu, o Austro», cioè Spirito Santo, «e soffia nel mio giardino», cioè nella mia coscienza, «per far stillare i suoi aromi», cioè le lacrime, che al cospetto del Signore sono più olezzanti più di tutti gli aromi. «I penetrali dell'Austro» simboleggiano il segreto della contemplazione, il gaudio della mente, la soavità della dolcezza interiore, che sono come gli intimi segreti dell'Austro, cioè dello Spirito Santo, con i quali esso dimora e dimorando spira con la brezza soave del suo amore.
Il carro è detto in lat. plaustrum, che suona quasi come pilastro, attorno al quale si gira, ed è figura del nostro corpo che deve rivolgersi alle opere di misericordia; nuovo, per aver riparato ai peccati con la penitenza, perché deve portare l'arca dell'obbedienza. E questo carro devono tirarlo due mucche, cioè la speranza e il timore, fino a Betsames, che s'interpreta «casa del sole», cioè alla dimora della vita eterna, nella quale abita il Sole di giustizia.
«Orione» è chiamata la stella della spada. Per questo i latini la chiamano iugula, cioè spada per scannare: infatti è armata come un gladiatore (gladius, spada) e per la sua luce è la più spettacolare e luminosa delle stelle. Le stelle di Orione compaiono proprio nel rigore del tempo invernale e la loro comparsa porta piogge e tempeste. Le stelle di Orione raffigurano la contrizione del cuore e la confessione della bocca: quando queste compaiono producono la pioggia delle lacrime e le tempeste della disciplina, del digiuno e dell'astinenza.
«Le Pleiadi» sono cinque stelle, disposte come la lettera greca ìpsilon (Y). Le Pleiadi raffigurano quelle cinque parole che Paolo, scrivendo ai Corinzi, voleva dire nella chiesa (cf. 1Cor 14,19), nel senso da lui inteso. Esse sono: orazione, lode, consiglio, esortazione e confessione.
«I penetrali dell'Austro». L'Austro è un vento caldo e simboleggia lo Spirito Santo, del quale la sposa del Cantico dei Cantici dice: «Lèvati, Aquilone, e tu, o Austro, vieni e soffia nel mio giardino, per far stillare i suoi aromi» (Ct 4,16). «L'Aquilone», così chiamato quasi perché «lega le acque» (aquas ligans), è simbolo del diavolo, che con il gelo della malizia fa rapprendere le acque della compunzione nel cuore del peccatore. All'Aquilone è detto «lèvati», cioè allontànati; «e vieni tu, o Austro», cioè Spirito Santo, «e soffia nel mio giardino», cioè nella mia coscienza, «per far stillare i suoi aromi», cioè le lacrime, che al cospetto del Signore sono più olezzanti più di tutti gli aromi. «I penetrali dell'Austro» simboleggiano il segreto della contemplazione, il gaudio della mente, la soavità della dolcezza interiore, che sono come gli intimi segreti dell'Austro, cioè dello Spirito Santo, con i quali esso dimora e dimorando spira con la brezza soave del suo amore.
12. «Egli fa cose grandiose e inconcepibili e meraviglie senza numero». Fece cose grandi nella creazione, inconcepibili nella ri-creazione; farà per noi cose meravigliose nell'eterna beatitudine. O anche: «fece cose grandi» nella sua incarnazione, e perciò la beata Vergine Maria dice: «Ha fatto in me grandi cose colui che è potente, e santo è il suo nome» (Lc 1,49); «inconcepibili» nella sua nascita, nella quale la Vergine partorì lo stesso Figlio di Dio; «meravigliose» nell'operare miracoli. Sia benedetto, perché sa e conosce tutto colui che per noi ha operato tali meraviglie. Di lui l'Apostolo dice: «La parola di Dio è viva ed efficace».
«Ed è più penetrante di ogni spada a doppio taglio». Cristo infatti colpisce l'anima con la contrizione, il corpo con la sofferenza, «penetrando fino alla divisione dell'anima», cioè dell'animalità (della natura), «e dello spirito», cioè della ragione. E considera che l'anima è un'entità incorporea, capace di ragione, ordinata a vivificare il corpo. L'anima rende gli uomini «animali» (naturali), che sono i sapienti secondo la carne (cf. Rm 8,5), soggetti ai sensi del corpo. Essa, se incomincia ad essere perfettamente ragionevole, respinge subito da sé le caratteristiche di genere femminile, e diventa «animo» partecipe della ragione, ordinato a governare il corpo. Infatti, fino a che è «anima», presto infiacchisce in ciò che è carnale; invece l'«animo», ossia lo spirito, considera solo ciò che è virile e spirituale: e così avviene la divisione dell'anima e dello spirito.
«Delle giunture e delle midolla». Le giunture sono le articolazioni; il midollo è la sostanza che impregna (riempie) le ossa. Nelle giunture sono simboleggiate le misteriose concatenazioni dei pensieri, nel midollo la compunzione delle lacrime che impregnano le ossa delle virtù. Cristo, in virtù della sua divinità, penetra fino alla divisione delle giunture e delle midolla, perché conosce con esattezza l'inizio, lo svolgimento e la conclusione dei pensieri, a che cosa tendano, in che modo si concatenino uno con l'altro, in quale maniera e per quali processi sorga nel cuore la compunzione.
Dice infatti Salomone: «Come ignori quale sia la via dello spirito e in che modo si formino le ossa nel grembo della donna gravida, così ignori l'opera di Dio, autore di tutte le cose» (Eccle 11,5). Solo Dio sa qual è la via dello spirito, cioè della contrizione, e in che maniera si formino le ossa nel grembo della donna gravida, vale a dire le virtù nella mente del penitente. Aggiunge infatti l'Apostolo: «Egli scruta i pensieri e le intenzioni del cuore; non v'è creatura che possa nascondersi davanti a lui, perché, come dice anche l'Ecclesiastico, gli occhi del Signore sono in ogni luogo (cf. Eccli 23,28); tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi; davanti a lui, come dice Giobbe, è aperto anche l'inferno e non ha copertura l'abisso (cf. Gb 26,6). Quindi proprio con profonda convinzione i discepoli dissero: «Ora conosciamo che tu sai tutto e non c'è bisogno che qualcuno ti interroghi: per questo crediamo che sei uscito da Dio».
Il Figlio è uscito da Dio perché tu uscissi dal mondo; è venuto da te perché tu andassi da lui. Che cosa significa uscire dal mondo e andare a Cristo, se non soggiogare i vizi e legare l'anima a Dio con i legami dell'amore?
«Ed è più penetrante di ogni spada a doppio taglio». Cristo infatti colpisce l'anima con la contrizione, il corpo con la sofferenza, «penetrando fino alla divisione dell'anima», cioè dell'animalità (della natura), «e dello spirito», cioè della ragione. E considera che l'anima è un'entità incorporea, capace di ragione, ordinata a vivificare il corpo. L'anima rende gli uomini «animali» (naturali), che sono i sapienti secondo la carne (cf. Rm 8,5), soggetti ai sensi del corpo. Essa, se incomincia ad essere perfettamente ragionevole, respinge subito da sé le caratteristiche di genere femminile, e diventa «animo» partecipe della ragione, ordinato a governare il corpo. Infatti, fino a che è «anima», presto infiacchisce in ciò che è carnale; invece l'«animo», ossia lo spirito, considera solo ciò che è virile e spirituale: e così avviene la divisione dell'anima e dello spirito.
«Delle giunture e delle midolla». Le giunture sono le articolazioni; il midollo è la sostanza che impregna (riempie) le ossa. Nelle giunture sono simboleggiate le misteriose concatenazioni dei pensieri, nel midollo la compunzione delle lacrime che impregnano le ossa delle virtù. Cristo, in virtù della sua divinità, penetra fino alla divisione delle giunture e delle midolla, perché conosce con esattezza l'inizio, lo svolgimento e la conclusione dei pensieri, a che cosa tendano, in che modo si concatenino uno con l'altro, in quale maniera e per quali processi sorga nel cuore la compunzione.
Dice infatti Salomone: «Come ignori quale sia la via dello spirito e in che modo si formino le ossa nel grembo della donna gravida, così ignori l'opera di Dio, autore di tutte le cose» (Eccle 11,5). Solo Dio sa qual è la via dello spirito, cioè della contrizione, e in che maniera si formino le ossa nel grembo della donna gravida, vale a dire le virtù nella mente del penitente. Aggiunge infatti l'Apostolo: «Egli scruta i pensieri e le intenzioni del cuore; non v'è creatura che possa nascondersi davanti a lui, perché, come dice anche l'Ecclesiastico, gli occhi del Signore sono in ogni luogo (cf. Eccli 23,28); tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi; davanti a lui, come dice Giobbe, è aperto anche l'inferno e non ha copertura l'abisso (cf. Gb 26,6). Quindi proprio con profonda convinzione i discepoli dissero: «Ora conosciamo che tu sai tutto e non c'è bisogno che qualcuno ti interroghi: per questo crediamo che sei uscito da Dio».
Il Figlio è uscito da Dio perché tu uscissi dal mondo; è venuto da te perché tu andassi da lui. Che cosa significa uscire dal mondo e andare a Cristo, se non soggiogare i vizi e legare l'anima a Dio con i legami dell'amore?
13. Da tutto ciò risulta la concordanza con la terza parte dell'epistola che si legge nella messa di oggi: «Se uno crede di essere religioso ma non frena la lingua, ingannando così il suo cuore, la sua religione è vana. Religione pura e senza macchia davanti a Dio, nostro Padre, è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro necessità e conservarsi puri da questo mondo» (Gc 1,26-27). La religione è chiamata così perché per mezzo di essa leghiamo la nostra anima all'unico Dio per tributargli il culto divino. «Religione è quella che presta culto e venerazione di natura superiore, che chiamano divina» (Agostino). Ascolti il religioso, gonfio di presunzione, sfrenato di lingua, bandito dal regno di Dio: «Se uno crede di essere religioso», ecc. La lingua è chiamata così da «legare», e chi non la tiene legata con il silenzio, dà prova di essere senza religione. L'inizio della religione è il tenere a freno la lingua (cf. Gc 1,26).
Dice infatti Salomone: «Chi porrà una guardia alla mia bocca e chi metterà un sigillo sicuro sulle mie labbra, affinché io non cada per loro colpa e la mia lingua non mi porti alla rovina?» (Eccli 22,33), vale a dire: affinché io non dica il bene in modo errato, e sappia quindi sia tacere che parlare al tempo giusto. Di proposito dice «sigillo»: ciò che si mette sotto sigillo, viene rinchiuso perché non sia aperto ai nemici, ma solo agli amici.
Ascoltino i religiosi del nostro tempo, che caricano l'edificio della loro religione con grande varietà di prescrizioni, con svariati elenchi di precetti: essi, come i farisei, si gloriano dell'apparenza di purezza esteriore. Al primo uomo, elevato a sì alto grado di dignità, Dio ha dato un solo e breve comando: «Non mangerai dell'albero della scienza del bene e del male» (Gn 2,17), e l'uomo non osservò neppure quell'unico comando. Invece agli uomini del nostro tempo, ridotti alla miseria di sì grande infelicità e posti ai margini del mondo, anzi, per parlar chiaro, tra i rifiuti del mondo, vengono imposti molti e nuovi comandamenti, vengono fatte lunghe prescrizioni. E tu credi che le osserveranno? Al contrario, in questo modo si creano solo trasgressori.
Ascoltino costoro che cosa dice il Signore nell'Apocalisse: «Non imporrò su di voi altri pesi; ma quello che avete, tenetelo» (Ap 2,24-25), cioè il vangelo. E dice la Glossa: Ascoltino costoro, che cos'è la vera religione: Religione pura e senza macchia davanti a Dio, nostro Padre, è questa: soccorrere gli orfani e le vedove (cf. Gc 1,25), ecc. Osserva che la vera religione consiste in due cose: nella misericordia e nell'innocenza. Infatti, ordinando di soccorrere gli orfani e le vedove, suggerisce tutto ciò che dobbiamo fare per il prossimo; e comandando di preservarci senza macchia in questo mondo, ci mostra tutto ciò in cui noi dobbiamo essere casti (astinenti).
Preghiamo dunque, fratelli carissimi, il nostro Signore Gesù Cristo di infonderci la sua grazia, con la quale possiamo tendere e arrivare alla pienezza della vera gioia; di pregare per noi il Padre affinché ci conceda la vera religione e possiamo così giungere al regno della vita eterna.
Ce lo conceda lui stesso, che è degno di lode, che è principio e fine, che è mirabile e ineffabile nei secoli eterni. E ogni religione pura e senza macchia dica: Amen, alleluia.
Dice infatti Salomone: «Chi porrà una guardia alla mia bocca e chi metterà un sigillo sicuro sulle mie labbra, affinché io non cada per loro colpa e la mia lingua non mi porti alla rovina?» (Eccli 22,33), vale a dire: affinché io non dica il bene in modo errato, e sappia quindi sia tacere che parlare al tempo giusto. Di proposito dice «sigillo»: ciò che si mette sotto sigillo, viene rinchiuso perché non sia aperto ai nemici, ma solo agli amici.
Ascoltino i religiosi del nostro tempo, che caricano l'edificio della loro religione con grande varietà di prescrizioni, con svariati elenchi di precetti: essi, come i farisei, si gloriano dell'apparenza di purezza esteriore. Al primo uomo, elevato a sì alto grado di dignità, Dio ha dato un solo e breve comando: «Non mangerai dell'albero della scienza del bene e del male» (Gn 2,17), e l'uomo non osservò neppure quell'unico comando. Invece agli uomini del nostro tempo, ridotti alla miseria di sì grande infelicità e posti ai margini del mondo, anzi, per parlar chiaro, tra i rifiuti del mondo, vengono imposti molti e nuovi comandamenti, vengono fatte lunghe prescrizioni. E tu credi che le osserveranno? Al contrario, in questo modo si creano solo trasgressori.
Ascoltino costoro che cosa dice il Signore nell'Apocalisse: «Non imporrò su di voi altri pesi; ma quello che avete, tenetelo» (Ap 2,24-25), cioè il vangelo. E dice la Glossa: Ascoltino costoro, che cos'è la vera religione: Religione pura e senza macchia davanti a Dio, nostro Padre, è questa: soccorrere gli orfani e le vedove (cf. Gc 1,25), ecc. Osserva che la vera religione consiste in due cose: nella misericordia e nell'innocenza. Infatti, ordinando di soccorrere gli orfani e le vedove, suggerisce tutto ciò che dobbiamo fare per il prossimo; e comandando di preservarci senza macchia in questo mondo, ci mostra tutto ciò in cui noi dobbiamo essere casti (astinenti).
Preghiamo dunque, fratelli carissimi, il nostro Signore Gesù Cristo di infonderci la sua grazia, con la quale possiamo tendere e arrivare alla pienezza della vera gioia; di pregare per noi il Padre affinché ci conceda la vera religione e possiamo così giungere al regno della vita eterna.
Ce lo conceda lui stesso, che è degno di lode, che è principio e fine, che è mirabile e ineffabile nei secoli eterni. E ogni religione pura e senza macchia dica: Amen, alleluia.