TEMI DEL SERMONE
ESORDIO - SERMONE AL PRELATO, O AL PREDICATORE DELLA CHIESA
1. In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «C'era un uomo ricco che vestiva di porpora e bisso, e banchettava ogni giorno lautamente» (Lc 16,19).
Nel primo libro dei Re si racconta che Davide «prese il suo bastone, che sempre aveva tra le mani, e scelse dal torrente cinque ciottoli levigatissimi, li pose nella sacca da pastore che aveva con sé, prese in mano la fionda e si mosse contro il Filisteo» (1Re 17,40). Fa' attenzione a queste quattro cose: il bastone, i cinque ciottoli, la sacca e la fionda. Nel bastone è raffigurata la croce di Cristo, nei cinque ciottoli la conoscenza del Vecchio Testamento, nella sacca pastorale la grazia del Nuovo Testamento, nella fionda la giusta bilancia del giudizio. Quindi Davide, cioè il predicatore, deve prendere il bastone, cioè la croce di Cristo, per poter sopportare più facilmente, appoggiato ad essa, la fatica del cammino.
Di questo bastone è detto nella Genesi: «Con il mio bastone soltanto ho attraversato questo Giordano, ed ora ritorno con due schiere» (Gn 32,10). Il giusto attraversa l'amore transitorio di questo mondo con il bastone della croce di Cristo e così ritorna alla terra promessa con due squadre, cioè con i frutti della vita attiva e di quella contemplativa. Il predicatore deve avere questo bastone sempre in mano, con le buone opere. Dice infatti Abacuc: «Il suo splendore sarà come la luce, e corni (potenza) usciranno dalle sue mani» (Ab 3,4). Lo splendore della santa vita e della predicazione è luce per il peccatore: «Voi siete la luce del mondo» (Mt 5,14). Nelle mani stesse del predicatore ci devono essere i due bracci della croce affinché, con le mani inchiodate su di essi, non possa mai stenderle a cose illecite.
«Scelse dal torrente cinque ciottoli levigatissimi e li pose nella sacca da pastore che portava con sé». La sacca da pastore è detta in latino pera, nome che può indicare anche il vaso nel quale si mette il latte: ed è figura del Nuovo Testamento nel quale si trova la grazia, che può essere paragonata al latte. Nulla è più gradito (lat. gratius) del latte, poiché la madre lo offre gratuitamente (lat. gratis) al figlio, senza nulla esigere da lui. I cinque ciottoli raffigurano i cinque libri di Mosè (Pentateuco), con i quali intendiamo la conoscenza di tutto il Vecchio Testamento: libri che il predicatore, come sostegno della sua predicazione, deve prendere dal torrente, cioè dall'abbondanza della Sacra Scrittura, e riporre nella sacca del Vangelo. Infatti nel Nuovo Testamento è riposta la comprensione dell'Antico, perché «una ruota è in mezzo ad un'altra ruota» (Ez 1,16).
Oppure, nei cinque ciottoli possiamo veder raffigurati i severi rimproveri con i quali si devono colpire senza pietà coloro che sono schiavi dei sensi del corpo. Infatti i trasgressori del Vecchio Testamento, sepolti sotto i colpi di pietra, erano figura dei peccatori del Nuovo Testamento, che si devono colpire con aspri rimproveri.
«Prese in mano la fionda e si avviò contro il filisteo». Nella fionda, che ha le due funicelle della stessa lunghezza, è raffigurata la coerenza tra la dottrina e la vita. Il predicatore deve avere per mano questa fionda, affinché la mano corrisponda alla bocca, e il suo comportamento corrisponda al suo insegnamento: solo così potrà avviarsi contro il filisteo e ucciderlo. Filisteo s'interpreta «che cade per il troppo bere», e raffigura il ricco di questo mondo coperto di porpora (cf. Lc 16,19), ubriaco per gli eccessi della gola e della lussuria, che dalla grazia cade nella colpa, e dalla colpa rovinerà poi nella geenna: di lui si parla appunto nel vangelo di oggi: «C'era un uomo ricco, vestito di porpora», ecc.
Nel primo libro dei Re si racconta che Davide «prese il suo bastone, che sempre aveva tra le mani, e scelse dal torrente cinque ciottoli levigatissimi, li pose nella sacca da pastore che aveva con sé, prese in mano la fionda e si mosse contro il Filisteo» (1Re 17,40). Fa' attenzione a queste quattro cose: il bastone, i cinque ciottoli, la sacca e la fionda. Nel bastone è raffigurata la croce di Cristo, nei cinque ciottoli la conoscenza del Vecchio Testamento, nella sacca pastorale la grazia del Nuovo Testamento, nella fionda la giusta bilancia del giudizio. Quindi Davide, cioè il predicatore, deve prendere il bastone, cioè la croce di Cristo, per poter sopportare più facilmente, appoggiato ad essa, la fatica del cammino.
Di questo bastone è detto nella Genesi: «Con il mio bastone soltanto ho attraversato questo Giordano, ed ora ritorno con due schiere» (Gn 32,10). Il giusto attraversa l'amore transitorio di questo mondo con il bastone della croce di Cristo e così ritorna alla terra promessa con due squadre, cioè con i frutti della vita attiva e di quella contemplativa. Il predicatore deve avere questo bastone sempre in mano, con le buone opere. Dice infatti Abacuc: «Il suo splendore sarà come la luce, e corni (potenza) usciranno dalle sue mani» (Ab 3,4). Lo splendore della santa vita e della predicazione è luce per il peccatore: «Voi siete la luce del mondo» (Mt 5,14). Nelle mani stesse del predicatore ci devono essere i due bracci della croce affinché, con le mani inchiodate su di essi, non possa mai stenderle a cose illecite.
«Scelse dal torrente cinque ciottoli levigatissimi e li pose nella sacca da pastore che portava con sé». La sacca da pastore è detta in latino pera, nome che può indicare anche il vaso nel quale si mette il latte: ed è figura del Nuovo Testamento nel quale si trova la grazia, che può essere paragonata al latte. Nulla è più gradito (lat. gratius) del latte, poiché la madre lo offre gratuitamente (lat. gratis) al figlio, senza nulla esigere da lui. I cinque ciottoli raffigurano i cinque libri di Mosè (Pentateuco), con i quali intendiamo la conoscenza di tutto il Vecchio Testamento: libri che il predicatore, come sostegno della sua predicazione, deve prendere dal torrente, cioè dall'abbondanza della Sacra Scrittura, e riporre nella sacca del Vangelo. Infatti nel Nuovo Testamento è riposta la comprensione dell'Antico, perché «una ruota è in mezzo ad un'altra ruota» (Ez 1,16).
Oppure, nei cinque ciottoli possiamo veder raffigurati i severi rimproveri con i quali si devono colpire senza pietà coloro che sono schiavi dei sensi del corpo. Infatti i trasgressori del Vecchio Testamento, sepolti sotto i colpi di pietra, erano figura dei peccatori del Nuovo Testamento, che si devono colpire con aspri rimproveri.
«Prese in mano la fionda e si avviò contro il filisteo». Nella fionda, che ha le due funicelle della stessa lunghezza, è raffigurata la coerenza tra la dottrina e la vita. Il predicatore deve avere per mano questa fionda, affinché la mano corrisponda alla bocca, e il suo comportamento corrisponda al suo insegnamento: solo così potrà avviarsi contro il filisteo e ucciderlo. Filisteo s'interpreta «che cade per il troppo bere», e raffigura il ricco di questo mondo coperto di porpora (cf. Lc 16,19), ubriaco per gli eccessi della gola e della lussuria, che dalla grazia cade nella colpa, e dalla colpa rovinerà poi nella geenna: di lui si parla appunto nel vangelo di oggi: «C'era un uomo ricco, vestito di porpora», ecc.
2. In questo vangelo si devono considerare quattro fatti: primo, la diseguale condizione di vita del ricco vestito di porpora e del mendìco Lazzaro: «C'era un uomo ricco»; secondo, la morte di entrambi: «Avvenne poi che morì il mendìco»; terzo, il castigo del ricco e la gloria di Lazzaro: «Alzando i suoi occhi»; quarto, la disperata supplica del ricco in favore dei suoi cinque fratelli: «Ti prego, padre Abramo!... «. Per quanto il Signore ce lo concederà, vedremo di concordare con queste quattro parti del vangelo alcuni racconti del primo libro dei Re.
Osserva ancora che nell'introito di questa domenica si canta: «O Signore, ho sperato nella tua misericordia» (Sal 12,6). Si legge quindi un brano della prima lettera del beato Giovanni: «Dio è amore» (1 Gv 4,8); brano che divideremo in quattro parti, concordandole con le quattro suddette parti del vangelo. Prima parte: «Dio è amore»; seconda: «In questo consiste il perfetto amore»; terza: «Nell'amore non c'è timore»; quarta: «Noi dunque amiamo il Signore».
Osserva ancora che nell'introito di questa domenica si canta: «O Signore, ho sperato nella tua misericordia» (Sal 12,6). Si legge quindi un brano della prima lettera del beato Giovanni: «Dio è amore» (1 Gv 4,8); brano che divideremo in quattro parti, concordandole con le quattro suddette parti del vangelo. Prima parte: «Dio è amore»; seconda: «In questo consiste il perfetto amore»; terza: «Nell'amore non c'è timore»; quarta: «Noi dunque amiamo il Signore».
I. L'INEGUALE CONDIZIONE DEL RICCO, VESTITO DI PORPORA, E DEL MENDICO LAZZARO
3. «C'era un uomo ricco che vestiva di porpora e bisso e tutti i giorni banchettava lautamente» (Lc 16,19). Questo ricco, sconosciuto, in un certo senso, davanti a Dio, non è indicato con il nome. Non fu ritenuto degno di essere scritto in questo santo Vangelo con il suo nome, che mai sarebbe stato scritto nel libro della vita eterna. In segno di riprovazione il racconto incomincia con le parole: Homo quidam, un tale. Anche noi diciamo un tale, di un uomo che disprezziamo o che non conosciamo. Questo tale rappresenta tutti i mondani, carnali e venduti come schiavi del peccato (cf. Rm 7,14); di lui dice il salmo: «Ecco l'uomo che non ha posto in Dio la sua difesa, ma che confidava nella sua grande ricchezza e si credeva forte nella sua vanità» (Sal 51,9). Considera queste tre parole: non ha posto, confidava, si credeva forte. Ad esse corrispondono le tre espressioni del vangelo: «C'era un uomo ricco», e quindi «non ha posto in Dio la sua difesa»; «si vestiva di porpora e bisso», perché «confidava nelle sue grandi ricchezze»; «e tutti i giorni banchettava lautamente», e così «si credeva forte nella sua vanità».
Concorda con tutto questo ciò che leggiamo nel primo libro dei Re: «C'era un uomo nel deserto di Maon che possedeva beni a Carmel; costui era molto ricco. In casa sua teneva un banchetto come un banchetto da re. Il suo cuore era allegro ed egli era ubriaco fradicio. Il nome di quest'uomo era Nabal» (1Re 25,2. 36). Nabal s'interpreta «stolto», Maon «abitazione» e Carmel «molle». Le tre parti di questo passo corrispondono alle tre parti del vangelo. Dice il vangelo: «C'era un uomo ricco», e il primo libro dei Re: «C'era un uomo nel deserto di Maon». Nel vangelo: «Era vestito di porpora e bisso», e il libro dei Re: «Costui era molto ricco». Il vangelo continua: «Tutti i giorni banchettava lautamente», e il libro dei Re: «In casa sua teneva un banchetto, come un banchetto da re».
Concorda con tutto questo ciò che leggiamo nel primo libro dei Re: «C'era un uomo nel deserto di Maon che possedeva beni a Carmel; costui era molto ricco. In casa sua teneva un banchetto come un banchetto da re. Il suo cuore era allegro ed egli era ubriaco fradicio. Il nome di quest'uomo era Nabal» (1Re 25,2. 36). Nabal s'interpreta «stolto», Maon «abitazione» e Carmel «molle». Le tre parti di questo passo corrispondono alle tre parti del vangelo. Dice il vangelo: «C'era un uomo ricco», e il primo libro dei Re: «C'era un uomo nel deserto di Maon». Nel vangelo: «Era vestito di porpora e bisso», e il libro dei Re: «Costui era molto ricco». Il vangelo continua: «Tutti i giorni banchettava lautamente», e il libro dei Re: «In casa sua teneva un banchetto, come un banchetto da re».
4. Il ricco di questo mondo è stolto, perché non ha il gusto delle cose di Dio (cf. Mt 16,23; Mc 8,33); egli è «nel deserto di Maon», cioè in quella dimora della quale è detto: «La loro dimora sarà deserta» (Sal 68,26); «possedeva beni a Carmel», viveva cioè nella mollezza; per questo dice il profeta Amos: «Guai a voi che dormite in letti di avorio e vi rammollite nei vostri divani» (Am 6,4). «E quell'uomo era molto ricco». Dice Davide: «Ho visto l'empio trionfante ergersi come un cedro del Libano» (Sal 36,35). E Giobbe: «Ho visto lo stolto metter salda radice, e subito ho maledetto la sua appariscenza» (Gb 5,3). «In casa sua teneva un banchetto come un banchetto da re». Infatti dice Amos: «Guai a voi ricconi di Sion, che mangiate gli agnelli del gregge e i vitelli scelti da tutto l'armento, bevendo il vino da larghe coppe, cosparsi di raffinati profumi» (Am 6,1. 4. 6). E Isaia: «Guai a voi che vi alzate di buon mattino per ubriacarvi e sbevazzare fino a sera, accesi in volto dal vino. Nei vostri banchetti ci sono la cetra, la lira, il timpano e il flauto, e scorre il vino; ma non badate all'azione del Signore e non vedete l'opera delle sue mani» (Is 5,11-12).
In questi quattro strumenti musicali, e nel vino, è raffigurato il piacere dei cinque sensi. La cetra, sulla quale vengono tese le corde formate con le minugie di un animale morto, raffigura la vista che è come tesa verso le cose che si guardano con bramosia. La lira, così chiamata dalla varietà delle voci, in quanto produce suoni diversi, raffigura l'udito che si delizia appunto della varietà delle voci. Il timpano che, percosso dalle mani, risuona, è figura del tatto. Il flauto raffigura l'olfatto delle narici, attraverso le quali emettiamo il fiato, come avviene appunto attraverso il flauto. Infine il vino si riferisce chiaramente al gusto. Coloro che sono schiavi di questi cinque sensi non rivolgono la loro attenzione all'opera del Signore, a ciò che egli ha operato sulla nostra terra (cf. Sal 73,12), vale a dire alla sua passione e morte; e non vogliono guardare all'opera delle sue mani, cioè ai suoi poveri, che egli stesso ha modellato con le sue mani nella ruota (tornio) della predicazione e ha forgiato nella fornace della povertà, come fa appunto il vasaio con la creta.
In questi quattro strumenti musicali, e nel vino, è raffigurato il piacere dei cinque sensi. La cetra, sulla quale vengono tese le corde formate con le minugie di un animale morto, raffigura la vista che è come tesa verso le cose che si guardano con bramosia. La lira, così chiamata dalla varietà delle voci, in quanto produce suoni diversi, raffigura l'udito che si delizia appunto della varietà delle voci. Il timpano che, percosso dalle mani, risuona, è figura del tatto. Il flauto raffigura l'olfatto delle narici, attraverso le quali emettiamo il fiato, come avviene appunto attraverso il flauto. Infine il vino si riferisce chiaramente al gusto. Coloro che sono schiavi di questi cinque sensi non rivolgono la loro attenzione all'opera del Signore, a ciò che egli ha operato sulla nostra terra (cf. Sal 73,12), vale a dire alla sua passione e morte; e non vogliono guardare all'opera delle sue mani, cioè ai suoi poveri, che egli stesso ha modellato con le sue mani nella ruota (tornio) della predicazione e ha forgiato nella fornace della povertà, come fa appunto il vasaio con la creta.
5. «C'era un uomo ricco che vestiva di porpora e bisso, e ogni giorno banchettava lautamente». Osserva che nella porpora è indicata la dignità mondana, nel bisso la preziosità delle vesti, e nel banchetto i piaceri della gola. La porpora è il colore del manto regale; viene emessa dalle conchiglie marine, incise con il ferro. Le conchiglie, chiamate in lat. conchae perché si incavano, cioè si svuotano quando manca la luna, raffigurano i poveri, i quali quando manca la luna, quando cioè viene meno la prosperità del mondo, si svuotano dei loro beni. Questi poveri, l'uomo ricco, cioè il potere secolare, li incide con il ferro della sua potenza, ne cava il sangue del denaro, e con esso si confeziona la porpora della dignità e del potere. Di costoro Giobbe dice: «Mietono il campo altrui e vendemmiano la vigna di coloro che hanno oppresso con la forza. Lasciano nudi gli uomini, togliendo le vesti a chi nulla ha per ripararsi dal freddo» (Gb 24,6-7). In simile porpora era avvolta anche la meretrice di cui parla l'Apocalisse (cf. Ap 17,4). L'uomo ricco e la meretrice raffigurano la stessa cosa: l'uomo, perché sa di humus, cioè di terra; la meretrice, perché si mette a disposizione del diavolo.
Il bisso è una qualità di lino, candido e morbidissimo: raffigura la ricercatezza nel vestire. E «quelli che indossano morbide vesti stanno nei palazzi dei re» (Mt 11,8), cioè dei demoni. «Non ti vantare delle tue vesti», dice l'Ecclesiastico (Eccli 11,4); e Pietro: «Il vostro ornamento non sia quello esteriore: capelli intrecciati, collane d'oro, sfoggio di vestiti; sia piuttosto quello interiore del vostro cuore, dello spirito incorruttibile, pieno di mitezza e di pace, che è tanto prezioso agli occhi di Dio» (1Pt 3,3-4).
«E ogni giorno banchettava lautamente». Anche con questo concorda ciò che leggiamo nel primo libro dei Re: «Mentre la carne cuoceva, veniva il servo del sacerdote con in mano un forchettone a tre denti, e lo introduceva nella pentola o nella caldaia; e tutto ciò che il forchettone tirava su il sacerdote lo teneva per sé... Veniva poi il servo del sacerdote e diceva a chi offriva il sacrificio: Dammi, per il sacerdote, la carne da cuocere: non prendo da te carne già cotta, ma cruda» (1Re 2,13-14. 15).
Nel sacerdote è raffigurato il ventre, e nel suo servo l'avidità della gola, di cui dice Salomone: «Il giovane lasciato a se stesso disonora sua madre» (Pro 29,15). Se l'avidità della gola non viene frenata, ma è lasciata ai suoi istinti, disonora sua madre, cioè la carne, il corpo, che talvolta, a causa dell'eccesso di cibo, va incontro a malattie e viene come preso al laccio. Questo servo tiene in mano un forchettone a tre denti, nel quale è indicata la triplice «rapina» della gola: infatti, o consuma i beni altrui divorandoli, o distrugge i propri vivendo dissolutamente, oppure non osserva tempi e modi nell'assumere i cibi che sono permessi. Tutto ciò che il forchettone tira su con questi tre denti, il ventre-sacerdote lo rivendica a sé, e pretende che gli venga data non carne cotta ma cruda, come il lupo, per poterla preparare con maggior accuratezza. Giustamente quindi è detto: «Banchettava ogni giorno lautamente».
Il bisso è una qualità di lino, candido e morbidissimo: raffigura la ricercatezza nel vestire. E «quelli che indossano morbide vesti stanno nei palazzi dei re» (Mt 11,8), cioè dei demoni. «Non ti vantare delle tue vesti», dice l'Ecclesiastico (Eccli 11,4); e Pietro: «Il vostro ornamento non sia quello esteriore: capelli intrecciati, collane d'oro, sfoggio di vestiti; sia piuttosto quello interiore del vostro cuore, dello spirito incorruttibile, pieno di mitezza e di pace, che è tanto prezioso agli occhi di Dio» (1Pt 3,3-4).
«E ogni giorno banchettava lautamente». Anche con questo concorda ciò che leggiamo nel primo libro dei Re: «Mentre la carne cuoceva, veniva il servo del sacerdote con in mano un forchettone a tre denti, e lo introduceva nella pentola o nella caldaia; e tutto ciò che il forchettone tirava su il sacerdote lo teneva per sé... Veniva poi il servo del sacerdote e diceva a chi offriva il sacrificio: Dammi, per il sacerdote, la carne da cuocere: non prendo da te carne già cotta, ma cruda» (1Re 2,13-14. 15).
Nel sacerdote è raffigurato il ventre, e nel suo servo l'avidità della gola, di cui dice Salomone: «Il giovane lasciato a se stesso disonora sua madre» (Pro 29,15). Se l'avidità della gola non viene frenata, ma è lasciata ai suoi istinti, disonora sua madre, cioè la carne, il corpo, che talvolta, a causa dell'eccesso di cibo, va incontro a malattie e viene come preso al laccio. Questo servo tiene in mano un forchettone a tre denti, nel quale è indicata la triplice «rapina» della gola: infatti, o consuma i beni altrui divorandoli, o distrugge i propri vivendo dissolutamente, oppure non osserva tempi e modi nell'assumere i cibi che sono permessi. Tutto ciò che il forchettone tira su con questi tre denti, il ventre-sacerdote lo rivendica a sé, e pretende che gli venga data non carne cotta ma cruda, come il lupo, per poterla preparare con maggior accuratezza. Giustamente quindi è detto: «Banchettava ogni giorno lautamente».
6. «E c'era un mendìco di nome Lazzaro... « (Lc 16,20). Metti a confronto tra loro le singole parti: metti a confronto l'oro con il piombo, affinché la meschinità del piombo risulti ancora maggiore di fronte allo splendore dell'oro. Il primo è detto: un tale; il secondo: di nome Lazzaro. Quello ricco, questo mendìco; quello «vestiva di porpora e bisso, questo era coperto di piaghe; quello ogni giorno banchettava lautamente, questo bramava saziarsi delle briciole che cadevano dalla mensa del ricco, ma nessuno gliele dava; perfino i cani venivano a leccargli le piaghe» (Lc 16,20-21). Né Lazzaro era in grado di allontanarli da sé, né c'era qualche passante che lo facesse per lui.
O divina condiscendenza! O beatitudine del mendìco! O miseranda dannazione del ricco! Nulla è più infelice - dice Girolamo - della felicità di chi pecca. E Agostino: Non c'è segno più evidente di dannazione, di quando le cose temporali vanno secondo la nostra volontà. Invece ai santi Dio sottrae le cose temporali, perché non perdano quelle eterne. Dice infatti Gregorio: Togliamo ai bambini il denaro, pur conservando per loro tutta l'eredità.
«C'era un mendìco di nome Lazzaro». Il povero, l'umile è indicato con il suo nome, in segno di stima. Questo Lazzaro, nome che significa «aiutato», rappresenta tutti i poveri di Cristo, poveri ch'egli stesso aiuta e soccorre nelle loro necessità. Perciò queste due parole mendìco e Lazzaro vengono giustamente unite. Si dice «mendìco» per indicare uno che ha meno di quanto gli è necessario per vivere, e può significare anche: «dico con la mano» (lat. manu dico), perché presso gli antichi c'era l'uso di chiudere la bocca ai bisognosi e far loro stendere la mano, proprio per farli parlare solo con la mano. Quel povero fu aiutato dal Signore perché seppe tener chiusa la bocca per non proferire parole d'impazienza e stese invece la mano della sua mente devota.
«Egli giaceva alla porta del ricco». Ecco che l'arca del Signore giace ai piedi di Dagon (cf. 1Re 5,2). Ma attendi un po' e vedrai al contrario il crollo di Dagon e l'esaltazione dell'arca (cf. 1Re 5,35). Il povero non entrò nella porta del ricco, né il ricco gli mandò fuori il soccorso di un pasto. Non si comportò così Giobbe, il quale dice: «Il pellegrino non restò mai fuori e la mia porta fu sempre aperta al viandante» (Gb 31,32). E ancora: «Mai ho rifiutato al povero ciò che domandava, né ho lasciato languire gli occhi della vedova. Mai ho mangiato da solo il mio tozzo di pane, senza che ne mangiasse anche l'orfano» (Gb 31,16-17).
«Era coperto di piaghe». La piaga, in lat. ulcus, ulcera, che si forma sulla cute, si può identificare con la cancrena. Era dunque coperto di piaghe, colui che poco dopo sarebbe stato portato dagli angeli nel seno di Abramo.
«Bramava saziarsi delle briciole che cadevano dalla tavola del ricco, ma nessuno gliele dava». Briciola, in lat. mica, è un piccolissima parte di pane che cade. Il vero povero si accontenta del minimo, desidera il minimo: e questo «minimo», unito con il «grande» di Dio, lo sazia e lo ristora. Invece colui che non volle dare neppure la briciola di pane, non meritò poi di ricevere neppure una goccia di acqua.
«Perfino i cani venivano a leccargli le piaghe». La Glossa commenta: Se vediamo nei poveri qualcosa di ripugnante, non dobbiamo disprezzarli perché, anche se possono avere qualche macchia nei loro costumi, la povertà è la medicina che li purifica. Per un unico fatto vengono emessi da Dio due giudizi, e al ricco che non sente pietà alla vista del povero viene comminato il massimo della pena. Inoltre, il povero alla vista del ricco è ogni giorno tentato e messo alla prova: e questa prova è resa per lui sempre più ardua dalla povertà unita alla malattia, e dalla vista dell'abbondanza del ricco e dalla totale mancanza di ogni conforto e sollievo.
Perciò il povero, privo di ogni umano soccorso, fiducioso solo nella divina misericordia, prega nell'introito della messa di oggi: «Signore, ho confidato nella tua misericordia. Il mio cuore ha esultato nella tua salvezza, canterò al Signore che mi ha beneficato» (Sal 12,6). Nota che ha detto tre cose: Ho confidato, il mio cuore ha esultato, e canterò al Signore. Il vero povero confida nella misericordia di Dio, il suo cuore esulta pur nella miseria del mondo, e così canterà la sua lode al Signore nell'eterna gloria.
O divina condiscendenza! O beatitudine del mendìco! O miseranda dannazione del ricco! Nulla è più infelice - dice Girolamo - della felicità di chi pecca. E Agostino: Non c'è segno più evidente di dannazione, di quando le cose temporali vanno secondo la nostra volontà. Invece ai santi Dio sottrae le cose temporali, perché non perdano quelle eterne. Dice infatti Gregorio: Togliamo ai bambini il denaro, pur conservando per loro tutta l'eredità.
«C'era un mendìco di nome Lazzaro». Il povero, l'umile è indicato con il suo nome, in segno di stima. Questo Lazzaro, nome che significa «aiutato», rappresenta tutti i poveri di Cristo, poveri ch'egli stesso aiuta e soccorre nelle loro necessità. Perciò queste due parole mendìco e Lazzaro vengono giustamente unite. Si dice «mendìco» per indicare uno che ha meno di quanto gli è necessario per vivere, e può significare anche: «dico con la mano» (lat. manu dico), perché presso gli antichi c'era l'uso di chiudere la bocca ai bisognosi e far loro stendere la mano, proprio per farli parlare solo con la mano. Quel povero fu aiutato dal Signore perché seppe tener chiusa la bocca per non proferire parole d'impazienza e stese invece la mano della sua mente devota.
«Egli giaceva alla porta del ricco». Ecco che l'arca del Signore giace ai piedi di Dagon (cf. 1Re 5,2). Ma attendi un po' e vedrai al contrario il crollo di Dagon e l'esaltazione dell'arca (cf. 1Re 5,35). Il povero non entrò nella porta del ricco, né il ricco gli mandò fuori il soccorso di un pasto. Non si comportò così Giobbe, il quale dice: «Il pellegrino non restò mai fuori e la mia porta fu sempre aperta al viandante» (Gb 31,32). E ancora: «Mai ho rifiutato al povero ciò che domandava, né ho lasciato languire gli occhi della vedova. Mai ho mangiato da solo il mio tozzo di pane, senza che ne mangiasse anche l'orfano» (Gb 31,16-17).
«Era coperto di piaghe». La piaga, in lat. ulcus, ulcera, che si forma sulla cute, si può identificare con la cancrena. Era dunque coperto di piaghe, colui che poco dopo sarebbe stato portato dagli angeli nel seno di Abramo.
«Bramava saziarsi delle briciole che cadevano dalla tavola del ricco, ma nessuno gliele dava». Briciola, in lat. mica, è un piccolissima parte di pane che cade. Il vero povero si accontenta del minimo, desidera il minimo: e questo «minimo», unito con il «grande» di Dio, lo sazia e lo ristora. Invece colui che non volle dare neppure la briciola di pane, non meritò poi di ricevere neppure una goccia di acqua.
«Perfino i cani venivano a leccargli le piaghe». La Glossa commenta: Se vediamo nei poveri qualcosa di ripugnante, non dobbiamo disprezzarli perché, anche se possono avere qualche macchia nei loro costumi, la povertà è la medicina che li purifica. Per un unico fatto vengono emessi da Dio due giudizi, e al ricco che non sente pietà alla vista del povero viene comminato il massimo della pena. Inoltre, il povero alla vista del ricco è ogni giorno tentato e messo alla prova: e questa prova è resa per lui sempre più ardua dalla povertà unita alla malattia, e dalla vista dell'abbondanza del ricco e dalla totale mancanza di ogni conforto e sollievo.
Perciò il povero, privo di ogni umano soccorso, fiducioso solo nella divina misericordia, prega nell'introito della messa di oggi: «Signore, ho confidato nella tua misericordia. Il mio cuore ha esultato nella tua salvezza, canterò al Signore che mi ha beneficato» (Sal 12,6). Nota che ha detto tre cose: Ho confidato, il mio cuore ha esultato, e canterò al Signore. Il vero povero confida nella misericordia di Dio, il suo cuore esulta pur nella miseria del mondo, e così canterà la sua lode al Signore nell'eterna gloria.
7. Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell'epistola di oggi: «Dio è amore» (1Gv 4,8). Essendo l'amore (la carità) la principale delle virtù, facciamo su di essa qualche considerazione con un breve sermone particolare.
«L'amore con il quale si ama Dio e si ama il prossimo è proprio lo stesso, e questo amore è lo Spirito Santo, perché Dio è amore» (P. Lombardo). Questa legge dell'amore - come dice Agostino - è istituita da Dio, affinché tu ami Dio per se stesso e con tutto il cuore, e il prossimo come te stesso: ami cioè anche te stesso in ordine al prossimo e per il prossimo. Infatti devi amare te stesso per il bene e in ordine a Dio, e anche il prossimo dev'essere amato per il bene, e non per il male, e in ordine a Dio. Come prossimo poi si deve intendere ogni uomo, perché non c'è nessuno con il quale si possa agire male.
Il modo di praticare questo amore viene indicato quando si dice: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore», cioè con tutta l'intelligenza, «con tutta l'anima», cioè con tutta la volontà, «con tutta la mente», cioè con la memoria, in modo che tu attribuisca tutti i pensieri, tutta la vita e tutta l'intelligenza a colui, dal quale hai tutto ciò che devi attribuirgli. Dicendo questo non lascia libera la minima parte della nostra vita, ma qualunque cosa passi per l'animo venga rapita verso colui al quale corre l'impeto dell'amore (P. Lombardo). Il beato Giovanni nell'epistola di oggi ha esposto molte cose sull'amore di Dio e del prossimo e ad esso ci ha esortati: «In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi vivessimo per lui» (1Gv 4,9).
Quanto grande è stato l'amore di Dio Padre per noi! Egli mandò proprio per noi il suo Figlio unigenito, perché lo amassimo vivendo per lui, senza il quale vivere è morire, perché «chi non ama rimane nella morte» (1Gv 3,14). Se dunque Dio ci ha tanto amati da darci il suo Diletto, per mezzo del quale ha fatto tutte le cose, anche noi dobbiamo amarci a vicenda. «Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate a vicenda» (Gv 13,34). E poiché il ricco, vestito di porpora, non osservò questo comandamento, restò nella morte. Fu infatti sepolto vivo perché non amò la vita, che è amore; peccò perché nell'amore capovolse l'ordine dei valori.
Dice Agostino: «Quattro cose si devono amare: primo, colui che è sopra di noi, cioè Dio; secondo, ciò che siamo noi (noi stessi); terzo, ciò che ci è vicino, cioè il prossimo; quarto, ciò che è sotto di noi, cioè il corpo. Il ricco amò prima di tutto e sopra tutto il suo corpo; di Dio, della sua anima e del prossimo non si curò per nulla, e perciò fu dannato.
Il nostro corpo, dice il beato Bernardo, dobbiamo considerarlo come un ammalato affidato alle nostre cure: ad esso dobbiamo saper negare molte cose inutili che vorrebbe avere, e fargli invece accettare molte cose utili che non vorrebbe. Dobbiamo agire con il corpo come non appartenesse a noi, ma solo a colui dal quale siamo stati comprati a caro prezzo, affinché lo glorifichiamo anche con il nostro corpo (cf. 1Cor 6,20). Facciamo in modo che il Signore non debba rimproverarci con le parole di Ezechiele: «Giacché tu mi hai dimenticato e mi hai posposto al tuo corpo, sconterai la tua disonestà e le tue scelleratezze» (Ez 23,35). Il corpo dunque dobbiamo metterlo al quarto e ultimo posto nel nostro amore: non come dovessimo vivere per esso, ma perché senza di esso vivere non possiamo.
E dalla misera vita del corpo, si degni di condurci a sé colui che è la vita che vive in eterno. Egli è benedetto nei secoli eterni. Amen.
«L'amore con il quale si ama Dio e si ama il prossimo è proprio lo stesso, e questo amore è lo Spirito Santo, perché Dio è amore» (P. Lombardo). Questa legge dell'amore - come dice Agostino - è istituita da Dio, affinché tu ami Dio per se stesso e con tutto il cuore, e il prossimo come te stesso: ami cioè anche te stesso in ordine al prossimo e per il prossimo. Infatti devi amare te stesso per il bene e in ordine a Dio, e anche il prossimo dev'essere amato per il bene, e non per il male, e in ordine a Dio. Come prossimo poi si deve intendere ogni uomo, perché non c'è nessuno con il quale si possa agire male.
Il modo di praticare questo amore viene indicato quando si dice: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore», cioè con tutta l'intelligenza, «con tutta l'anima», cioè con tutta la volontà, «con tutta la mente», cioè con la memoria, in modo che tu attribuisca tutti i pensieri, tutta la vita e tutta l'intelligenza a colui, dal quale hai tutto ciò che devi attribuirgli. Dicendo questo non lascia libera la minima parte della nostra vita, ma qualunque cosa passi per l'animo venga rapita verso colui al quale corre l'impeto dell'amore (P. Lombardo). Il beato Giovanni nell'epistola di oggi ha esposto molte cose sull'amore di Dio e del prossimo e ad esso ci ha esortati: «In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi vivessimo per lui» (1Gv 4,9).
Quanto grande è stato l'amore di Dio Padre per noi! Egli mandò proprio per noi il suo Figlio unigenito, perché lo amassimo vivendo per lui, senza il quale vivere è morire, perché «chi non ama rimane nella morte» (1Gv 3,14). Se dunque Dio ci ha tanto amati da darci il suo Diletto, per mezzo del quale ha fatto tutte le cose, anche noi dobbiamo amarci a vicenda. «Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate a vicenda» (Gv 13,34). E poiché il ricco, vestito di porpora, non osservò questo comandamento, restò nella morte. Fu infatti sepolto vivo perché non amò la vita, che è amore; peccò perché nell'amore capovolse l'ordine dei valori.
Dice Agostino: «Quattro cose si devono amare: primo, colui che è sopra di noi, cioè Dio; secondo, ciò che siamo noi (noi stessi); terzo, ciò che ci è vicino, cioè il prossimo; quarto, ciò che è sotto di noi, cioè il corpo. Il ricco amò prima di tutto e sopra tutto il suo corpo; di Dio, della sua anima e del prossimo non si curò per nulla, e perciò fu dannato.
Il nostro corpo, dice il beato Bernardo, dobbiamo considerarlo come un ammalato affidato alle nostre cure: ad esso dobbiamo saper negare molte cose inutili che vorrebbe avere, e fargli invece accettare molte cose utili che non vorrebbe. Dobbiamo agire con il corpo come non appartenesse a noi, ma solo a colui dal quale siamo stati comprati a caro prezzo, affinché lo glorifichiamo anche con il nostro corpo (cf. 1Cor 6,20). Facciamo in modo che il Signore non debba rimproverarci con le parole di Ezechiele: «Giacché tu mi hai dimenticato e mi hai posposto al tuo corpo, sconterai la tua disonestà e le tue scelleratezze» (Ez 23,35). Il corpo dunque dobbiamo metterlo al quarto e ultimo posto nel nostro amore: non come dovessimo vivere per esso, ma perché senza di esso vivere non possiamo.
E dalla misera vita del corpo, si degni di condurci a sé colui che è la vita che vive in eterno. Egli è benedetto nei secoli eterni. Amen.
8. Senso morale. «C'era un uomo ricco», ecc. Per «uomo» intendiamo il corpo, per «Lazzaro» l'anima. Uomo viene dal lat. humus, umo (terra), ed è il corpo creato dalla terra, del quale dice Geremia: «Maledetto l'uomo che confida nell'uomo» (Ger 17,5). Il nostro corpo è maledetto; infatti dice la Genesi: «Maledetta la terra», cioè il corpo, «per la tua opera» (Gn 3,17), per colpa delle tue opere, vale a dire per il peccato di disobbedienza. E con quale maledizione è stato maledetto? «Ti produrrà triboli e spine» (Gn 3,18). Nelle spine sono indicate la fame, la sete e la condanna alla morte; nei triboli le tentazioni della carne che tormentano l'anima. Ecco quali frutti ci produce la «terra maledetta», cioè il corpo. E di questa maledizione dice Mosè nel Deuteronomio: «Maledetto chiunque pende dal legno» (cf. Dt 21,23; Gal 3,13). Il legno secco raffigura la gloria di questo mondo, dalla quale quest'uomo pende legato con la fune dell'amore terreno, e quindi è maledetto. Giustamente perciò è detto: «C'era un uomo ricco».
Ahimè, di quante ricchezze abbonda quest'uomo e quante ancora ne brama: non gli basta tutto il mondo. Al piccolo corpo di un solo uomo non bastano tante ricchezze e tante proprietà. Questo misero uomo non è uscito dal grembo materno rivestito di porpora e di bisso, ma avvolto dalla placenta viscida e sgradevole; e al termine della sua vita ritornerà alla terra nudo e senza niente. E questa cosa possiamo capirla ancor meglio, considerando la crescita, il momento del massimo sviluppo, quello della stasi, e il declino del corpo stesso.
Considera che nell'uomo, al termine del suo sviluppo (nel grembo materno), la parte superiore del corpo è più piccola della parte inferiore: e per parte superiore intendo ciò che va dalla testa fino agli organi dai quali vengono espulsi gli escrementi; per parte inferiore quella che va da quest'ultimo punto fino all'estremità dei piedi. Quando l'uomo è bambino, la parte superiore del suo corpo è più grande; quando invece invecchia, avverrà il contrario.
E questa è anche la causa del modo diverso con cui l'uomo si muove nel tempo della crescita, in quello stazionario e in quello dell'invecchiamento. Infatti il bambino all'inizio del suo movimento all'esterno [del grembo] cammina sui piedi e sulle mani; poi a poco a poco alza e raddrizza il suo corpo finché giunge alla giovinezza e al massimo vigore dell'età; in seguito, avanzando negli anni, si incurva.
Questo misero corpo, all'inizio della sua vita è piccolissimo; nella vecchiaia è curvo; invece al centro della sua vita, cioè nella giovinezza, si gonfia di ricchezze, si adorna di vesti, si ingrassa di cibi e bevande, come il porco si rimpinza di ghiande.
Giustamente quindi è detto: «C'era un uomo ricco che si vestiva di porpora e bisso e ogni giorno banchettava lautamente».
Ahimè, di quante ricchezze abbonda quest'uomo e quante ancora ne brama: non gli basta tutto il mondo. Al piccolo corpo di un solo uomo non bastano tante ricchezze e tante proprietà. Questo misero uomo non è uscito dal grembo materno rivestito di porpora e di bisso, ma avvolto dalla placenta viscida e sgradevole; e al termine della sua vita ritornerà alla terra nudo e senza niente. E questa cosa possiamo capirla ancor meglio, considerando la crescita, il momento del massimo sviluppo, quello della stasi, e il declino del corpo stesso.
Considera che nell'uomo, al termine del suo sviluppo (nel grembo materno), la parte superiore del corpo è più piccola della parte inferiore: e per parte superiore intendo ciò che va dalla testa fino agli organi dai quali vengono espulsi gli escrementi; per parte inferiore quella che va da quest'ultimo punto fino all'estremità dei piedi. Quando l'uomo è bambino, la parte superiore del suo corpo è più grande; quando invece invecchia, avverrà il contrario.
E questa è anche la causa del modo diverso con cui l'uomo si muove nel tempo della crescita, in quello stazionario e in quello dell'invecchiamento. Infatti il bambino all'inizio del suo movimento all'esterno [del grembo] cammina sui piedi e sulle mani; poi a poco a poco alza e raddrizza il suo corpo finché giunge alla giovinezza e al massimo vigore dell'età; in seguito, avanzando negli anni, si incurva.
Questo misero corpo, all'inizio della sua vita è piccolissimo; nella vecchiaia è curvo; invece al centro della sua vita, cioè nella giovinezza, si gonfia di ricchezze, si adorna di vesti, si ingrassa di cibi e bevande, come il porco si rimpinza di ghiande.
Giustamente quindi è detto: «C'era un uomo ricco che si vestiva di porpora e bisso e ogni giorno banchettava lautamente».
9. «C'era anche un mendìco di nome Lazzaro». Il mendìco Lazzaro raffigura la misera anima, povera e mendìca, che giace alla porta del ricco, coperta di piaghe. La porta del ricco raffigura i cinque sensi del corpo, tra i quali giace l'anima mendìca, coperta delle piaghe dei peccati. Dice infatti Giovanni: «C'era a Gerusalemme la piscina Probatica, che aveva cinque portici. Sotto questi portici giaceva una moltitudine di malati, di ciechi, di zoppi e di paralitici, che aspettavano il movimento dell'acqua» (Gv 5, 2-3).
La piscina, così chiamata perché è piena di pesci, raffigura il corpo, che è pieno di pesci, cioè di pensieri oziosi e indiscreti. Questa piscina ha cinque portici, cioè i cinque sensi. Il portico (da porta) si chiama così perché è aperto: infatti i cinque sensi del corpo sono aperti ai vizi. Dice Geremia: «La morte è entrata per le nostre finestre» (Ger 9,21). E Naum: «Le porte della tua terra saranno aperte ai tuoi nemici e il fuoco divorerà le tue sbarre» (Na 3,13). Quando il fuoco della concupiscenza carnale brucia le sbarre, cioè i doni della grazia e della natura, dai quali l'anima è custodita quando ne è dotata, allora le porte della nostra terra, cioè i cinque sensi del nostro corpo, vengono aperti ai nostri nemici, vale a dire ai vizi e ai demoni.
In questi cinque portici l'anima giace sfinita, cieca, zoppa, paralitica (arida). Sfinita perché priva della forza delle virtù; cieca perché priva della luce della ragione; zoppa di entrambi i piedi, vale a dire priva dello stimolo della buona volontà e del compimento delle buone opere; paralitica (arida), cioè senza la linfa della compunzione. Queste sono le piaghe di cui è coperta mentre giace alla porta del ricco, «bramando di saziarsi delle briciole, che cadono dalla mensa del ricco».
La mensa simboleggia la prosperità di questo mondo ed ha quattro «piedi» (gambe): le ricchezze, gli onori, i piaceri e la salute del corpo. L'Apostolo ne parla ai Corinzi: «Non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni» (1Cor 10,21). La mensa del Signore fu la povertà, alla quale egli partecipò insieme con i suoi apostoli; la mensa dei demoni è la prosperità dei secolari, della quale il profeta dice: «La loro mensa sia per loro un laccio, una ricompensa e uno scandalo» (Sal 68,23). La prosperità diventa per i carnali «laccio di peccato», «la ricompensa» di Dio, che darà loro i mali dell'inferno in cambio dei beni che hanno avuto nel secolo, e uno «scandalo» per il prossimo.
Le briciole che cadono da questa mensa sono i pensieri immondi, le varie preoccupazioni, le diverse occupazioni, che come vermi pullulano dalle piaghe dell'anima. Di essi l'anima sventurata brama saziarsi, ma non può. Dice infatti Geremia: «Hanno dato le cose più preziose in cambio di cibo, per rifocillare l'anima» (Lam 1,11). Le cose più preziose sono le virtù, che i carnali vendono in cambio di cibo, cioè dei piaceri della carne che non saziano, ma che talvolta danno la sensazione di ristorare l'anima.
La piscina, così chiamata perché è piena di pesci, raffigura il corpo, che è pieno di pesci, cioè di pensieri oziosi e indiscreti. Questa piscina ha cinque portici, cioè i cinque sensi. Il portico (da porta) si chiama così perché è aperto: infatti i cinque sensi del corpo sono aperti ai vizi. Dice Geremia: «La morte è entrata per le nostre finestre» (Ger 9,21). E Naum: «Le porte della tua terra saranno aperte ai tuoi nemici e il fuoco divorerà le tue sbarre» (Na 3,13). Quando il fuoco della concupiscenza carnale brucia le sbarre, cioè i doni della grazia e della natura, dai quali l'anima è custodita quando ne è dotata, allora le porte della nostra terra, cioè i cinque sensi del nostro corpo, vengono aperti ai nostri nemici, vale a dire ai vizi e ai demoni.
In questi cinque portici l'anima giace sfinita, cieca, zoppa, paralitica (arida). Sfinita perché priva della forza delle virtù; cieca perché priva della luce della ragione; zoppa di entrambi i piedi, vale a dire priva dello stimolo della buona volontà e del compimento delle buone opere; paralitica (arida), cioè senza la linfa della compunzione. Queste sono le piaghe di cui è coperta mentre giace alla porta del ricco, «bramando di saziarsi delle briciole, che cadono dalla mensa del ricco».
La mensa simboleggia la prosperità di questo mondo ed ha quattro «piedi» (gambe): le ricchezze, gli onori, i piaceri e la salute del corpo. L'Apostolo ne parla ai Corinzi: «Non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni» (1Cor 10,21). La mensa del Signore fu la povertà, alla quale egli partecipò insieme con i suoi apostoli; la mensa dei demoni è la prosperità dei secolari, della quale il profeta dice: «La loro mensa sia per loro un laccio, una ricompensa e uno scandalo» (Sal 68,23). La prosperità diventa per i carnali «laccio di peccato», «la ricompensa» di Dio, che darà loro i mali dell'inferno in cambio dei beni che hanno avuto nel secolo, e uno «scandalo» per il prossimo.
Le briciole che cadono da questa mensa sono i pensieri immondi, le varie preoccupazioni, le diverse occupazioni, che come vermi pullulano dalle piaghe dell'anima. Di essi l'anima sventurata brama saziarsi, ma non può. Dice infatti Geremia: «Hanno dato le cose più preziose in cambio di cibo, per rifocillare l'anima» (Lam 1,11). Le cose più preziose sono le virtù, che i carnali vendono in cambio di cibo, cioè dei piaceri della carne che non saziano, ma che talvolta danno la sensazione di ristorare l'anima.
10. A questo mendìco Lazzaro, coperto di piaghe, resta un solo sollievo: la lingua dei cani. Infatti il vangelo aggiunge: «Perfino i cani andavano a leccargli le piaghe». I cani, così chiamati dal «canto» del latrato, sono figura dei predicatori, dei quali dice il Salmo: «La lingua dei tuoi cani abbia da lui», cioè dal Signore, «la sua parte tra i tuoi nemici» (Sal 67,24): quelli che erano stati tuoi nemici, diventeranno tuoi amici, come avvenne quando Saulo diventò Paolo.
E considera che come la lingua del cane è «medicamentosa» (curativa), così è anche la lingua del predicatore, che è il medico delle anime. Dice infatti Geremia: «Forse che a Galaad non c'è resina? O non hai alcun medico? Perché dunque non si è cicatrizzata la ferita della figlia del mio popolo?» (Ger 8,22).
Galaad, che s'interpreta «cumulo di testimonianze», è la santa chiesa, nella quale si sono accumulate le testimonianze delle Scritture: in essa c'è la resina della penitenza e il medico, cioè il predicatore, che la confeziona. Perché dunque la piaga dell'anima peccatrice non è guarita, e non si è ancora cicatrizzata? «Andavano, dunque, i cani e gli leccavano le piaghe». Fa' attenzione che in questa parola «leccavano» sono indicate due cose: l'avidità e la delicatezza; infatti leccare o lambire si dice in lat. lingo, cioè leniter ago, tratto delicatamente. Il predicatore infatti, con la lingua della predicazione, deve curare con avidità le piaghe dei peccatori, ma deve anche lambirle con delicatezza, affinché sotto la sua lingua ci siano miele e latte (cf. Ct 4,11), cioè una dottrina, un insegnamento dolce e delicato. Dice l'Apostolo: «Se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi, che siete spirituali, istruitelo in spirito di delicatezza» (Gal 6,1).
Preghiamo dunque il Signore Gesù Cristo che di questo uomo ricco, cioè del nostro misero corpo, faccia un povero volontario, lo rivesta di cenere e di cilicio, gli dia pane raffermo e poca acqua (cf. Is 30,20), guarisca le piaghe dell'anima con la lingua della sua dottrina e lo collochi nel seno di Abramo.
Ce lo conceda lui stesso che è benedetto nei secoli. Amen.
E considera che come la lingua del cane è «medicamentosa» (curativa), così è anche la lingua del predicatore, che è il medico delle anime. Dice infatti Geremia: «Forse che a Galaad non c'è resina? O non hai alcun medico? Perché dunque non si è cicatrizzata la ferita della figlia del mio popolo?» (Ger 8,22).
Galaad, che s'interpreta «cumulo di testimonianze», è la santa chiesa, nella quale si sono accumulate le testimonianze delle Scritture: in essa c'è la resina della penitenza e il medico, cioè il predicatore, che la confeziona. Perché dunque la piaga dell'anima peccatrice non è guarita, e non si è ancora cicatrizzata? «Andavano, dunque, i cani e gli leccavano le piaghe». Fa' attenzione che in questa parola «leccavano» sono indicate due cose: l'avidità e la delicatezza; infatti leccare o lambire si dice in lat. lingo, cioè leniter ago, tratto delicatamente. Il predicatore infatti, con la lingua della predicazione, deve curare con avidità le piaghe dei peccatori, ma deve anche lambirle con delicatezza, affinché sotto la sua lingua ci siano miele e latte (cf. Ct 4,11), cioè una dottrina, un insegnamento dolce e delicato. Dice l'Apostolo: «Se uno viene sorpreso in qualche colpa, voi, che siete spirituali, istruitelo in spirito di delicatezza» (Gal 6,1).
Preghiamo dunque il Signore Gesù Cristo che di questo uomo ricco, cioè del nostro misero corpo, faccia un povero volontario, lo rivesta di cenere e di cilicio, gli dia pane raffermo e poca acqua (cf. Is 30,20), guarisca le piaghe dell'anima con la lingua della sua dottrina e lo collochi nel seno di Abramo.
Ce lo conceda lui stesso che è benedetto nei secoli. Amen.
II. MORTE DELL'EPULONE E DI LAZZARO
11. «Avvenne poi che il mendìco morì, e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto nell'inferno» (Lc 16,22). Si avverò quello che aveva detto Anna nel primo libro dei Re: «L'arco dei forti si è spezzato, invece i deboli sono rivestiti di vigore», ecc. , fino alla conclusione del canto: «Dalla polvere solleva il mendìco e dal letamaio innalza il povero... perché egli occupi un trono di gloria» (1Re 2,4-8).
Con questo racconto del vangelo concorda ciò che è narrato all'inizio del primo libro dei Re. C'erano cioè due donne, Fenenna e Anna. «Fenenna aveva dei figli, mentre Anna non ne aveva alcuno. La sua rivale, cioè Fenenna, la affliggeva e la rimproverava aspramente, fino a disprezzarla, perché il Signore aveva chiuso il suo grembo, e così la provocava. Anna perciò piangeva e non voleva prendere cibo» (1Re 1,2. 6. 7).
Fenenna, che s'interpreta «conversione», è figura del ricco vestito di porpora, che si convertì non a Dio ma al mondo, non al cielo ma all'inferno. Anna, che s'interpreta «grazia», è figura del mendìco Lazzaro il quale, sostenuto dalla grazia di Dio, meritò di salire alla gloria: il Signore stesso gli concesse la grazia e la gloria.
Fenenna ebbe vari figli. Figlio viene dal greco philos, che significa «amato, amore». Il ricco ebbe tanti figli, quante furono le opere che produsse per amore della carne e per la vanità del mondo. Si legge infatti nel libro dei Giudici che Ierub-Baal (Gedeone), figlio di Ioas, ebbe settanta figli, usciti dal suo fianco, avendo avuto molte mogli (cf. Gdc 8,29-30).
Osserva dunque che Fenenna, come riportano le «Storie», ebbe sette figli, e Ierub-Baal settanta, numero che ha lo stesso significato del sette, in quanto sta ad indicare la totalità dei vizi. Ierub-Baal s'interpreta «superiore», Ioas «temporale». Il ricco fu, in questo mondo, superiore al mendìco Lazzaro. Il figlio è figura del successo temporale, che dalla superbia, dalla gola, dall'avarizia e dalla vanagloria generò, quasi da tante mogli, la totalità dei vizi.
Anna invece non aveva figli, perché era sterile; il mendìco Lazzaro, uomo giusto, non ha figli di opere cattive, ed è sterile, cioè senza quel frutto del quale è detto: «Dal frutto del frumento, del vino e dell'olio furono moltiplicati» (Sal 4,8). Nel frumento è indicata l'abbondanza delle ricchezze, nel vino il piacere della carne, nell'olio gli eccessi della gola. Con queste tre cose si moltiplicò quel ricco, del quale è detto: «C'era un uomo ricco»: ecco il frumento; «vestito di porpora e bisso»: ecco il vino; «e ogni giorno banchettava lautamente»: ecco l'olio. Egli, così moltiplicato, fu sepolto nell'inferno. «Io invece - dice il povero - in pace e in lui dormirò e mi riposerò» (Sal 4,9), nel seno di Abramo.
Considera ancora che Fenenna maltrattava Anna in quattro maniere: la affliggeva, la arguiva, la disprezzava e la provocava. Altrettanto faceva il ricco al mendìco Lazzaro.
Lo affliggeva perché gli negava quell'aiuto che avrebbe dovuto dargli. Infatti Isaia, a coloro che non danno ai poveri le loro cose, dice: «Nella vostra casa c'è quello che avete rapito ai poveri. Perché opprimete il mio popolo e pestate la faccia dei poveri?, dice il Signore» (Is 3,14-15).
Lo arguiva. Arguire vuol dire convincere e dimostrare. Il modo più efficace per dimostrare che il piombo è un metallo di poco valore, è metterlo a confronto con l'oro. Lo stesso avviene della povertà, posta a confronto con la ricchezza. Perciò l'ostentata abbondanza del ricco metteva in evidenza la miseria del mendìco.
Lo disprezzava quando, avvolto nella porpora, incedeva davanti a Lazzaro che, coperto di piaghe, giaceva alla sua porta.
E in questo modo lo provocava, lo stimolava cioè ad un più grande amore verso Dio.
«Di conseguenza Anna piangeva e non voleva prendere cibo». Lazzaro piangeva a motivo della miseria di questo esilio terreno e per il ritardo della gloria (del paradiso); e non prendeva cibo perché bramava saziarsi delle briciole che cadevano dalla mensa del ricco, e nessuno gliele dava.
Ma fino a quando, Signore Dio, il ricco continuerà a prosperare e il povero a soffrire? «Perché - dice Geremia - le cose degli empi prosperano? Perché ai traditori e a quelli che compiono il male tutto va bene?» (Ger 12,1). E Abacuc: «Perché non guardi a quelli che compiono il male, e taci mentre l'empio divora chi è più giusto di lui?» (Ab 1,13). Di', o Signore, fino a quando durerà tutto questo?
Con questo racconto del vangelo concorda ciò che è narrato all'inizio del primo libro dei Re. C'erano cioè due donne, Fenenna e Anna. «Fenenna aveva dei figli, mentre Anna non ne aveva alcuno. La sua rivale, cioè Fenenna, la affliggeva e la rimproverava aspramente, fino a disprezzarla, perché il Signore aveva chiuso il suo grembo, e così la provocava. Anna perciò piangeva e non voleva prendere cibo» (1Re 1,2. 6. 7).
Fenenna, che s'interpreta «conversione», è figura del ricco vestito di porpora, che si convertì non a Dio ma al mondo, non al cielo ma all'inferno. Anna, che s'interpreta «grazia», è figura del mendìco Lazzaro il quale, sostenuto dalla grazia di Dio, meritò di salire alla gloria: il Signore stesso gli concesse la grazia e la gloria.
Fenenna ebbe vari figli. Figlio viene dal greco philos, che significa «amato, amore». Il ricco ebbe tanti figli, quante furono le opere che produsse per amore della carne e per la vanità del mondo. Si legge infatti nel libro dei Giudici che Ierub-Baal (Gedeone), figlio di Ioas, ebbe settanta figli, usciti dal suo fianco, avendo avuto molte mogli (cf. Gdc 8,29-30).
Osserva dunque che Fenenna, come riportano le «Storie», ebbe sette figli, e Ierub-Baal settanta, numero che ha lo stesso significato del sette, in quanto sta ad indicare la totalità dei vizi. Ierub-Baal s'interpreta «superiore», Ioas «temporale». Il ricco fu, in questo mondo, superiore al mendìco Lazzaro. Il figlio è figura del successo temporale, che dalla superbia, dalla gola, dall'avarizia e dalla vanagloria generò, quasi da tante mogli, la totalità dei vizi.
Anna invece non aveva figli, perché era sterile; il mendìco Lazzaro, uomo giusto, non ha figli di opere cattive, ed è sterile, cioè senza quel frutto del quale è detto: «Dal frutto del frumento, del vino e dell'olio furono moltiplicati» (Sal 4,8). Nel frumento è indicata l'abbondanza delle ricchezze, nel vino il piacere della carne, nell'olio gli eccessi della gola. Con queste tre cose si moltiplicò quel ricco, del quale è detto: «C'era un uomo ricco»: ecco il frumento; «vestito di porpora e bisso»: ecco il vino; «e ogni giorno banchettava lautamente»: ecco l'olio. Egli, così moltiplicato, fu sepolto nell'inferno. «Io invece - dice il povero - in pace e in lui dormirò e mi riposerò» (Sal 4,9), nel seno di Abramo.
Considera ancora che Fenenna maltrattava Anna in quattro maniere: la affliggeva, la arguiva, la disprezzava e la provocava. Altrettanto faceva il ricco al mendìco Lazzaro.
Lo affliggeva perché gli negava quell'aiuto che avrebbe dovuto dargli. Infatti Isaia, a coloro che non danno ai poveri le loro cose, dice: «Nella vostra casa c'è quello che avete rapito ai poveri. Perché opprimete il mio popolo e pestate la faccia dei poveri?, dice il Signore» (Is 3,14-15).
Lo arguiva. Arguire vuol dire convincere e dimostrare. Il modo più efficace per dimostrare che il piombo è un metallo di poco valore, è metterlo a confronto con l'oro. Lo stesso avviene della povertà, posta a confronto con la ricchezza. Perciò l'ostentata abbondanza del ricco metteva in evidenza la miseria del mendìco.
Lo disprezzava quando, avvolto nella porpora, incedeva davanti a Lazzaro che, coperto di piaghe, giaceva alla sua porta.
E in questo modo lo provocava, lo stimolava cioè ad un più grande amore verso Dio.
«Di conseguenza Anna piangeva e non voleva prendere cibo». Lazzaro piangeva a motivo della miseria di questo esilio terreno e per il ritardo della gloria (del paradiso); e non prendeva cibo perché bramava saziarsi delle briciole che cadevano dalla mensa del ricco, e nessuno gliele dava.
Ma fino a quando, Signore Dio, il ricco continuerà a prosperare e il povero a soffrire? «Perché - dice Geremia - le cose degli empi prosperano? Perché ai traditori e a quelli che compiono il male tutto va bene?» (Ger 12,1). E Abacuc: «Perché non guardi a quelli che compiono il male, e taci mentre l'empio divora chi è più giusto di lui?» (Ab 1,13). Di', o Signore, fino a quando durerà tutto questo?
12. «Avvenne poi che il mendìco morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì poi anche il ricco e fu sepolto nell'inferno». Ecco dunque che «l'arco dei forti è stato spezzato, e il misero occuperà un soglio di gloria».
E anche su questo abbiamo una concordanza nel primo libro dei Re, dove si racconta che Dagon [un idolo] «giaceva per terra davanti all'arca del Signore: la testa dell'idolo e le sue mani giacevano staccate sulla soglia; solo il tronco di Dagon era rimasto al suo posto» (1Re 5,4-5).
L'arca del Signore raffigura il mendìco Lazzaro nel quale, come nell'Arca del Signore, ci furono tre cose: la manna, le tavole della legge e il bastone di Aronne. In Lazzaro c'era la manna della pazienza, le tavole del duplice comandamento della carità, e il bastone della disciplina. Quest'arca riposò nel seno di Abramo: davanti ad essa Dagon, l'idolo, crollò in pezzi. Dagon s'interpreta «pesce della tristezza». E raffigura il ricco vestito di porpora, che fu un pesce che percorreva le vie del mare, in questo mondo di tristezza e nell'inferno. «La sua testa e le sue mani giacevano staccate sulla soglia».
Nella testa è indicata la grandezza temporale, nelle mani la potenza e l'abbondanza, nella soglia l'uscita dalla vita e l'arrivo della morte. Quando dunque cadde Dagon, quando cioè il ricco morì, la testa dei suoi onori e della sua grandezza, la mani della sua potenza e della sua ricchezza furono troncate, restarono sulla soglia, cioè sul termine della vita, e così lui, come il tronco dell'idolo, restò solo, nudo e impotente, sepolto al suo posto, cioè nell'inferno. Giustamente quindi è detto: «Morì anche il ricco e fu sepolto nell'inferno». Ecco quanto grande è la giustizia di Dio! Il mendìco giaceva alla porta del ricco, coperto di piaghe: ora invece è il ricco che giace lì solo, come un tronco. Dice infatti Salomone: «I malvagi giaceranno davanti ai buoni e gli iniqui davanti alle porte dei giusti» (Pro 14,19).
Lazzaro morì nel piccolo nido della sua povertà, del quale dice Giobbe: «Morirò nel mio piccolo nido, e moltiplicherò i miei giorni come la palma» (Gb 29,18). Chi muore nel piccolo nido della povertà, sarà piantato come la palma nella casa dell'eternità e dell'eterna giovinezza. «Il giusto - è detto - fiorirà come palma» (Sal 91,13).
E anche su questo abbiamo una concordanza nel primo libro dei Re, dove si racconta che Dagon [un idolo] «giaceva per terra davanti all'arca del Signore: la testa dell'idolo e le sue mani giacevano staccate sulla soglia; solo il tronco di Dagon era rimasto al suo posto» (1Re 5,4-5).
L'arca del Signore raffigura il mendìco Lazzaro nel quale, come nell'Arca del Signore, ci furono tre cose: la manna, le tavole della legge e il bastone di Aronne. In Lazzaro c'era la manna della pazienza, le tavole del duplice comandamento della carità, e il bastone della disciplina. Quest'arca riposò nel seno di Abramo: davanti ad essa Dagon, l'idolo, crollò in pezzi. Dagon s'interpreta «pesce della tristezza». E raffigura il ricco vestito di porpora, che fu un pesce che percorreva le vie del mare, in questo mondo di tristezza e nell'inferno. «La sua testa e le sue mani giacevano staccate sulla soglia».
Nella testa è indicata la grandezza temporale, nelle mani la potenza e l'abbondanza, nella soglia l'uscita dalla vita e l'arrivo della morte. Quando dunque cadde Dagon, quando cioè il ricco morì, la testa dei suoi onori e della sua grandezza, la mani della sua potenza e della sua ricchezza furono troncate, restarono sulla soglia, cioè sul termine della vita, e così lui, come il tronco dell'idolo, restò solo, nudo e impotente, sepolto al suo posto, cioè nell'inferno. Giustamente quindi è detto: «Morì anche il ricco e fu sepolto nell'inferno». Ecco quanto grande è la giustizia di Dio! Il mendìco giaceva alla porta del ricco, coperto di piaghe: ora invece è il ricco che giace lì solo, come un tronco. Dice infatti Salomone: «I malvagi giaceranno davanti ai buoni e gli iniqui davanti alle porte dei giusti» (Pro 14,19).
Lazzaro morì nel piccolo nido della sua povertà, del quale dice Giobbe: «Morirò nel mio piccolo nido, e moltiplicherò i miei giorni come la palma» (Gb 29,18). Chi muore nel piccolo nido della povertà, sarà piantato come la palma nella casa dell'eternità e dell'eterna giovinezza. «Il giusto - è detto - fiorirà come palma» (Sal 91,13).
13. «Invece il ricco fu sepolto nell'inferno». Di questa sepoltura parla Geremia: «Dice il Signore di Ioachim, figlio di Giosia, re di Giuda: Non faranno il lamento per lui, dicendo: Ahi, fratello mio! e: Guai, sorella! Né grideranno: Ahi, Signore! Ahi, illustre re! Sarà sepolto come si seppellisce un asino, e sarà gettato a marcire fuori delle porte di Gerusalemme» (Ger 22,18-19).
Considera che la sepoltura dell'asino avviene in questo modo: il padrone si tiene la pelle, i cani ne divorano le carni. Nelle ossa, che durano più a lungo, è raffigurata l'anima; la pelle, cioè i beni terreni, se li tengono i figli; le carni le divorano i vermi; dell'anima si impadroniscono i demoni. Per questo dice l'Ecclesiastico: Quando l'uomo morirà avrà per suo retaggio belve, serpenti e vermi (cf. Eccli 10,13). Le belve sono i figli senza cuore; i serpenti e i vermi sono i demoni. Il ricco coperto di porpora ebbe questa sepoltura, poiché fu sepolto nell'inferno.
Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell'epistola di oggi: «Per questo l'amore di Dio ha raggiunto in noi la perfezione, perché abbiamo fiducia nel giorno del giudizio: perché come è lui, così siamo anche noi in questo mondo» (1Gv 4,17). E la Glossa commenta: Noi dimostriamo di amare Dio in modo perfetto se non temiamo l'arrivo del giudice, se non abbiamo paura di presentarci a lui. Il mendìco Lazzaro non temeva l'arrivo del giudice, perché amava Dio in modo perfetto, e lo aspettava non come giudice che viene a giudicare, ma come colui che viene a dare la ricompensa. Invece il ricco coperto di porpora, nel quale non c'era l'amore, non confidava certo nel giorno del giudizio, non avendo mai avuto compassione per il povero. I giusti invece hanno fiducia perché imitano la perfezione dell'amore di Dio, amando in questo mondo anche i nemici, come Dio che dal cielo «fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45).
Ti preghiamo dunque, Signore Gesù, noi tuoi poveri e mendicanti, fa' che moriamo nel piccolo nido della povertà, col mendico Lazzaro, per essere poi portati dagli angeli nel seno di Abramo.
Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
Considera che la sepoltura dell'asino avviene in questo modo: il padrone si tiene la pelle, i cani ne divorano le carni. Nelle ossa, che durano più a lungo, è raffigurata l'anima; la pelle, cioè i beni terreni, se li tengono i figli; le carni le divorano i vermi; dell'anima si impadroniscono i demoni. Per questo dice l'Ecclesiastico: Quando l'uomo morirà avrà per suo retaggio belve, serpenti e vermi (cf. Eccli 10,13). Le belve sono i figli senza cuore; i serpenti e i vermi sono i demoni. Il ricco coperto di porpora ebbe questa sepoltura, poiché fu sepolto nell'inferno.
Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell'epistola di oggi: «Per questo l'amore di Dio ha raggiunto in noi la perfezione, perché abbiamo fiducia nel giorno del giudizio: perché come è lui, così siamo anche noi in questo mondo» (1Gv 4,17). E la Glossa commenta: Noi dimostriamo di amare Dio in modo perfetto se non temiamo l'arrivo del giudice, se non abbiamo paura di presentarci a lui. Il mendìco Lazzaro non temeva l'arrivo del giudice, perché amava Dio in modo perfetto, e lo aspettava non come giudice che viene a giudicare, ma come colui che viene a dare la ricompensa. Invece il ricco coperto di porpora, nel quale non c'era l'amore, non confidava certo nel giorno del giudizio, non avendo mai avuto compassione per il povero. I giusti invece hanno fiducia perché imitano la perfezione dell'amore di Dio, amando in questo mondo anche i nemici, come Dio che dal cielo «fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45).
Ti preghiamo dunque, Signore Gesù, noi tuoi poveri e mendicanti, fa' che moriamo nel piccolo nido della povertà, col mendico Lazzaro, per essere poi portati dagli angeli nel seno di Abramo.
Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
III. LA PENA DEL RICCO E LA GLORIA DI LAZZARO
14. «In mezzo ai tormenti, il ricco levò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro nel suo seno. Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro ad intingere nell'acqua la punta del dito e venga a rinfrescarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura» (Lc 16,23-24).
Il ricco alzò i suoi occhi, ma invano, perché quaggiù aveva stabilito di tenere gli occhi rivolti verso terra (cf. Sal 16,11). Dice Isaia: «Guardando la terra, ecco le tenebre della tribolazione, e la luce è oscurata dalla sua caligine» (Is 5,30). Il ricco guardò all'amore delle cose terrene e quindi le tenebre della tribolazione lo avvolsero, e la luce, cioè la sua ricchezza, fu oscurata dalla sua caligine, cioè dalla caligine dell'inferno.
«Vide Lazzaro nel seno di Abramo». Quanto sia grande il tormento dei cattivi alla vista della felicità dei buoni, lo attesta il libro della Sapienza: «Vedendoli saranno presi da terribile spavento e saranno pieni di stupore per la loro inattesa salvezza. Gemendo nei tormenti del loro spirito, pentendosi amaramente, diranno dentro di sé: Questi sono coloro che noi una volta abbiamo deriso e fatto oggetto del nostro scherno. Ah, noi stolti! Abbiamo stimato una pazzia la loro vita e disonorevole la loro morte. Ecco che ora sono annoverati tra i figli di Dio e condividono la sorte dei santi» (Sap 5,2-5).
«Allora gridando disse: Padre Abramo... « Chiese una goccia d'acqua colui che non volle dare una briciola di pane. Bramava che una sola goccia d'acqua cadesse sulla sua lingua dalla punta del dito di Lazzaro, proprio lui che non volle dargli neppure le briciole di pane che cadevano dalla sua mensa. Dice un dito, non perché Lazzaro avesse puntato il dito [contro di lui], ma per dimostrare in questo modo che il ricco avrebbe stimato un grande beneficio anche il minimo aiuto, come è appunto l'intinzione di un dito, se avesse potuto conseguire ciò che chiedeva.
E aggiunge: «Per rinfrescare la mia lingua». Non aveva la lingua, ma subì la pena per il peccato della lingua perché, come avviene sempre tra i banchettanti, s'era abbandonato alle scurrilità. Era tormentato ancora prima del giudizio, perché per il lussurioso esser privo dei piaceri è già un tormento. Osserva che non peccò soltanto con il vizio della gola, ma anche con la lingua, quando durante i banchetti si abbandonava alle scurrilità. E contro questo vizio dice Salomone: «Non partecipare ai banchetti dei bevitori e alle gozzoviglie di quelli che si rimpinzano di carni» (Pro 23,20). Sparlando e calunniando il prossimo, mangiano non solo le carni ma anche gli escrementi, perché non solo lo denigrano nelle opere buone, ma anche dicono il falso; e quindi non mangiano solo le carni degli animali, ma - ciò che è più abominevole - anche carne umana, quando con il dente della calunnia e della detrazione rodono le opere dei fratelli, che sono invece degne di encomio.
Ahimè, quanti religiosi stanno oggi senza mangiare carne, e poi con il dente della calunnia e della detrazione dilaniano i loro fratelli. Di costoro dice Seneca: «Come puzzano di sotto, puzzano anche di sopra». E il beato Bernardo: «Calunniare o ascoltare un calunniatore: non mi è facile dire quale delle due cose sia più riprovevole». E ancora, la triplice spada: «Spada a tre punte è la lingua del detrattore; infatti con un solo colpo ne uccide tre»: e cioè il detrattore, chi lo ascolta e la vittima della detrazione, quando la detrazione gli si abbatte addosso.
Il ricco alzò i suoi occhi, ma invano, perché quaggiù aveva stabilito di tenere gli occhi rivolti verso terra (cf. Sal 16,11). Dice Isaia: «Guardando la terra, ecco le tenebre della tribolazione, e la luce è oscurata dalla sua caligine» (Is 5,30). Il ricco guardò all'amore delle cose terrene e quindi le tenebre della tribolazione lo avvolsero, e la luce, cioè la sua ricchezza, fu oscurata dalla sua caligine, cioè dalla caligine dell'inferno.
«Vide Lazzaro nel seno di Abramo». Quanto sia grande il tormento dei cattivi alla vista della felicità dei buoni, lo attesta il libro della Sapienza: «Vedendoli saranno presi da terribile spavento e saranno pieni di stupore per la loro inattesa salvezza. Gemendo nei tormenti del loro spirito, pentendosi amaramente, diranno dentro di sé: Questi sono coloro che noi una volta abbiamo deriso e fatto oggetto del nostro scherno. Ah, noi stolti! Abbiamo stimato una pazzia la loro vita e disonorevole la loro morte. Ecco che ora sono annoverati tra i figli di Dio e condividono la sorte dei santi» (Sap 5,2-5).
«Allora gridando disse: Padre Abramo... « Chiese una goccia d'acqua colui che non volle dare una briciola di pane. Bramava che una sola goccia d'acqua cadesse sulla sua lingua dalla punta del dito di Lazzaro, proprio lui che non volle dargli neppure le briciole di pane che cadevano dalla sua mensa. Dice un dito, non perché Lazzaro avesse puntato il dito [contro di lui], ma per dimostrare in questo modo che il ricco avrebbe stimato un grande beneficio anche il minimo aiuto, come è appunto l'intinzione di un dito, se avesse potuto conseguire ciò che chiedeva.
E aggiunge: «Per rinfrescare la mia lingua». Non aveva la lingua, ma subì la pena per il peccato della lingua perché, come avviene sempre tra i banchettanti, s'era abbandonato alle scurrilità. Era tormentato ancora prima del giudizio, perché per il lussurioso esser privo dei piaceri è già un tormento. Osserva che non peccò soltanto con il vizio della gola, ma anche con la lingua, quando durante i banchetti si abbandonava alle scurrilità. E contro questo vizio dice Salomone: «Non partecipare ai banchetti dei bevitori e alle gozzoviglie di quelli che si rimpinzano di carni» (Pro 23,20). Sparlando e calunniando il prossimo, mangiano non solo le carni ma anche gli escrementi, perché non solo lo denigrano nelle opere buone, ma anche dicono il falso; e quindi non mangiano solo le carni degli animali, ma - ciò che è più abominevole - anche carne umana, quando con il dente della calunnia e della detrazione rodono le opere dei fratelli, che sono invece degne di encomio.
Ahimè, quanti religiosi stanno oggi senza mangiare carne, e poi con il dente della calunnia e della detrazione dilaniano i loro fratelli. Di costoro dice Seneca: «Come puzzano di sotto, puzzano anche di sopra». E il beato Bernardo: «Calunniare o ascoltare un calunniatore: non mi è facile dire quale delle due cose sia più riprovevole». E ancora, la triplice spada: «Spada a tre punte è la lingua del detrattore; infatti con un solo colpo ne uccide tre»: e cioè il detrattore, chi lo ascolta e la vittima della detrazione, quando la detrazione gli si abbatte addosso.
15. «Ma Abramo gli rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Inoltre tra voi e noi è posto un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare a voi non possono farlo, né di costì si può attraversare fino a noi» (Lc 16,25-26).
Considera che questo ricco ha avuto qualcosa di buono, ha fatto cioè delle cose buone, delle opere buone, anche se non spinto dalla carità, e la misericordia divina, nella sua grandezza, lo ricompensò con i beni temporali.
«E Lazzaro ha avuto parimenti i suoi mali». Per il male che aveva fatto, con i peccati veniali, ha ricevuto come compenso il male delle tribolazioni. E perciò «adesso è consolato, tu invece sei tormentato».
Osserva ancora che colui che si trova in peccato mortale, il bene che compie, le sue opere buone gli giovano in cinque modi. Primo, lo rende più idoneo a ricevere la grazia; secondo, lo rende capace di dare buon esempio al prossimo; terzo, lo abitua a fare il bene; quarto, gli merita la ricompensa di beni temporali, come avvenne con questo ricco; quinto, se muore in peccato mortale, gli saranno mitigate le pene dell'inferno.
C'è poi la risposta di Abramo alla richiesta del ricco: «Tra noi e voi è posto un grande abisso», ecc. Come i dannati vorrebbero passare dai tormenti alla gloria dei santi, così i giusti, spinti dalla pietà, vorrebbero, col pensiero, andare da coloro che si trovano in mezzo ai tormenti, per liberarli. Ma non possono farlo perché le anime dei giusti, benché per la perfezione della loro natura abbiano anche la misericordia, tuttavia sono ormai legati così perfettamente alla giustizia del loro creatore, che non possono più essere mossi a compassione nei confronti dei dannati.
Tra il ricco e il povero c'è un tale abisso, che coloro che vogliono attraversarlo non possono più farlo, perché dopo la morte non si possono più cambiare i meriti.
Considera che questo ricco ha avuto qualcosa di buono, ha fatto cioè delle cose buone, delle opere buone, anche se non spinto dalla carità, e la misericordia divina, nella sua grandezza, lo ricompensò con i beni temporali.
«E Lazzaro ha avuto parimenti i suoi mali». Per il male che aveva fatto, con i peccati veniali, ha ricevuto come compenso il male delle tribolazioni. E perciò «adesso è consolato, tu invece sei tormentato».
Osserva ancora che colui che si trova in peccato mortale, il bene che compie, le sue opere buone gli giovano in cinque modi. Primo, lo rende più idoneo a ricevere la grazia; secondo, lo rende capace di dare buon esempio al prossimo; terzo, lo abitua a fare il bene; quarto, gli merita la ricompensa di beni temporali, come avvenne con questo ricco; quinto, se muore in peccato mortale, gli saranno mitigate le pene dell'inferno.
C'è poi la risposta di Abramo alla richiesta del ricco: «Tra noi e voi è posto un grande abisso», ecc. Come i dannati vorrebbero passare dai tormenti alla gloria dei santi, così i giusti, spinti dalla pietà, vorrebbero, col pensiero, andare da coloro che si trovano in mezzo ai tormenti, per liberarli. Ma non possono farlo perché le anime dei giusti, benché per la perfezione della loro natura abbiano anche la misericordia, tuttavia sono ormai legati così perfettamente alla giustizia del loro creatore, che non possono più essere mossi a compassione nei confronti dei dannati.
Tra il ricco e il povero c'è un tale abisso, che coloro che vogliono attraversarlo non possono più farlo, perché dopo la morte non si possono più cambiare i meriti.
16. E con questo concorda ciò che troviamo nel primo libro dei Re, dove si racconta che Davide prese la lancia e la brocca dell'acqua che stava dalla parte della testa di Saul. Davide, dopo essere passato dall'altro lato, si fermò lontano sulla cima del monte; vi era un grande spazio tra di loro. Allora Davide alzò la voce e gridò ad Abner: Guarda un po' dov'è la lancia del re e dov'è la brocca dell'acqua che stava presso la sua testa (cf. 1Re 26,12. 13. 14. 16).
Davide s'interpreta «forte di mano», Saul «colui che abusa». Nella lancia è raffigurata la ricchezza e nella brocca dell'acqua il piacere della gola. Davide è figura del mendìco Lazzaro, il quale fu sempre forte pur in mezzo a tante sventure e tribolazioni; Saul è figura del ricco, vestito di porpora, il quale abusò dei doni che Dio gli aveva elargito. Davide sottrasse a Saul la lancia e la brocca dell'acqua, e così Lazzaro, per il fatto che Saul non aveva voluto aver compassione di lui, gli sottrasse la lancia, vale a dire la potenza della ricchezza, e la brocca dell'acqua, cioè il piacere della gola. E Lazzaro passò dalla tribolazione al riposo e si assise sulla sommità del monte, lontano, cioè nel seno di Abramo, che è ben lontano dai tormenti del ricco.
«E il ricco, alzando gli occhi», ecc. «Davide gridò ad Abner: Guarda un po' dov'è la lancia del re, e dov'è la brocca dell'acqua che stava presso la sua testa». O ricco epulone, dov'è adesso la lancia delle tue ricchezze, con la quale eri solito colpire i poveri? Dov'è la brocca dell'acqua, dov'è il piacere della gola? Ti basterebbe bagnarti la lingua, ora che sei tormentato tra le fiamme. Giustamente quindi è detto: «Questi è consolato, tu invece sei tormentato».
E con questa terza parte del vangelo concorda anche la terza parte dell'epistola di oggi: «Nell'amore non c'è timore, al contrario l'amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo, e chi teme non è perfetto nell'amore» (1Gv 4,18). Nell'amore del mendìco Lazzaro non ci fu timore: lo scacciò il suo perfetto amore perché, come dice la Glossa, l'amore fa sì che non si temano le tribolazioni della vita presente. Invece il timore del ricco, che temette di perdere quello che possedeva, lo condusse al castigo della morte.
Ti preghiamo, Signore Gesù Cristo, di liberarci dalla sete inestinguibile e dal fuoco ardente e di collocarci nel seno di Abramo insieme con il beato Lazzaro.
Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
Davide s'interpreta «forte di mano», Saul «colui che abusa». Nella lancia è raffigurata la ricchezza e nella brocca dell'acqua il piacere della gola. Davide è figura del mendìco Lazzaro, il quale fu sempre forte pur in mezzo a tante sventure e tribolazioni; Saul è figura del ricco, vestito di porpora, il quale abusò dei doni che Dio gli aveva elargito. Davide sottrasse a Saul la lancia e la brocca dell'acqua, e così Lazzaro, per il fatto che Saul non aveva voluto aver compassione di lui, gli sottrasse la lancia, vale a dire la potenza della ricchezza, e la brocca dell'acqua, cioè il piacere della gola. E Lazzaro passò dalla tribolazione al riposo e si assise sulla sommità del monte, lontano, cioè nel seno di Abramo, che è ben lontano dai tormenti del ricco.
«E il ricco, alzando gli occhi», ecc. «Davide gridò ad Abner: Guarda un po' dov'è la lancia del re, e dov'è la brocca dell'acqua che stava presso la sua testa». O ricco epulone, dov'è adesso la lancia delle tue ricchezze, con la quale eri solito colpire i poveri? Dov'è la brocca dell'acqua, dov'è il piacere della gola? Ti basterebbe bagnarti la lingua, ora che sei tormentato tra le fiamme. Giustamente quindi è detto: «Questi è consolato, tu invece sei tormentato».
E con questa terza parte del vangelo concorda anche la terza parte dell'epistola di oggi: «Nell'amore non c'è timore, al contrario l'amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo, e chi teme non è perfetto nell'amore» (1Gv 4,18). Nell'amore del mendìco Lazzaro non ci fu timore: lo scacciò il suo perfetto amore perché, come dice la Glossa, l'amore fa sì che non si temano le tribolazioni della vita presente. Invece il timore del ricco, che temette di perdere quello che possedeva, lo condusse al castigo della morte.
Ti preghiamo, Signore Gesù Cristo, di liberarci dalla sete inestinguibile e dal fuoco ardente e di collocarci nel seno di Abramo insieme con il beato Lazzaro.
Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
IV. LA DISPERATA SUPPLICA DEL RICCO PER I SUOI CINQUE FRATELLI
17. «Padre Abramo, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli: li ammonisca, perché non finiscano anch'essi in questo luogo di tormenti» (Lc 16,27-28). Troppo tardi questo ricco si mette a fare il maestro: ormai non c'è più tempo né di imparare né di insegnare. Dopo che al ricco, che brucia nel fuoco, è venuta meno la fiducia in se stesso, egli ricorre ai vicini dicendo: Ti prego, padre Abramo!...
Fa' attenzione a queste tre cose: «la casa», «di mio padre», «i cinque fratelli». Il padre del ricco fu il diavolo, perché egli visse imitandolo. La sua casa fu il mondo, cioè quelli che conducono una vita mondana; in questa casa ci sono i suoi cinque fratelli, cioè tutti coloro che sono schiavi dei cinque sensi del corpo.
Il ricco che si vede dannato a causa dei cinque sensi del corpo, che ha amato come fratelli, sente adesso una certa pietà per coloro che sono dediti ai piaceri dei sensi, egli che non ebbe pietà per se stesso, e cerca di provvedere.
Considera che i carnali amano come fratelli i cinque sensi del corpo, mentre i giusti li tengono schiavi.
Troviamo su questo una concordanza nel primo libro dei Re, dove si racconta che «Abigail si preparò in gran fretta, poi montò su di un asino e, seguita dalle sue cinque giovani ancelle, andò dietro ai messaggeri di Davide, e divenne sua moglie» (1Re 25,42).
Abigail s'interpreta «esultanza del padre mio», ed è figura dell'anima che si pente: per la sua conversione c'è grande gioia nel cielo (cf. Lc 15,7). Essa sale su di un asino, sottomette cioè la carne, e l'accompagnano le sue cinque ancelle, cioè i cinque sensi del corpo: la vista dell'intelligenza, l'udito dell'obbedienza, il gusto dell'approvazione, l'odorato dell'indagine e il tatto dell'azione. Si mette così al seguito dei messaggeri di Davide, segue cioè la povertà, l'umiltà, la passione di Gesù Cristo: esse ci parlano di lui e ci dicono qual è stata la sua vita in questo mondo. E così diviene sua sposa, con lui impegnata, a lui legata per mezzo dell'anello di una fede perfetta.
Fa' attenzione a queste tre cose: «la casa», «di mio padre», «i cinque fratelli». Il padre del ricco fu il diavolo, perché egli visse imitandolo. La sua casa fu il mondo, cioè quelli che conducono una vita mondana; in questa casa ci sono i suoi cinque fratelli, cioè tutti coloro che sono schiavi dei cinque sensi del corpo.
Il ricco che si vede dannato a causa dei cinque sensi del corpo, che ha amato come fratelli, sente adesso una certa pietà per coloro che sono dediti ai piaceri dei sensi, egli che non ebbe pietà per se stesso, e cerca di provvedere.
Considera che i carnali amano come fratelli i cinque sensi del corpo, mentre i giusti li tengono schiavi.
Troviamo su questo una concordanza nel primo libro dei Re, dove si racconta che «Abigail si preparò in gran fretta, poi montò su di un asino e, seguita dalle sue cinque giovani ancelle, andò dietro ai messaggeri di Davide, e divenne sua moglie» (1Re 25,42).
Abigail s'interpreta «esultanza del padre mio», ed è figura dell'anima che si pente: per la sua conversione c'è grande gioia nel cielo (cf. Lc 15,7). Essa sale su di un asino, sottomette cioè la carne, e l'accompagnano le sue cinque ancelle, cioè i cinque sensi del corpo: la vista dell'intelligenza, l'udito dell'obbedienza, il gusto dell'approvazione, l'odorato dell'indagine e il tatto dell'azione. Si mette così al seguito dei messaggeri di Davide, segue cioè la povertà, l'umiltà, la passione di Gesù Cristo: esse ci parlano di lui e ci dicono qual è stata la sua vita in questo mondo. E così diviene sua sposa, con lui impegnata, a lui legata per mezzo dell'anello di una fede perfetta.
18. «Allora Abramo gli rispose: Hanno Mosè e i profeti: ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo; ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti si convincerebbero a mutar vita» (Lc 16,29-31). Si deduce da tutto questo che il ricco era giudeo, perché i suoi fratelli erano soggetti alla legge di Mosè e ai profeti; e forse per questo Abramo lo chiama figlio, e lui chiama Abramo padre.
Colui che aveva disprezzato le parole di Dio, era convinto che anche i suoi seguaci non le avrebbero ascoltate. Coloro che disprezzano le parole della Legge, molto più difficilmente osserveranno i precetti del Redentore - che appunto è risorto dai morti -, precetti che sono molto più impegnativi. E se rifiutano di metterne in pratica le parole, senza dubbio rifiutano anche di credergli. Gli uomini carnali, dediti ai piaceri della carne, non ascoltano né Mosè, vale a dire il santo prelato della chiesa, né i profeti, cioè i predicatori; e quel che è peggio, non credono neppure a Cristo, che è risorto dai morti. Saul credette a Samuele, evocato da una indovina: e noi non crederemo al vero Figlio di Dio, realmente risuscitato dai morti da Dio, Padre suo? Ecco la concordanza che troviamo nel primo libro dei Re. Disse Saul all'indovina: «Pratica la divinazione per me, con uno spirito: èvocami colui che ti dirò. Gli disse la donna: Chi devo evocarti?. Egli rispose: Évocami Samuele. Quando la donna vide Samuele, gridò a gran voce a Saul: Perché mi hai comandato questo? Tu sei Saul. Il re le disse: Non aver paura! Che cosa hai visto? E la donna disse a Saul: Un uomo anziano, solenne, avvolto nel manto sacerdotale» (1Re 28,8. 11-14). Saul comprese che era Samuele e si prostrò con la faccia a terra. E lo spirito di Samuele, come racconta Giuseppe [Flavio], disse a Saul: «Perché mi hai disturbato e costretto ad apparire?» (Comestor). .
Di questa apparizione, come narrano le «Storie», pensano alcuni che fu uno spirito maligno ad apparire a Saul sotto le sembianze di Samuele; o che la sua figura fu solo immaginaria, e fu chiamata Samuele. Altri ritengono che, con il permesso di Dio, apparve solo la sua anima, rivestita di un corpo che gli assomigliava. Altri ancora pensano che sia stato evocato solo il suo corpo con lo «spirito vegetativo», che abbiamo in comune con gli animali, mentre la sua anima sarebbe rimasta tranquilla nel luogo del suo riposo. Noi dunque dobbiamo trattare i cinque sensi del corpo non come fratelli, ma come schiavi. Ascoltiamo Mosè e i profeti. Crediamo a Cristo risorto dai morti e assiso alla destra Padre, e credendo amiamolo.
Colui che aveva disprezzato le parole di Dio, era convinto che anche i suoi seguaci non le avrebbero ascoltate. Coloro che disprezzano le parole della Legge, molto più difficilmente osserveranno i precetti del Redentore - che appunto è risorto dai morti -, precetti che sono molto più impegnativi. E se rifiutano di metterne in pratica le parole, senza dubbio rifiutano anche di credergli. Gli uomini carnali, dediti ai piaceri della carne, non ascoltano né Mosè, vale a dire il santo prelato della chiesa, né i profeti, cioè i predicatori; e quel che è peggio, non credono neppure a Cristo, che è risorto dai morti. Saul credette a Samuele, evocato da una indovina: e noi non crederemo al vero Figlio di Dio, realmente risuscitato dai morti da Dio, Padre suo? Ecco la concordanza che troviamo nel primo libro dei Re. Disse Saul all'indovina: «Pratica la divinazione per me, con uno spirito: èvocami colui che ti dirò. Gli disse la donna: Chi devo evocarti?. Egli rispose: Évocami Samuele. Quando la donna vide Samuele, gridò a gran voce a Saul: Perché mi hai comandato questo? Tu sei Saul. Il re le disse: Non aver paura! Che cosa hai visto? E la donna disse a Saul: Un uomo anziano, solenne, avvolto nel manto sacerdotale» (1Re 28,8. 11-14). Saul comprese che era Samuele e si prostrò con la faccia a terra. E lo spirito di Samuele, come racconta Giuseppe [Flavio], disse a Saul: «Perché mi hai disturbato e costretto ad apparire?» (Comestor). .
Di questa apparizione, come narrano le «Storie», pensano alcuni che fu uno spirito maligno ad apparire a Saul sotto le sembianze di Samuele; o che la sua figura fu solo immaginaria, e fu chiamata Samuele. Altri ritengono che, con il permesso di Dio, apparve solo la sua anima, rivestita di un corpo che gli assomigliava. Altri ancora pensano che sia stato evocato solo il suo corpo con lo «spirito vegetativo», che abbiamo in comune con gli animali, mentre la sua anima sarebbe rimasta tranquilla nel luogo del suo riposo. Noi dunque dobbiamo trattare i cinque sensi del corpo non come fratelli, ma come schiavi. Ascoltiamo Mosè e i profeti. Crediamo a Cristo risorto dai morti e assiso alla destra Padre, e credendo amiamolo.
19. Infatti la quarta parte dell'epistola, in accordo con questa quarta parte del vangelo, ci dice: «Amiamo dunque Dio, perché egli per primo ci ha amati. Se uno dicesse: Io amo Dio, e poi odia il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, come può amare Dio che non vede?» (1Gv 4,19-20). E Agostino commenta: «Se uno amasse di amore spirituale colui che vede con gli occhi del corpo, vedrebbe anche Dio, che è l'amore stesso, con gli occhi dello spirito, i soli con i quali Dio può essere veduto. Chi dunque non ama il proprio fratello che vede, come può amare Dio che è l'amore stesso, se è privo di questo amore colui che non ama il proprio fratello»? Perciò, fratelli carissimi, preghiamo il Signore che è amore, di darci la grazia di amare la povertà del mendìco Lazzaro, di aborrire le ricchezze del ricco, coperto di porpora, di non permettere che veniamo sepolti nell'inferno, ma di essere portati nel seno di Abramo.
Ce lo conceda colui al quale è onore, gloria, magnificenza e potenza nei secoli eterni.
E ogni vero povero risponda: Amen. Alleluia.
Ce lo conceda colui al quale è onore, gloria, magnificenza e potenza nei secoli eterni.
E ogni vero povero risponda: Amen. Alleluia.