TEMI DEL SERMONE
ESORDIO - IL COMBATTIMENTO TRA I DEMONI E I GIUSTI
1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: «Un uomo diede una grande cena e invitò molti. All'ora della cena mandò il suo servo a dire agli invitati di venire» (Lc 14,16-17).
Leggiamo nel primo libro dei Re: «I filistei, radunate le loro schiere per combattere, si ammassarono a Soco di Giuda e si accamparono tra Soco e Azeka nel territorio di Dammim. Anche Saul e i figli d'Israele si radunarono e si accamparono nella valle del Terebinto e si schierarono in battaglia di fronte ai filistei» (1Re 17,1-2). Filistei s'interpreta «che cadono ubriachi di bevande», Soco «tende», Giuda «confessione», Azeka «rete» o «laccio», Dammim «rossa» di sangue.
I filistei raffigurano i demoni i quali, ubriacati dalla bevanda della superbia, precipitarono dal cielo. Essi, radunate le loro schiere, si ammassano per la battaglia a Soco di Giuda, cioè per combattere contro quelli che militano nelle tende della penitenza; e si accampano tra Soco e Azeka, nel territorio di Dammim. Infatti i demoni perseguitano i giusti per farli cadere nella rete delle cattive suggestioni e con l'inganno li conducono fino al sangue del peccato.
Si legge nel terzo libro dei Re che i cani leccarono il sangue di Acab (cf. 3Re 22,38). I cani sono i demoni che leccano il sangue di Acab - nome che significa «fratelli [figli] dello stesso padre» -, di colui cioè che era solito dimorare in fraternità con i penitenti, i quali hanno un solo Padre, Dio. Invece i figli d'Israele, cioè i veri predicatori, uniti nell'unica fede, devono dirigere la forza della mente e della predicazione al combattimento contro i demoni.
E in quale luogo? Naturalmente nella valle del Terebinto, vale a dire nell'umiltà della croce, dalla quale emanò la preziosissima resina del sangue di Gesù Cristo, che dice nel vangelo di oggi: «Un uomo fece una grande cena».
Leggiamo nel primo libro dei Re: «I filistei, radunate le loro schiere per combattere, si ammassarono a Soco di Giuda e si accamparono tra Soco e Azeka nel territorio di Dammim. Anche Saul e i figli d'Israele si radunarono e si accamparono nella valle del Terebinto e si schierarono in battaglia di fronte ai filistei» (1Re 17,1-2). Filistei s'interpreta «che cadono ubriachi di bevande», Soco «tende», Giuda «confessione», Azeka «rete» o «laccio», Dammim «rossa» di sangue.
I filistei raffigurano i demoni i quali, ubriacati dalla bevanda della superbia, precipitarono dal cielo. Essi, radunate le loro schiere, si ammassano per la battaglia a Soco di Giuda, cioè per combattere contro quelli che militano nelle tende della penitenza; e si accampano tra Soco e Azeka, nel territorio di Dammim. Infatti i demoni perseguitano i giusti per farli cadere nella rete delle cattive suggestioni e con l'inganno li conducono fino al sangue del peccato.
Si legge nel terzo libro dei Re che i cani leccarono il sangue di Acab (cf. 3Re 22,38). I cani sono i demoni che leccano il sangue di Acab - nome che significa «fratelli [figli] dello stesso padre» -, di colui cioè che era solito dimorare in fraternità con i penitenti, i quali hanno un solo Padre, Dio. Invece i figli d'Israele, cioè i veri predicatori, uniti nell'unica fede, devono dirigere la forza della mente e della predicazione al combattimento contro i demoni.
E in quale luogo? Naturalmente nella valle del Terebinto, vale a dire nell'umiltà della croce, dalla quale emanò la preziosissima resina del sangue di Gesù Cristo, che dice nel vangelo di oggi: «Un uomo fece una grande cena».
2. In questo vangelo si devono considerare tre momenti. Primo, la preparazione della grande cena e gli inviti fatti per mezzo del servo: «Un uomo fece una grande cena». Secondo, le scuse degli invitati: «E incominciarono tutti insieme a scusarsi». Terzo, l'ingresso alla cena dei poveri, dei deboli, dei ciechi e degli zoppi: «Allora il padrone di casa, irritato... «. Vedremo di concordare queste tre parti del vangelo con alcuni racconti del primo libro dei Re.
In questa domenica si canta nell'introito della messa: «Il Signore è diventato il mio sostegno» (Sal 17,19). Si legge quindi un brano della prima lettera del beato Giovanni: «Non vi meravigliate se il mondo vi odia»; brano che divideremo in tre parti per vederne la concordanza con le tre parti del vangelo. La prima: «Non vi meravigliate»; la seconda: «Da questo abbiamo conosciuto l'amore di Dio»; la terza: «Se uno ha ricchezze di questo mondo».
In questa domenica si canta nell'introito della messa: «Il Signore è diventato il mio sostegno» (Sal 17,19). Si legge quindi un brano della prima lettera del beato Giovanni: «Non vi meravigliate se il mondo vi odia»; brano che divideremo in tre parti per vederne la concordanza con le tre parti del vangelo. La prima: «Non vi meravigliate»; la seconda: «Da questo abbiamo conosciuto l'amore di Dio»; la terza: «Se uno ha ricchezze di questo mondo».
I. LA PREPARAZIONE DELLA CENA E GLI INVITI
3. «Un uomo fece una grande cena». Considera che c'è una duplice cena: la cena della penitenza e la cena della gloria. E poiché senza la prima non si arriva alla seconda, prepariamo la prima e vediamo quali siano gli alimenti necessari.
Qui abbiamo la concordanza con il primo libro dei Re, dove si racconta che Anna «allattò il figlio (Samuele) fino al tempo dello svezzamento. Dopo averlo svezzato, lo condusse con sé portando tre vitelli, tre misure di farina e un'anfora di vino; e lo condusse alla casa del Signore a Silo» (1Re 1,23-24).
Anna, che s'interpreta «grazia», è figura della grazia dello Spirito Santo, la quale con le due mammelle della grazia preveniente e della grazia «susseguente» (cooperante), allatta il penitente finché lo svezza totalmente dal latte della concupiscenza della carne e della vanità del mondo.
E osserva che come la madre che vuole svezzare il figlio si bagna le mammelle di liquido amaro, affinché il bambino che cerca il dolce trovi invece l'amaro e quindi venga distolto dal dolce, così la grazia dello Spirito Santo cosparge le mammelle dei beni temporali con il liquido amaro della tribolazione, affinché l'uomo rifugga da questa dolcezza cosparsa di amarezze, e ricerchi la dolcezza vera.
«E dopo averlo svezzato lo prese con sé, insieme con tre vitelli». Ecco i cibi che si devono preparare per la cena della penitenza. La grazia porta con sé il penitente insieme con tre vitelli, nei quali è indicata la triplice offerta.
Il vitello di un cuore contrito e afflitto, come dice il Salmo: «Allora porranno vitelli sopra il tuo altare» (Sal 50,21). Sopra l'altare, cioè nella contrizione del cuore, i penitenti pongono i vitelli, vale a dire bruciano i piaceri e i pensieri immondi.
Il vitello della confessione. Dice Osea: «Prendete con voi le parole, convertitevi al Signore e dite: Togli ogni iniquità e accetta il bene, e ti offriremo i vitelli delle nostre labbra» (Os 14,3). Prende con sé le parole colui che si sforza di praticare ciò che ascolta, e così si converte al Signore. E al Signore dice anche: «Togli ogni iniquità», che io ho commesso, «e accetta il bene» che tu stesso hai dato. «Non a me, Signore, non a me, ma al tuo nome dà gloria» (Sal 113B,1). E così io ti renderò «i vitelli delle mie labbra», farò cioè la confessione del mio crimine e a te innalzerò la lode.
Il vitello del corpo, castigato con la penitenza. «Vitello e vitella sono così chiamati per la loro «verde» età. Vitello e vitella sono figura della nostra carne, la quale nella verde età della giovinezza si sbizzarrisce spensieratamente per i prati di una colpevole sfrenatezza. Di essa dice Sansone: «Se non aveste arato con la mia giovenca, non avreste decifrato il mio enigma» (Gdc 14,18). Sansone è figura dello spirito; la giovenca rappresenta la nostra carne: se ariamo su di essa, facendola soffrire con la penitenza, decifreremo l'enigma, che è questo: «Che cos'è più dolce del miele? Che cos'è più forte del leone» della tribù di Giuda?» (Gdc 14,18). Che cosa c'è di più dolce del miele, cioè della contemplazione? Che cosa c'è di più forte del leone, cioè del predicatore, al cui ruggito tutti gli animali devono fermare il passo? Che cos'è più dolce del miele della mansuetudine? Che cos'è più forte delle leone della severità? Giustamente quindi è detto: «E lo portò con sé, insieme con tre vitelli».
«E con tre misure di farina». Il grano si macina e si riduce in farina. La farina, impastata con l'acqua, si solidifica in pane, il quale sostiene il cuore dell'uomo (cf. Sal 103,15). Allo stesso modo il grano delle nostre opere dev'essere macinato per mezzo di una severa critica, triturato con un attento esame, per risultare purificato come la farina.
Questo esame poi dev'essere triplice, come è indicato dalle tre misure. Si deve esaminare la natura dell'opera che compiamo, la sua origine e la sua finalità. Quindi l'opera dev'essere mescolata con l'acqua delle lacrime, per implorare l'irrigazione inferiore e l'irrigazione superiore (cf. Gdc 1,15): e l'opera dev'essere offerta o per il riscatto delle opere cattive del passato, o per il desiderio dell'eterna felicità; e questo era prefigurato nelle due tortore che si offrivano sotto la Legge, una delle quali veniva offerta per il peccato, e l'altra veniva bruciata in olocausto (cf. Lv 12,8).
Quindi con la farina e con l'acqua si impasta il pane, che sostenta il cuore dell'uomo, perché con le opere buone mescolate alle lacrime si nutre e si arricchisce la coscienza dell'uomo.
«E un'anfora di vino», la quale ha tre misure (Glossa). Nel vino è raffigurata la letizia della mente, che consiste in tre cose: nel testimonio della buona coscienza, nell'edificazione del prossimo e nella speranza della felicità eterna.
Con tutte queste cose la madre Anna, vale a dire la grazia dello Spirito Santo, conduce il suo figlio, il giusto, alla casa del Signore a Silo, che significa «trasferita», lo guida cioè fino alla vita eterna, alla quale i santi vengono trasferiti dal pellegrinaggio di questo mondo, e alla cui cena di gloria banchettano insieme con gli spiriti beati.
Qui abbiamo la concordanza con il primo libro dei Re, dove si racconta che Anna «allattò il figlio (Samuele) fino al tempo dello svezzamento. Dopo averlo svezzato, lo condusse con sé portando tre vitelli, tre misure di farina e un'anfora di vino; e lo condusse alla casa del Signore a Silo» (1Re 1,23-24).
Anna, che s'interpreta «grazia», è figura della grazia dello Spirito Santo, la quale con le due mammelle della grazia preveniente e della grazia «susseguente» (cooperante), allatta il penitente finché lo svezza totalmente dal latte della concupiscenza della carne e della vanità del mondo.
E osserva che come la madre che vuole svezzare il figlio si bagna le mammelle di liquido amaro, affinché il bambino che cerca il dolce trovi invece l'amaro e quindi venga distolto dal dolce, così la grazia dello Spirito Santo cosparge le mammelle dei beni temporali con il liquido amaro della tribolazione, affinché l'uomo rifugga da questa dolcezza cosparsa di amarezze, e ricerchi la dolcezza vera.
«E dopo averlo svezzato lo prese con sé, insieme con tre vitelli». Ecco i cibi che si devono preparare per la cena della penitenza. La grazia porta con sé il penitente insieme con tre vitelli, nei quali è indicata la triplice offerta.
Il vitello di un cuore contrito e afflitto, come dice il Salmo: «Allora porranno vitelli sopra il tuo altare» (Sal 50,21). Sopra l'altare, cioè nella contrizione del cuore, i penitenti pongono i vitelli, vale a dire bruciano i piaceri e i pensieri immondi.
Il vitello della confessione. Dice Osea: «Prendete con voi le parole, convertitevi al Signore e dite: Togli ogni iniquità e accetta il bene, e ti offriremo i vitelli delle nostre labbra» (Os 14,3). Prende con sé le parole colui che si sforza di praticare ciò che ascolta, e così si converte al Signore. E al Signore dice anche: «Togli ogni iniquità», che io ho commesso, «e accetta il bene» che tu stesso hai dato. «Non a me, Signore, non a me, ma al tuo nome dà gloria» (Sal 113B,1). E così io ti renderò «i vitelli delle mie labbra», farò cioè la confessione del mio crimine e a te innalzerò la lode.
Il vitello del corpo, castigato con la penitenza. «Vitello e vitella sono così chiamati per la loro «verde» età. Vitello e vitella sono figura della nostra carne, la quale nella verde età della giovinezza si sbizzarrisce spensieratamente per i prati di una colpevole sfrenatezza. Di essa dice Sansone: «Se non aveste arato con la mia giovenca, non avreste decifrato il mio enigma» (Gdc 14,18). Sansone è figura dello spirito; la giovenca rappresenta la nostra carne: se ariamo su di essa, facendola soffrire con la penitenza, decifreremo l'enigma, che è questo: «Che cos'è più dolce del miele? Che cos'è più forte del leone» della tribù di Giuda?» (Gdc 14,18). Che cosa c'è di più dolce del miele, cioè della contemplazione? Che cosa c'è di più forte del leone, cioè del predicatore, al cui ruggito tutti gli animali devono fermare il passo? Che cos'è più dolce del miele della mansuetudine? Che cos'è più forte delle leone della severità? Giustamente quindi è detto: «E lo portò con sé, insieme con tre vitelli».
«E con tre misure di farina». Il grano si macina e si riduce in farina. La farina, impastata con l'acqua, si solidifica in pane, il quale sostiene il cuore dell'uomo (cf. Sal 103,15). Allo stesso modo il grano delle nostre opere dev'essere macinato per mezzo di una severa critica, triturato con un attento esame, per risultare purificato come la farina.
Questo esame poi dev'essere triplice, come è indicato dalle tre misure. Si deve esaminare la natura dell'opera che compiamo, la sua origine e la sua finalità. Quindi l'opera dev'essere mescolata con l'acqua delle lacrime, per implorare l'irrigazione inferiore e l'irrigazione superiore (cf. Gdc 1,15): e l'opera dev'essere offerta o per il riscatto delle opere cattive del passato, o per il desiderio dell'eterna felicità; e questo era prefigurato nelle due tortore che si offrivano sotto la Legge, una delle quali veniva offerta per il peccato, e l'altra veniva bruciata in olocausto (cf. Lv 12,8).
Quindi con la farina e con l'acqua si impasta il pane, che sostenta il cuore dell'uomo, perché con le opere buone mescolate alle lacrime si nutre e si arricchisce la coscienza dell'uomo.
«E un'anfora di vino», la quale ha tre misure (Glossa). Nel vino è raffigurata la letizia della mente, che consiste in tre cose: nel testimonio della buona coscienza, nell'edificazione del prossimo e nella speranza della felicità eterna.
Con tutte queste cose la madre Anna, vale a dire la grazia dello Spirito Santo, conduce il suo figlio, il giusto, alla casa del Signore a Silo, che significa «trasferita», lo guida cioè fino alla vita eterna, alla quale i santi vengono trasferiti dal pellegrinaggio di questo mondo, e alla cui cena di gloria banchettano insieme con gli spiriti beati.
4. La cena è una riunione di convitati: anticamente si mangiava tutti insieme una sola volta al giorno, alla sera (Isidoro: Non erano in uso i pranzi). La cena della gloria eterna sta ad indicare il convito nel quale i santi si sazieranno tutti insieme della visione di Dio, poiché sarà data un'unica ricompensa a coloro che lavorano nella vigna (cf. Mt 20,2). Di questo convito della cena dice Isaia: «Il Signore degli eserciti farà su questo monte un convito per tutti i popoli, un convito di grasse vivande, un convito di vendemmia: un convito di carni succulente e di vini raffinati (senza feccia)» (Is 25,6). Le parole del vangelo concordano con quelle di Isaia: «Il Signore degli eserciti», ecc. Dove il vangelo dice «grande cena», Isaia dice «convito di grasse vivande».
Fa' attenzione a queste quattro parole: convito, grasse vivande, carni succulente e vini raffinati.
Nel convito, cioè «vitto, pasto di molti insieme», è indicata la gloriosa assemblea di tutti i santi; nelle grasse vivande la loro carità, cioè il loro amore verso Dio e verso il prossimo; nelle carni succulente la felicità di contemplare il volto di Dio; nei vini raffinati la glorificazione del corpo.
Perciò in questo monte, cioè nella Gerusalemme celeste, il Signore degli eserciti, il Signore delle schiere angeliche, imbandirà un convito di grasse vivande: radunerà cioè tutti i santi, nutriti ed arricchiti dalla carità, ricolmi di ineffabile felicità nella visione di Dio e beati nella glorificazione del loro corpo.
Allora ci sarà veramente la vendemmia senza feccia, cioè di uve che daranno vini raffinati. Vendemmia deriva dal latino vineae demptio, raccolta dell'uva, che è senza feccia quando viene selezionata e ripulita da ogni impurità. In quella vendemmia che è la risurrezione finale ci sarà la scelta accurata dei corpi dei santi, sarà eliminata ogni feccia di corruzione e di mortalità, ed essi saranno riposti nei granai del cielo. Giustamente quindi è detto: «Un uomo preparò una grande cena».
Osserva che in quella «grande cena» mangeremo dei «grandi cibi»; mangeremo cioè quei frutti che i figli d'Israele portarono dalla Terra Promessa, vale a dire uva, fichi e melagrane, come è narrato nel libro dei Numeri (cf. Nm 13,24).
Nell'uva, dalla quale si spreme il vino, è indicato il gaudio che i santi proveranno nella visione del Verbo incarnato. L'uomo stesso vedrà l'Uomo-Dio, mentre gli angeli non vedranno l'angelo-Dio: l'uomo vedrà la sua natura esaltata al di sopra degli angeli. E di questo gaudio dice Abacuc: «Io gioirò nel Signore, esulterò in Dio, mio salvatore (lett. Gesù mio)» (Ab 3,18). Giustamente dice «mio salvatore», perché Gesù, per salvare me, prese sé da me, cioè la mia carne, e la esaltò al di sopra dei cori degli angeli.
Allo stesso modo nel fico, così chiamato da «fecondità», e che è il più dolce di tutti i frutti, è indicata la dolcezza che i santi proveranno nella visione di tutta la Trinità. In proposito dice il Profeta: «Quanto grande e profonda è la tua dolcezza, Signore, che tu tieni nascosta per coloro che ti temono» (Sal 30,20). La tieni nascosta perché venga ricercata con più ardore, cercandola venga trovata, e trovatala venga amata intensamente, e con l'amore venga posseduta in eterno.
E ancora: «Nella tua dolcezza, o Dio, hai preparato al povero... « (Sal 67,11). Non dice che cosa ha preparato, perché ciò che ha preparato non può essere detto a parole. Dice infatti l'Apostolo: «Ciò che occhio non vide», perché è nascosto, «né orecchio udì», perché è nel silenzio e non può essere espresso, «né mai entrò nel cuore dell'uomo» perché è incomprensibile (1Cor 2,9), e non può essere contenuto.
Parimenti nelle melagrane è simboleggiata l'unità della chiesa trionfante e la diversità delle ricompense. Le melagrane sono chiamate così perché all'interno hanno dei grani gustosi e profumati. Osserva che, come nelle melagrane tutti i grani sono nascosti sotto la stessa corteccia e tuttavia ogni grano ha la sua piccola cella distinta, così nella vita eterna tutti i santi avranno la stessa gloria, e tuttavia ognuno di essi riceverà una ricompensa più o meno grande, a seconda delle proprie opere. Dice infatti il Signore: «Nella casa del Padre mio», ecco la corteccia, «vi sono molti posti» (Gv 14,2), ecco le celle distinte.
Fa' attenzione a queste quattro parole: convito, grasse vivande, carni succulente e vini raffinati.
Nel convito, cioè «vitto, pasto di molti insieme», è indicata la gloriosa assemblea di tutti i santi; nelle grasse vivande la loro carità, cioè il loro amore verso Dio e verso il prossimo; nelle carni succulente la felicità di contemplare il volto di Dio; nei vini raffinati la glorificazione del corpo.
Perciò in questo monte, cioè nella Gerusalemme celeste, il Signore degli eserciti, il Signore delle schiere angeliche, imbandirà un convito di grasse vivande: radunerà cioè tutti i santi, nutriti ed arricchiti dalla carità, ricolmi di ineffabile felicità nella visione di Dio e beati nella glorificazione del loro corpo.
Allora ci sarà veramente la vendemmia senza feccia, cioè di uve che daranno vini raffinati. Vendemmia deriva dal latino vineae demptio, raccolta dell'uva, che è senza feccia quando viene selezionata e ripulita da ogni impurità. In quella vendemmia che è la risurrezione finale ci sarà la scelta accurata dei corpi dei santi, sarà eliminata ogni feccia di corruzione e di mortalità, ed essi saranno riposti nei granai del cielo. Giustamente quindi è detto: «Un uomo preparò una grande cena».
Osserva che in quella «grande cena» mangeremo dei «grandi cibi»; mangeremo cioè quei frutti che i figli d'Israele portarono dalla Terra Promessa, vale a dire uva, fichi e melagrane, come è narrato nel libro dei Numeri (cf. Nm 13,24).
Nell'uva, dalla quale si spreme il vino, è indicato il gaudio che i santi proveranno nella visione del Verbo incarnato. L'uomo stesso vedrà l'Uomo-Dio, mentre gli angeli non vedranno l'angelo-Dio: l'uomo vedrà la sua natura esaltata al di sopra degli angeli. E di questo gaudio dice Abacuc: «Io gioirò nel Signore, esulterò in Dio, mio salvatore (lett. Gesù mio)» (Ab 3,18). Giustamente dice «mio salvatore», perché Gesù, per salvare me, prese sé da me, cioè la mia carne, e la esaltò al di sopra dei cori degli angeli.
Allo stesso modo nel fico, così chiamato da «fecondità», e che è il più dolce di tutti i frutti, è indicata la dolcezza che i santi proveranno nella visione di tutta la Trinità. In proposito dice il Profeta: «Quanto grande e profonda è la tua dolcezza, Signore, che tu tieni nascosta per coloro che ti temono» (Sal 30,20). La tieni nascosta perché venga ricercata con più ardore, cercandola venga trovata, e trovatala venga amata intensamente, e con l'amore venga posseduta in eterno.
E ancora: «Nella tua dolcezza, o Dio, hai preparato al povero... « (Sal 67,11). Non dice che cosa ha preparato, perché ciò che ha preparato non può essere detto a parole. Dice infatti l'Apostolo: «Ciò che occhio non vide», perché è nascosto, «né orecchio udì», perché è nel silenzio e non può essere espresso, «né mai entrò nel cuore dell'uomo» perché è incomprensibile (1Cor 2,9), e non può essere contenuto.
Parimenti nelle melagrane è simboleggiata l'unità della chiesa trionfante e la diversità delle ricompense. Le melagrane sono chiamate così perché all'interno hanno dei grani gustosi e profumati. Osserva che, come nelle melagrane tutti i grani sono nascosti sotto la stessa corteccia e tuttavia ogni grano ha la sua piccola cella distinta, così nella vita eterna tutti i santi avranno la stessa gloria, e tuttavia ognuno di essi riceverà una ricompensa più o meno grande, a seconda delle proprie opere. Dice infatti il Signore: «Nella casa del Padre mio», ecco la corteccia, «vi sono molti posti» (Gv 14,2), ecco le celle distinte.
5. Ecco dunque quali sono i cibi che mangeremo in quella grande cena, della quale è detto: «Un uomo imbandì una grande cena».
Quest'uomo è Gesù Cristo, Dio e uomo, che imbandì la grande cena, la cena della penitenza e quella della gloria, alla quale ha chiamato molti, ma alla quale molti anche disdegnano di andare. E perciò dice: «Vi ho chiamato e avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno vi ha fatto attenzione» (Pro 1,24).
Il Verbo del Padre ha chiamato di persona; chiama anche con le parole degli altri, ma gli invitati rifiutano di andare. Stende la sua mano sulla croce, pronto ad elargire tanti doni, ma non c'è chi vi ponga attenzione. Però verrà il tempo in cui della mano stesa farà il pugno, con il quale colpirà senza misericordia (cf. Is 58,4).
Il Signore chiama alla prima cena, cioè alla penitenza. Dice Isaia: «In quel giorno il Signore, Dio degli eserciti, vi chiamava al pianto, al lamento, a radervi il capo e a vestirvi di sacco» (Is 22,12). In questi quattro atti consiste la penitenza. Nel pianto è indicata la contrizione, nel lamento la confessione, nella rasatura del capo la rinuncia alle cose temporali e nella veste di sacco l'esecuzione dell'opera penitenziale ordinata dal sacerdote. A questa cena chiama il Signore, ma non vi vogliono andare coloro che si preparano da se stessi ben altro convito, del quale è detto: «Ecco qual è il loro gaudio e la loro allegria: uccidere vitelli, sgozzare greggi, mangiare carni e bere vino: mangiamo e beviamo, perché domani moriremo!» (Is 22,13).
Parimenti il Signore chiama alla cena della gloria celeste. Leggiamo nel libro di Esdra che Ciro «emanò in tutto il suo regno, a voce e anche con rescritti, quest'ordine: Chi di voi proviene dal popolo del Dio del cielo? Il suo Dio sia con lui; torni a Gerusalemme che è in Giudea, e ricostruisca il tempio del Signore, Dio d'Israele: egli è il Dio che dimora a Gerusalemme» (1Esd 1,1. 3). Ciro s'interpreta «eredità» ed è figura di Gesù Cristo, che è la nostra eredità. Dice infatti il Profeta: «È molto preziosa la mia eredità» (Sal 15,6), cioè più preziosa di tutti gli altri santi. Egli comanda a tutto il popolo di salire alla Gerusalemme celeste «che è costruita come una città» (Sal 121,3) di pietre levigate, cioè delle anime dei giusti. Ma questo popolo risponde con le parole del profeta Aggeo: «Non è ancor giunto il tempo di ricostruire la casa del Signore» (Ag 1,2).
Il Signore, la cui misericordia non si può misurare (cf. Gb 9,10), non chiama soltanto di persona, ma anche per mezzo dei predicatori, secondo ciò che segue nel vangelo: «All'ora della cena mandò il suo servo a dire agli invitati di venire, perché tutto era pronto» (Lc 14,17). E la Glossa aggiunge: L'ora della cena raffigura la fine di questo mondo. Dice infatti l'Apostolo ai Corinzi: Siamo noi coloro «per i quali è arrivata la fine dei tempi» (1Cor 10,11). Al momento di questa fine, a coloro che erano stati invitati per mezzo della Legge e dei Profeti, viene mandato il servo, cioè i predicatori, affinché, ritrattato il rifiuto, si preparino a gustare la cena, perché ormai tutto è pronto. Infatti dopo il sacrificio di Cristo, l'ingresso del regno è aperto. L'apertura del regno è operata dalla passione di Cristo; attraverso questa porta la chiesa, ossia tutti i giusti, entrati alla prima cena e ben disposti per entrare alla seconda, dicono con l'introito della messa di oggi: «Il Signore è divenuto il mio sostegno; egli mi ha portato al largo, mi ha salvato perché mi ha voluto bene» (Sal 17,19-20). Il Signore è divenuto il mio sostegno quando, nella sua passione, ha steso le braccia sulla croce; mi ha portato al largo con l'invio dello Spirito Santo; mi ha salvato dalla devastazione dei nemici perché ha voluto che io entrassi alla cena della vita eterna.
Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell'epistola di oggi, nella quale il beato Giovanni parla ai commensali della cena della vita eterna: «Non meravigliatevi, fratelli, se il mondo vi odia. Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli» (1Gv 3,13-14). Il mondo, cioè gli amanti di questo mondo odiano i cittadini della vita eterna. E non c'è da meravigliarsi, perché odiano anche se stessi. E se uno è cattivo con se stesso, come può essere buono con gli altri? (cf. Eccli 14,5).
E con questo concordano anche le parole del primo libro dei Re: «Saul fu nemico di Davide per tutti i suoi giorni. Da quel giorno in poi Saul non guardò più di buon occhio Davide» (1Re, 18,29.9).
Non meravigliatevi dunque se il mondo vi odia. Noi sappiamo che siamo passati dalla morte del peccato alla vita e alla cena della penitenza perché amiamo i fratelli. L'amore ai fratelli costituisce veramente l'ingresso alla cena della vita eterna.
Fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo che ci introduca alla cena della penitenza, e da essa poi ci faccia passare alla cena della gloria celeste.
Ce lo conceda lui stesso, che è benedetto e glorioso nei secoli dei secoli. Amen.
Quest'uomo è Gesù Cristo, Dio e uomo, che imbandì la grande cena, la cena della penitenza e quella della gloria, alla quale ha chiamato molti, ma alla quale molti anche disdegnano di andare. E perciò dice: «Vi ho chiamato e avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno vi ha fatto attenzione» (Pro 1,24).
Il Verbo del Padre ha chiamato di persona; chiama anche con le parole degli altri, ma gli invitati rifiutano di andare. Stende la sua mano sulla croce, pronto ad elargire tanti doni, ma non c'è chi vi ponga attenzione. Però verrà il tempo in cui della mano stesa farà il pugno, con il quale colpirà senza misericordia (cf. Is 58,4).
Il Signore chiama alla prima cena, cioè alla penitenza. Dice Isaia: «In quel giorno il Signore, Dio degli eserciti, vi chiamava al pianto, al lamento, a radervi il capo e a vestirvi di sacco» (Is 22,12). In questi quattro atti consiste la penitenza. Nel pianto è indicata la contrizione, nel lamento la confessione, nella rasatura del capo la rinuncia alle cose temporali e nella veste di sacco l'esecuzione dell'opera penitenziale ordinata dal sacerdote. A questa cena chiama il Signore, ma non vi vogliono andare coloro che si preparano da se stessi ben altro convito, del quale è detto: «Ecco qual è il loro gaudio e la loro allegria: uccidere vitelli, sgozzare greggi, mangiare carni e bere vino: mangiamo e beviamo, perché domani moriremo!» (Is 22,13).
Parimenti il Signore chiama alla cena della gloria celeste. Leggiamo nel libro di Esdra che Ciro «emanò in tutto il suo regno, a voce e anche con rescritti, quest'ordine: Chi di voi proviene dal popolo del Dio del cielo? Il suo Dio sia con lui; torni a Gerusalemme che è in Giudea, e ricostruisca il tempio del Signore, Dio d'Israele: egli è il Dio che dimora a Gerusalemme» (1Esd 1,1. 3). Ciro s'interpreta «eredità» ed è figura di Gesù Cristo, che è la nostra eredità. Dice infatti il Profeta: «È molto preziosa la mia eredità» (Sal 15,6), cioè più preziosa di tutti gli altri santi. Egli comanda a tutto il popolo di salire alla Gerusalemme celeste «che è costruita come una città» (Sal 121,3) di pietre levigate, cioè delle anime dei giusti. Ma questo popolo risponde con le parole del profeta Aggeo: «Non è ancor giunto il tempo di ricostruire la casa del Signore» (Ag 1,2).
Il Signore, la cui misericordia non si può misurare (cf. Gb 9,10), non chiama soltanto di persona, ma anche per mezzo dei predicatori, secondo ciò che segue nel vangelo: «All'ora della cena mandò il suo servo a dire agli invitati di venire, perché tutto era pronto» (Lc 14,17). E la Glossa aggiunge: L'ora della cena raffigura la fine di questo mondo. Dice infatti l'Apostolo ai Corinzi: Siamo noi coloro «per i quali è arrivata la fine dei tempi» (1Cor 10,11). Al momento di questa fine, a coloro che erano stati invitati per mezzo della Legge e dei Profeti, viene mandato il servo, cioè i predicatori, affinché, ritrattato il rifiuto, si preparino a gustare la cena, perché ormai tutto è pronto. Infatti dopo il sacrificio di Cristo, l'ingresso del regno è aperto. L'apertura del regno è operata dalla passione di Cristo; attraverso questa porta la chiesa, ossia tutti i giusti, entrati alla prima cena e ben disposti per entrare alla seconda, dicono con l'introito della messa di oggi: «Il Signore è divenuto il mio sostegno; egli mi ha portato al largo, mi ha salvato perché mi ha voluto bene» (Sal 17,19-20). Il Signore è divenuto il mio sostegno quando, nella sua passione, ha steso le braccia sulla croce; mi ha portato al largo con l'invio dello Spirito Santo; mi ha salvato dalla devastazione dei nemici perché ha voluto che io entrassi alla cena della vita eterna.
Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell'epistola di oggi, nella quale il beato Giovanni parla ai commensali della cena della vita eterna: «Non meravigliatevi, fratelli, se il mondo vi odia. Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli» (1Gv 3,13-14). Il mondo, cioè gli amanti di questo mondo odiano i cittadini della vita eterna. E non c'è da meravigliarsi, perché odiano anche se stessi. E se uno è cattivo con se stesso, come può essere buono con gli altri? (cf. Eccli 14,5).
E con questo concordano anche le parole del primo libro dei Re: «Saul fu nemico di Davide per tutti i suoi giorni. Da quel giorno in poi Saul non guardò più di buon occhio Davide» (1Re, 18,29.9).
Non meravigliatevi dunque se il mondo vi odia. Noi sappiamo che siamo passati dalla morte del peccato alla vita e alla cena della penitenza perché amiamo i fratelli. L'amore ai fratelli costituisce veramente l'ingresso alla cena della vita eterna.
Fratelli carissimi, preghiamo il Signore Gesù Cristo che ci introduca alla cena della penitenza, e da essa poi ci faccia passare alla cena della gloria celeste.
Ce lo conceda lui stesso, che è benedetto e glorioso nei secoli dei secoli. Amen.
II. LE SCUSE DEGLI INVITATI
6. «Ma tutti, all'unanimità, incominciarono a scusarsi. Il primo disse: Ho comperato un podere e devo andare a vederlo; ti prego, considerami giustificato. Il secondo disse: Ho comperato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego, considerami giustificato. Il terzo disse: Ho preso moglie e perciò non posso venire. Il servo, al suo ritorno, riferì tutto questo al suo padrone» (Lc 14,18-21).
Fa' attenzione a queste tre cose: il podere, le cinque paia di buoi e la moglie.
«Ho comperato un podere, (alla lett. ) una villa. Villa viene da vallo, cioè argine, terrapieno, o fossa, ed è figura della voglia sfrenata di dominare, della quale il beato Bernardo dice: «Non temo il fuoco, non temo la spada, quanto invece temo la voglia sfrenata di dominio»: coloro che ne sono ossessionati, procedono come attorniati dal terrapieno delle ricchezze e dei beni terreni.
È quello stesso podere, chiamato Getsèmani (cf. Mt 26,36), nel quale Gesù fu tradito e catturato. Getsèmani s'interpreta «valle ingrassata» (ben concimata). Scende a valle il letame (la grassa) con il quale viene concimata. Quindi nella valle (podere) del Getsèmani, cioè in coloro che ardono dalla brama di dominare sugli altri, e non di giovare ad essi, e che se stanno tranquilli nella valle, vale a dire nei piaceri della carne, ingrassati come porci tra gli escrementi delle cose temporali, viene tradito Cristo, viene cioè distrutta la fede in Gesù Cristo. Infatti la fede rifiuta le cose temporali, non brama il dominio, desidera stare sottomessa, cresce in mezzo alle ingiurie. E questa villa (podere) del Getsèmani viene comperata, mentre non si dovrebbe accettarla neppure gratis, perché costringe ad uscire dall'interiore contemplazione di Dio e ad ingolfarsi nelle preoccupazioni esteriori.
E concorda con tutto questo ciò che leggiamo nel primo libro dei Re, dove si racconta che l'arca dell'alleanza del Signore degli eserciti, assiso sopra i cherubini, arrivò negli accampamenti e fu catturata dai filistei (cf. 1Re 4,4-11). L'arca è figura dell'uomo contemplativo, nel quale c'è la manna della soavità, le tavole della duplice legge dell'amore e la verga della correzione. Il contemplativo è chiamato «arca dell'alleanza del Signore»; con il Signore infatti ha concluso il patto di servirlo in perpetuo; e il Signore è assiso sui cherubini (Sal 79,2), nome che s'interpreta «pienezza della scienza»: è assiso cioè su quell'anima che è ricolma di amore. Infatti «la pienezza della legge è l'amore» (Rm 13,10). Quest'arca, sotto la spinta dei peccati, esce dal rifugio del volto di Dio, esce dal Santo dei santi e s'inoltra tra gli accampamenti, compera una villa e brama il dominio. Mentre così s'innalza, viene catturata dai demoni e portata ad Azoto, che s'interpreta «incendio», e simboleggia il fuoco della concupiscenza carnale. Dice dunque il primo invitato: «Ho comperato una villa».
Fa' attenzione a queste tre cose: il podere, le cinque paia di buoi e la moglie.
«Ho comperato un podere, (alla lett. ) una villa. Villa viene da vallo, cioè argine, terrapieno, o fossa, ed è figura della voglia sfrenata di dominare, della quale il beato Bernardo dice: «Non temo il fuoco, non temo la spada, quanto invece temo la voglia sfrenata di dominio»: coloro che ne sono ossessionati, procedono come attorniati dal terrapieno delle ricchezze e dei beni terreni.
È quello stesso podere, chiamato Getsèmani (cf. Mt 26,36), nel quale Gesù fu tradito e catturato. Getsèmani s'interpreta «valle ingrassata» (ben concimata). Scende a valle il letame (la grassa) con il quale viene concimata. Quindi nella valle (podere) del Getsèmani, cioè in coloro che ardono dalla brama di dominare sugli altri, e non di giovare ad essi, e che se stanno tranquilli nella valle, vale a dire nei piaceri della carne, ingrassati come porci tra gli escrementi delle cose temporali, viene tradito Cristo, viene cioè distrutta la fede in Gesù Cristo. Infatti la fede rifiuta le cose temporali, non brama il dominio, desidera stare sottomessa, cresce in mezzo alle ingiurie. E questa villa (podere) del Getsèmani viene comperata, mentre non si dovrebbe accettarla neppure gratis, perché costringe ad uscire dall'interiore contemplazione di Dio e ad ingolfarsi nelle preoccupazioni esteriori.
E concorda con tutto questo ciò che leggiamo nel primo libro dei Re, dove si racconta che l'arca dell'alleanza del Signore degli eserciti, assiso sopra i cherubini, arrivò negli accampamenti e fu catturata dai filistei (cf. 1Re 4,4-11). L'arca è figura dell'uomo contemplativo, nel quale c'è la manna della soavità, le tavole della duplice legge dell'amore e la verga della correzione. Il contemplativo è chiamato «arca dell'alleanza del Signore»; con il Signore infatti ha concluso il patto di servirlo in perpetuo; e il Signore è assiso sui cherubini (Sal 79,2), nome che s'interpreta «pienezza della scienza»: è assiso cioè su quell'anima che è ricolma di amore. Infatti «la pienezza della legge è l'amore» (Rm 13,10). Quest'arca, sotto la spinta dei peccati, esce dal rifugio del volto di Dio, esce dal Santo dei santi e s'inoltra tra gli accampamenti, compera una villa e brama il dominio. Mentre così s'innalza, viene catturata dai demoni e portata ad Azoto, che s'interpreta «incendio», e simboleggia il fuoco della concupiscenza carnale. Dice dunque il primo invitato: «Ho comperato una villa».
7. «E devo uscire a vederla». Fa' attenzione a questa parola: «devo». Chi acquista la villa del dominio terreno, si carica di obblighi e di costrizioni; era libero, e si è reso schiavo di una deplorevole schiavitù. Così fu di Saul che, come narra il primo libro dei Re, spinto dalla necessità, andò in cerca di un'indovina (pitonessa) che si trovava a Endor, e le disse: «Vi sono costretto (a ricorrere a un'indovina). I filistei combattono contro di me, e Dio si è allontanato da me e non ha voluto esaudirmi» (1Re 28,15).
La villa e l'indovina simboleggiano la stessa cosa. Endor s'interpreta «sorgente della generazione», e con ciò intendiamo Adamo che fu la sorgente e l'origine della stirpe umana. Egli, pagato come prezzo il paradiso a danno della sua anima, volle comperare la villa del dominio, dando ascolto alla falsa promessa del serpente: «Sarete come dèi» (Gn 3,5). Perciò quelli che cercano il dominio, camminano secondo l'uomo vecchio e non secondo l'uomo nuovo, Gesù Cristo (cf. Col 3,9-10), il quale, come racconta Giovanni, quando si accorse che stavano arrivando degli uomini per rapirlo e proclamarlo re, fuggì sul monte (cf. Gv 6,15). Dicono alcuni che il termine «pitone» indichi il potere di risuscitare i morti e quindi la donna che ha questo potere si chiama pitonessa. Ahimè, quanti sono i religiosi, morti al mondo, sepolti nei chiostri, che questa pitonessa, cioè la brama del dominio, ha destato dal sonno della contemplazione, del silenzio e della pace, e li ha portati fuori in pubblico! Per questo Isaia dice: «Sarai umiliato, parlerai dalla terra, e dalla polvere si sentiranno le tue parole; e dalla terra uscirà la tua voce come quella della pitonessa, e dalla polvere la tua parola sarà come un bisbiglio» (Is 29,4).
Ecco che cosa accade a colui che compera la villa, che consulta la pitonessa ed esce dal sepolcro del silenzio: «sarai umiliato», cioè sarai precipitato mentre credi di salire; «della terra», cioè delle cose terrene «parlerai», tu che prima eri solito parlare delle cose celesti; «e dalla polvere», cioè dal ventre e dalla gola ancora impregnata di cibi e di bevande, «si sentiranno le tue parole» che prima facevi uscire dalla soavità della tua mente e dall'astinenza della gola; «e la tua voce» che prima era di rinuncia e di umiltà, ora è «della terra come quella della pitonessa», parla cioè di prelature e di dignità; «e dalla polvere la tua parola sarà come un bisbiglio», cioè mormorerà, tu che prima avevi riposto la tua fortezza nel silenzio e nella speranza (cf. Is 30,15). Ecco dunque quale costrizione e quanta perversità! È sempre il primo invitato dunque che dice: Ho comperato una villa e devo uscire per andare a vederla. «Devo uscire». A proposito troviamo nella Genesi che Esaù, coltivatore della terra, uscì per andare a caccia, mentre Giacobbe, uomo semplice, restando nella tenda tranquillo con i suoi pensieri, gli portò via la benedizione (cf. Gn 25, 27-33). Così quando uno, spinto dalla brama delle cose temporali, va alla ricerca di una villa, o va a consultare un'indovina, ed esce così dalla tranquillità della sua mente, senza dubbio viene privato della benedizione eterna. «Devo uscire - dice - per andare a vederla», come dicesse: voglio vederla almeno una volta, prima di morire. Questo è l'unico frutto delle ricchezze. Infatti dice l'Ecclesiastico: «Dove ci sono molte ricchezze, ci sono anche molti che le divorano; e che vantaggio ne ha il proprietario, se non quello di contemplarle con i propri occhi?» (Eccle 5,10).
Ecco, ora sai chiaramente che chi compera la villa del potere terreno non va alla cena del Signore, ma accampando una falsa scusa dice: «Ti prego, considerami giustificato». Nella voce c'è il suono dell'umiltà quando dice «ti prego», ma nel senso e nel sentimento c'è la superbia perché si rifiuta di andare. Così succede spesso che si dice al giusto: Prega per me, che sono un peccatore! In queste parole c'è appunto il suono dell'umiltà, perché si domanda la preghiera; ma resta poi la superbia nel cuore perché non ci si allontana dal peccato. E con questo concorda ciò che troviamo nel primo libro dei Re, dove si racconta che Saul disse a Samuele: «Ora, ti prego, perdona il mio peccato, e torna indietro con me, affinché io adori il Signore» (1Re 15,25).
La villa e l'indovina simboleggiano la stessa cosa. Endor s'interpreta «sorgente della generazione», e con ciò intendiamo Adamo che fu la sorgente e l'origine della stirpe umana. Egli, pagato come prezzo il paradiso a danno della sua anima, volle comperare la villa del dominio, dando ascolto alla falsa promessa del serpente: «Sarete come dèi» (Gn 3,5). Perciò quelli che cercano il dominio, camminano secondo l'uomo vecchio e non secondo l'uomo nuovo, Gesù Cristo (cf. Col 3,9-10), il quale, come racconta Giovanni, quando si accorse che stavano arrivando degli uomini per rapirlo e proclamarlo re, fuggì sul monte (cf. Gv 6,15). Dicono alcuni che il termine «pitone» indichi il potere di risuscitare i morti e quindi la donna che ha questo potere si chiama pitonessa. Ahimè, quanti sono i religiosi, morti al mondo, sepolti nei chiostri, che questa pitonessa, cioè la brama del dominio, ha destato dal sonno della contemplazione, del silenzio e della pace, e li ha portati fuori in pubblico! Per questo Isaia dice: «Sarai umiliato, parlerai dalla terra, e dalla polvere si sentiranno le tue parole; e dalla terra uscirà la tua voce come quella della pitonessa, e dalla polvere la tua parola sarà come un bisbiglio» (Is 29,4).
Ecco che cosa accade a colui che compera la villa, che consulta la pitonessa ed esce dal sepolcro del silenzio: «sarai umiliato», cioè sarai precipitato mentre credi di salire; «della terra», cioè delle cose terrene «parlerai», tu che prima eri solito parlare delle cose celesti; «e dalla polvere», cioè dal ventre e dalla gola ancora impregnata di cibi e di bevande, «si sentiranno le tue parole» che prima facevi uscire dalla soavità della tua mente e dall'astinenza della gola; «e la tua voce» che prima era di rinuncia e di umiltà, ora è «della terra come quella della pitonessa», parla cioè di prelature e di dignità; «e dalla polvere la tua parola sarà come un bisbiglio», cioè mormorerà, tu che prima avevi riposto la tua fortezza nel silenzio e nella speranza (cf. Is 30,15). Ecco dunque quale costrizione e quanta perversità! È sempre il primo invitato dunque che dice: Ho comperato una villa e devo uscire per andare a vederla. «Devo uscire». A proposito troviamo nella Genesi che Esaù, coltivatore della terra, uscì per andare a caccia, mentre Giacobbe, uomo semplice, restando nella tenda tranquillo con i suoi pensieri, gli portò via la benedizione (cf. Gn 25, 27-33). Così quando uno, spinto dalla brama delle cose temporali, va alla ricerca di una villa, o va a consultare un'indovina, ed esce così dalla tranquillità della sua mente, senza dubbio viene privato della benedizione eterna. «Devo uscire - dice - per andare a vederla», come dicesse: voglio vederla almeno una volta, prima di morire. Questo è l'unico frutto delle ricchezze. Infatti dice l'Ecclesiastico: «Dove ci sono molte ricchezze, ci sono anche molti che le divorano; e che vantaggio ne ha il proprietario, se non quello di contemplarle con i propri occhi?» (Eccle 5,10).
Ecco, ora sai chiaramente che chi compera la villa del potere terreno non va alla cena del Signore, ma accampando una falsa scusa dice: «Ti prego, considerami giustificato». Nella voce c'è il suono dell'umiltà quando dice «ti prego», ma nel senso e nel sentimento c'è la superbia perché si rifiuta di andare. Così succede spesso che si dice al giusto: Prega per me, che sono un peccatore! In queste parole c'è appunto il suono dell'umiltà, perché si domanda la preghiera; ma resta poi la superbia nel cuore perché non ci si allontana dal peccato. E con questo concorda ciò che troviamo nel primo libro dei Re, dove si racconta che Saul disse a Samuele: «Ora, ti prego, perdona il mio peccato, e torna indietro con me, affinché io adori il Signore» (1Re 15,25).
8. «Il secondo invitato disse: Ho comperato cinque paia di buoi e vado a provarli» (Lc 14,19). Osserva che nelle cinque paia di buoi vediamo raffigurati i cinque sensi del corpo. Infatti, come i buoi vengono appaiati sotto il giogo, così anche i nostri sensi funzionano con un doppio organo: due sono gli orecchi, due gli occhi, due le narici; per il gusto abbiamo la lingua e il palato; per il tatto le due mani. Questi sono i dieci «prìncipi» dei quali parla Salomone: «La sapienza rende il saggio più forte di dieci prìncipi della città» (Eccle 7,20). La sapienza, così chiamata da «sapore», consiste nell'amore e nella contemplazione di Dio, il quale sostiene il sapiente, cioè l'anima che gusta il sapore dell'amore più di dieci prìncipi della città, cioè più di tutti i piaceri che possono provenire dai «dieci» sensi (dieci organi di senso) del corpo. La sapienza appaga e sazia completamente, mentre il piacere lascia il vuoto. La sapienza procura dolcezza, il piacere lascia l'amarezza. Chi serve la sapienza è libero, chi serve il piacere è un misero schiavo.
Quindi compera cinque paia di buoi colui che, con un disgraziato affare, disprezzato il gusto dell'amore divino, con deplorevole schiavitù si sottomette al miserabile piacere dei cinque sensi. Magari l'uomo prendesse su di sé il giogo del Signore, che è piacevole (cf. Mt 11,29-30), e non quello del diavolo che è duro e pesante, e del quale Isaia dice: «Tu hai spezzato il suo giogo opprimente, la verga sulle sue spalle, e il bastone dell'aguzzino, come al tempo di Madian» (Is 9,4).
Ecco come concordano tra loro le parole del vangelo con quelle di Isaia. Dove il vangelo dice villa, Isaia dice verga; e dove il vangelo dice paia di buoi, Isaia dice giogo opprimente; e dove il vangelo dice moglie, Isaia dice bastone.
Come Gedeone, che s'interpreta «che gira nel grembo», sconfisse Madian con trecento uomini - come racconta il libro dei Giudici - armati solo di trombe e di lanterne (cf. Gdc 7,15-16), così il penitente, che deve girare nel grembo, cioè pentirsi sempre nella sua mente dei peccati che ha commesso e dei peccati di omissione, deve liberarsi dall'opprimente giogo del diavolo con trecento combattenti, vale a dire con la fede nella santa Trinità, con le trombe della confessione e le lucerne di una congrua penitenza; deve cioè rifuggire dal piacere dei cinque sensi, con il quale il diavolo opprime l'anima; deve liberare la spalla dalla sua verga, cioè dalla brama del dominio con il quale il diavolo tormenta l'uomo, come il contadino pungola il suo asino; deve liberarsi dal bastone dell'aguzzino, cioè dalla tracotanza della carne, che si manifesta con la gola e con la lussuria. Il bastone che comanda è la lussuria, che purtroppo spadroneggia quasi su tutti. L'aguzzino è la gola, la quale ogni giorno, sotto il pretesto della necessità, si abbandona al piacere del gusto.
Quindi compera cinque paia di buoi colui che, con un disgraziato affare, disprezzato il gusto dell'amore divino, con deplorevole schiavitù si sottomette al miserabile piacere dei cinque sensi. Magari l'uomo prendesse su di sé il giogo del Signore, che è piacevole (cf. Mt 11,29-30), e non quello del diavolo che è duro e pesante, e del quale Isaia dice: «Tu hai spezzato il suo giogo opprimente, la verga sulle sue spalle, e il bastone dell'aguzzino, come al tempo di Madian» (Is 9,4).
Ecco come concordano tra loro le parole del vangelo con quelle di Isaia. Dove il vangelo dice villa, Isaia dice verga; e dove il vangelo dice paia di buoi, Isaia dice giogo opprimente; e dove il vangelo dice moglie, Isaia dice bastone.
Come Gedeone, che s'interpreta «che gira nel grembo», sconfisse Madian con trecento uomini - come racconta il libro dei Giudici - armati solo di trombe e di lanterne (cf. Gdc 7,15-16), così il penitente, che deve girare nel grembo, cioè pentirsi sempre nella sua mente dei peccati che ha commesso e dei peccati di omissione, deve liberarsi dall'opprimente giogo del diavolo con trecento combattenti, vale a dire con la fede nella santa Trinità, con le trombe della confessione e le lucerne di una congrua penitenza; deve cioè rifuggire dal piacere dei cinque sensi, con il quale il diavolo opprime l'anima; deve liberare la spalla dalla sua verga, cioè dalla brama del dominio con il quale il diavolo tormenta l'uomo, come il contadino pungola il suo asino; deve liberarsi dal bastone dell'aguzzino, cioè dalla tracotanza della carne, che si manifesta con la gola e con la lussuria. Il bastone che comanda è la lussuria, che purtroppo spadroneggia quasi su tutti. L'aguzzino è la gola, la quale ogni giorno, sotto il pretesto della necessità, si abbandona al piacere del gusto.
9. E anche su questo abbiamo la concordanza del primo libro dei Re, dove si racconta che «Nacas l'ammonita si mosse e incominciò a combattere contro Iabes di Galaad. Allora gli uomini di Iabes dissero a Nacas: Consideraci tuoi alleati e noi ti serviremo. Ma Nacas rispose loro: Con voi farò solo questo patto: di cavare a tutti voi l'occhio destro e fare così di voi l'obbrobrio davanti a tutto il popolo d'Israele» (1Re 11,1-2). E aggiunge: «All'udire quelle parole, lo Spirito del Signore investì Saul, che si sentì riempire di furore. Prese un paio di buoi e li fece a pezzi» (1Re 11,6-7).
Nacas s'interpreta «serpente», nome che si addice perfettamente al diavolo, il quale, sotto forma di serpente, ingannò i nostri progenitori. Ammoniti s'interpreta «popolo afflitto», o «oppressore», oppure «che dà angoscia». Nacas dunque è il re degli Ammoniti, perché l'antico serpente, cioè satana, è il principe dei malvagi, i quali sono nell'afflizione della tristezza, la quale - secondo l'Apostolo - produce la morte (cf. 2Cor 7,10). I malvagi dunque opprimono i giusti e riempiono di sofferenze la vita dei santi. Dice infatti l'Ecclesiastico: Ciò che fa la fornace all'oro, la lima al ferro, il correggiato1 al grano, lo fa la tribolazione al giusto (cf. Eccli 27,6; Pro 27,17. 21).
L'empio vive per il profitto, per il vantaggio spirituale del giusto, perché la compagnia dei cattivi è come la graticola, il tormento dei buoni.
Nacas dunque combatte contro Iabes di Galaad. Iabes s'interpreta «disseccata», e Galaad «cumulo di testimonianze». Qui è simboleggiata l'anima che deve dapprima essere disseccata dei vizi e quindi venir riempita delle testimonianze della passione del Signore. Nacas combatte contro gli uomini di Iabes a Galaad per strappare ad essi l'occhio destro, ben sapendo che, senza quell'occhio, tutti saranno resi molto meno abili al combattimento. L'occhio destro simboleggia lo sguardo critico, lo sguardo del giudizio; il diavolo tenta di strapparlo e di lasciare invece l'occhio sinistro, quello dell'amore mondano, sapendo bene che coloro che non aspirano ai beni eterni ricercano la prosperità di questo mondo: e chi è trattenuto dalle cose terrene, facilmente viene sconfitto nella lotta per salvezza.
Chi vuole liberare la sua anima dall'assedio e dalla devastazione del diavolo, è necessario che faccia quanto segue: «E lo Spirito del Signore investì Saul... «. Saul s'interpreta «unto», consacrato, che all'inizio del suo regno, quando liberò la città di Galaad, era buono, e quindi è figura del giusto, unto con la grazia di Dio; il giusto, quando lo Spirito del Signore, cioè la contrizione del cuore, lo investe, si infuria contro i suoi peccati passati, e taglia a pezzi tutti e due i buoi. I due buoi simboleggiano i due occhi, i due orecchi, e così via. Taglia a pezzi i due buoi colui che consuma di lacrime gli occhi, con i quali ha concupito le cose illecite. Fa a pezzi i due buoi colui che custodisce gli orecchi perché non ascoltino più le calunnie o le adulazioni, e li circonda come di una siepe di spine. E così fa anche con gli altri sensi, affinché quanti sono stati i piaceri ai quali si è abbandonato, tanti siano i sacrifici che fa di se stesso.
Nacas s'interpreta «serpente», nome che si addice perfettamente al diavolo, il quale, sotto forma di serpente, ingannò i nostri progenitori. Ammoniti s'interpreta «popolo afflitto», o «oppressore», oppure «che dà angoscia». Nacas dunque è il re degli Ammoniti, perché l'antico serpente, cioè satana, è il principe dei malvagi, i quali sono nell'afflizione della tristezza, la quale - secondo l'Apostolo - produce la morte (cf. 2Cor 7,10). I malvagi dunque opprimono i giusti e riempiono di sofferenze la vita dei santi. Dice infatti l'Ecclesiastico: Ciò che fa la fornace all'oro, la lima al ferro, il correggiato1 al grano, lo fa la tribolazione al giusto (cf. Eccli 27,6; Pro 27,17. 21).
L'empio vive per il profitto, per il vantaggio spirituale del giusto, perché la compagnia dei cattivi è come la graticola, il tormento dei buoni.
Nacas dunque combatte contro Iabes di Galaad. Iabes s'interpreta «disseccata», e Galaad «cumulo di testimonianze». Qui è simboleggiata l'anima che deve dapprima essere disseccata dei vizi e quindi venir riempita delle testimonianze della passione del Signore. Nacas combatte contro gli uomini di Iabes a Galaad per strappare ad essi l'occhio destro, ben sapendo che, senza quell'occhio, tutti saranno resi molto meno abili al combattimento. L'occhio destro simboleggia lo sguardo critico, lo sguardo del giudizio; il diavolo tenta di strapparlo e di lasciare invece l'occhio sinistro, quello dell'amore mondano, sapendo bene che coloro che non aspirano ai beni eterni ricercano la prosperità di questo mondo: e chi è trattenuto dalle cose terrene, facilmente viene sconfitto nella lotta per salvezza.
Chi vuole liberare la sua anima dall'assedio e dalla devastazione del diavolo, è necessario che faccia quanto segue: «E lo Spirito del Signore investì Saul... «. Saul s'interpreta «unto», consacrato, che all'inizio del suo regno, quando liberò la città di Galaad, era buono, e quindi è figura del giusto, unto con la grazia di Dio; il giusto, quando lo Spirito del Signore, cioè la contrizione del cuore, lo investe, si infuria contro i suoi peccati passati, e taglia a pezzi tutti e due i buoi. I due buoi simboleggiano i due occhi, i due orecchi, e così via. Taglia a pezzi i due buoi colui che consuma di lacrime gli occhi, con i quali ha concupito le cose illecite. Fa a pezzi i due buoi colui che custodisce gli orecchi perché non ascoltino più le calunnie o le adulazioni, e li circonda come di una siepe di spine. E così fa anche con gli altri sensi, affinché quanti sono stati i piaceri ai quali si è abbandonato, tanti siano i sacrifici che fa di se stesso.
10. Il terzo invitato si scusò dicendo: «Ho preso moglie, e quindi non posso venire» (Lc 14,20).
Non è certo il matrimonio, bensì il cattivo uso del matrimonio che tiene molti lontano e li distoglie dal partecipare alla cena del Signore. Infatti molti contraggono matrimonio non in vista della fecondità della prole, ma solo per i desideri della carne. Quindi è necessario ricordarsi che si deve prender moglie per tre scopi.
Primo, per procreare della prole, come dice la Genesi: «Crescete e moltiplicatevi» (Gn 1,28).
Secondo, per avere un aiuto; dice sempre la Genesi: «Non è bene che l'uomo sia solo: facciamogli un aiuto che gli sia simile» (Gn 2,18).
Terzo, a motivo dell'incontinenza; dice l'Apostolo: Se uno non è in grado di vivere in continenza, si sposi, purché ciò sia fatto nel Signore (cf. 1Cor 7,9. 39). Chi prende moglie per altri scopi, che non siano questi, guai a lui! Inoltre, benché il matrimonio sia in se stesso un bene, tuttavia comporta delle difficoltà e dei pericoli. Dice infatti l'Apostolo nella prima lettera ai Corinzi: «Chi è sposato si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso» (1Cor 7,33) tra due «preoccupazioni»: quella che riguarda Dio e quella che riguarda la moglie. È difficile procedere nel giusto mezzo, e dividersi così perfettamente tra due impegni, in modo che nessuno dei due venga trascurato. Sta scritto infatti nel primo libro dei Re che «furono fatte prigioniere due mogli di Davide, e Davide ne fu grandemente rattristato» (1Re 30,5. 6). Se non avesse avuto le mogli, senza dubbio non avrebbe sofferto così tanto. Osserva che, in questo passo del vangelo, per moglie s'intende la lussuria della carne: di essa il vangelo non dice che la comperò, ma che la «prese»: questo perché ogni peccatore fin dal principio della sua esistenza ha con sé la tendenza al peccato della carne.
Ma si domanda: come mai i due primi invitati pregarono di essere ritenuti giustificati, mentre il terzo non lo fece per niente? A questo proposito si deve dire che la passione carnale tiene l'uomo avvinto ai piaceri in modo tale che non desidera per nulla andare alla felicità eterna, e neppure si preoccupa di scusarsi; e così è chiaro che non ama per nulla Dio, quel Dio che invitato dalle preghiere dei padri dell'Antico Testamento ad unire a sé la natura umana, venne benignamente alle nozze.
Ecco che con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell'epistola: «Da questo abbiamo conosciuto l'amore di Dio (Figlio); egli ha dato la sua vita per noi; e quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1Gv 3,16). Fa' attenzione, perché Giovanni tocca qui tre argomenti, cioè Dio, noi e i fratelli. Chi ama Dio non compera la villa del dominio; chi ama la sua anima si libera dal giogo dei cinque sensi; chi ama il prossimo, per il quale è tenuto a dare la vita, non prende certo «moglie» di lussuria, con la quale offenderebbe e scandalizzerebbe il prossimo stesso.
Ti preghiamo dunque, Signore Gesù, di togliere da noi la villa di ogni potere umano, di aiutarci a fuggire i piaceri dei cinque sensi, e a vivere senza la maledetta moglie della concupiscenza, per essere così liberi di entrare alla tua cena. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
Non è certo il matrimonio, bensì il cattivo uso del matrimonio che tiene molti lontano e li distoglie dal partecipare alla cena del Signore. Infatti molti contraggono matrimonio non in vista della fecondità della prole, ma solo per i desideri della carne. Quindi è necessario ricordarsi che si deve prender moglie per tre scopi.
Primo, per procreare della prole, come dice la Genesi: «Crescete e moltiplicatevi» (Gn 1,28).
Secondo, per avere un aiuto; dice sempre la Genesi: «Non è bene che l'uomo sia solo: facciamogli un aiuto che gli sia simile» (Gn 2,18).
Terzo, a motivo dell'incontinenza; dice l'Apostolo: Se uno non è in grado di vivere in continenza, si sposi, purché ciò sia fatto nel Signore (cf. 1Cor 7,9. 39). Chi prende moglie per altri scopi, che non siano questi, guai a lui! Inoltre, benché il matrimonio sia in se stesso un bene, tuttavia comporta delle difficoltà e dei pericoli. Dice infatti l'Apostolo nella prima lettera ai Corinzi: «Chi è sposato si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso» (1Cor 7,33) tra due «preoccupazioni»: quella che riguarda Dio e quella che riguarda la moglie. È difficile procedere nel giusto mezzo, e dividersi così perfettamente tra due impegni, in modo che nessuno dei due venga trascurato. Sta scritto infatti nel primo libro dei Re che «furono fatte prigioniere due mogli di Davide, e Davide ne fu grandemente rattristato» (1Re 30,5. 6). Se non avesse avuto le mogli, senza dubbio non avrebbe sofferto così tanto. Osserva che, in questo passo del vangelo, per moglie s'intende la lussuria della carne: di essa il vangelo non dice che la comperò, ma che la «prese»: questo perché ogni peccatore fin dal principio della sua esistenza ha con sé la tendenza al peccato della carne.
Ma si domanda: come mai i due primi invitati pregarono di essere ritenuti giustificati, mentre il terzo non lo fece per niente? A questo proposito si deve dire che la passione carnale tiene l'uomo avvinto ai piaceri in modo tale che non desidera per nulla andare alla felicità eterna, e neppure si preoccupa di scusarsi; e così è chiaro che non ama per nulla Dio, quel Dio che invitato dalle preghiere dei padri dell'Antico Testamento ad unire a sé la natura umana, venne benignamente alle nozze.
Ecco che con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell'epistola: «Da questo abbiamo conosciuto l'amore di Dio (Figlio); egli ha dato la sua vita per noi; e quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1Gv 3,16). Fa' attenzione, perché Giovanni tocca qui tre argomenti, cioè Dio, noi e i fratelli. Chi ama Dio non compera la villa del dominio; chi ama la sua anima si libera dal giogo dei cinque sensi; chi ama il prossimo, per il quale è tenuto a dare la vita, non prende certo «moglie» di lussuria, con la quale offenderebbe e scandalizzerebbe il prossimo stesso.
Ti preghiamo dunque, Signore Gesù, di togliere da noi la villa di ogni potere umano, di aiutarci a fuggire i piaceri dei cinque sensi, e a vivere senza la maledetta moglie della concupiscenza, per essere così liberi di entrare alla tua cena. Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
III. L'INGRESSO ALLA CENA DI COLORO CHE IL MONDO DISPREZZA
11. «Allora il padrone di casa, irritato, disse al servo: Esci subito per le piazze e per le vie della città e conduci qui poveri, deboli, ciechi e zoppi» (Lc 14,21). Poiché i tre primi invitati si sono rifiutati di andare alla cena del Signore, viene mandato il servo per far entrare poveri, deboli, ciechi e zoppi. Raramente peccano coloro che non si trovano tra gli allettamenti del peccato, e più prontamente si convertono alla grazia coloro che non hanno in questo mondo nulla di cui godere. Benedetta perciò è quella miseria che conduce alle cose migliori, e beata quella oscurità che produce poi lo splendore. Infatti coloro che non dispongono di abbondanza di beni terreni, come i poveri, che sono senza salute fisica, come i deboli, i ciechi e gli zoppi, ai quali manca anche l'incentivo a peccare, con maggior facilità vengono introdotti alla cena del Signore.
Concorda con questo ciò che leggiamo nel primo libro dei Re, dove si racconta che un giovane egiziano, schiavo di un amalecita, era stato abbandonato nel deserto dal suo padrone, perché si era ammalato. E Davide lo aveva trovato, lo aveva rifocillato e poi assunto come guida nei suoi viaggi (cf. 1Re 30,11-15). Il giovane egiziano è figura di colui che ama questo mondo. Egli, coperto dalla negrezza dei suoi peccati, quando non è più in grado di correre, con le opere mondane, insieme con il mondo che corre, viene dal mondo disprezzato e abbandonato nella sua infermità. Cristo lo ritrova - perché, coloro che il mondo abbandona con disprezzo, egli li converte al suo amore, li ristora con il cibo della parola di Dio - e lo elegge come guida del suo cammino perché, non di rado, il Signore lo fa suo predicatore e apostolo.
E osserva che nel vangelo non senza motivo sono nominate in particolare queste quattro categorie di sfortunati, cioè i poveri, i deboli, i ciechi e gli zoppi.
Il povero è così chiamato perché poco può e poco ha. Il debole deve questo nome alla bile, debilis, che lo ha reso cagionevole di salute: la bile infatti è una secrezione del fiele, che influisce dannosamente sul corpo; di qui viene debolezza e debilitare, cioè rendere debole. Il cieco è privo della vista, e nessuno dei suoi due occhi è in grado di vedere. Lo zoppo è così chiamato perché è come chiuso (lat. claudus, clausus), cioè impedito nel camminare. In queste quattro categorie di infermi sono raffigurati coloro che sono schiavi dei quattro vizi dell'avarizia, dell'ira, della lussuria e della superbia.
L'avaro è povero: non è lui che comanda a se stesso, ma è il denaro che lo domina; non è possessore ma posseduto, e anche quando ha molto, è sempre convinto di avere troppo poco. Di lui dice il Filosofo: «Colui al quale i suoi averi non sembrano mai troppo grandi, anche se è padrone di tutto il mondo, è un miserabile». E anche: «Non reputo povero colui che, per quanto poco abbia, quel poco gli basta» (Seneca).
Il debole raffigura l'iracondo il quale, intriso dell'amarezza del fiele, s'infiamma d'ira e in questo stato è incapace di operare la giustizia di Dio (cf. Gc 1,20). Di lui dice Giobbe: «La collera fa morire l'insensato» (Gb 5,2).
Il cieco raffigura il lussurioso, che è privo della vista della grazia; è privo della vista di entrambi gli occhi, cioè della ragione e dell'intelletto.
Lo zoppo raffigura il superbo che non è in grado di camminare rettamente sulla via dell'umiltà.
Di questi vizi, e di altri simili, dice sempre il Filosofo: «Si deve evitare ad ogni costo e si deve strappare e separare col ferro e col fuoco, e con ogni altro mezzo, il languore dal corpo, l'ignoranza dalla mente, la lussuria dal ventre, la sedizione dalla città e l'incoerenza dall'uomo». Queste quattro categorie di peccatori, trattenuti nelle piazze, cioè dal piacere della carne, e nelle vie, cioè dalle vanità del mondo, il Signore misericordioso li chiama, per mezzo dei predicatori della santa chiesa, alla cena della patria celeste.
Osserva ancora che la terza volta il padrone dice al servo: «Esci per le strade e lungo le siepi, e spingili ad entrare, perché la mia casa si riempia» (Lc 14,23). Questi che sono spinti ad entrare raffigurano coloro che vengono spronati ad entrare alla cena del Signore dai castighi e dalle avversità. Dice infatti Osea: «Ecco, io le sbarrerò di spine la strada e ne cingerò il recinto di barriere e non ritroverà i suoi sentieri; inseguirà i suoi amanti ma non li raggiungerà, li cercherà ma non li ritroverà. E allora dirà: Ritornerò al mio sposo di prima, perché allora ero molto più felice di adesso» (Os 2,6-7).
Il Signore sbarra con la siepe delle avversità e lo steccato della malattia le vie, cioè le opere cattive dell'anima peccatrice, con le quali essa corre dietro ai suoi amanti, cioè ai demoni: e il Signore fa questo perché si converta e ritorni al suo primo Sposo. Avendo sperimentato la dolcezza del suo amore, deve ammettere che era infinitamente più felice quando fruiva della sua contemplazione, che non ora, che abusa della miserabile voluttà della carne.
Concorda con questo ciò che leggiamo nel primo libro dei Re, dove si racconta che un giovane egiziano, schiavo di un amalecita, era stato abbandonato nel deserto dal suo padrone, perché si era ammalato. E Davide lo aveva trovato, lo aveva rifocillato e poi assunto come guida nei suoi viaggi (cf. 1Re 30,11-15). Il giovane egiziano è figura di colui che ama questo mondo. Egli, coperto dalla negrezza dei suoi peccati, quando non è più in grado di correre, con le opere mondane, insieme con il mondo che corre, viene dal mondo disprezzato e abbandonato nella sua infermità. Cristo lo ritrova - perché, coloro che il mondo abbandona con disprezzo, egli li converte al suo amore, li ristora con il cibo della parola di Dio - e lo elegge come guida del suo cammino perché, non di rado, il Signore lo fa suo predicatore e apostolo.
E osserva che nel vangelo non senza motivo sono nominate in particolare queste quattro categorie di sfortunati, cioè i poveri, i deboli, i ciechi e gli zoppi.
Il povero è così chiamato perché poco può e poco ha. Il debole deve questo nome alla bile, debilis, che lo ha reso cagionevole di salute: la bile infatti è una secrezione del fiele, che influisce dannosamente sul corpo; di qui viene debolezza e debilitare, cioè rendere debole. Il cieco è privo della vista, e nessuno dei suoi due occhi è in grado di vedere. Lo zoppo è così chiamato perché è come chiuso (lat. claudus, clausus), cioè impedito nel camminare. In queste quattro categorie di infermi sono raffigurati coloro che sono schiavi dei quattro vizi dell'avarizia, dell'ira, della lussuria e della superbia.
L'avaro è povero: non è lui che comanda a se stesso, ma è il denaro che lo domina; non è possessore ma posseduto, e anche quando ha molto, è sempre convinto di avere troppo poco. Di lui dice il Filosofo: «Colui al quale i suoi averi non sembrano mai troppo grandi, anche se è padrone di tutto il mondo, è un miserabile». E anche: «Non reputo povero colui che, per quanto poco abbia, quel poco gli basta» (Seneca).
Il debole raffigura l'iracondo il quale, intriso dell'amarezza del fiele, s'infiamma d'ira e in questo stato è incapace di operare la giustizia di Dio (cf. Gc 1,20). Di lui dice Giobbe: «La collera fa morire l'insensato» (Gb 5,2).
Il cieco raffigura il lussurioso, che è privo della vista della grazia; è privo della vista di entrambi gli occhi, cioè della ragione e dell'intelletto.
Lo zoppo raffigura il superbo che non è in grado di camminare rettamente sulla via dell'umiltà.
Di questi vizi, e di altri simili, dice sempre il Filosofo: «Si deve evitare ad ogni costo e si deve strappare e separare col ferro e col fuoco, e con ogni altro mezzo, il languore dal corpo, l'ignoranza dalla mente, la lussuria dal ventre, la sedizione dalla città e l'incoerenza dall'uomo». Queste quattro categorie di peccatori, trattenuti nelle piazze, cioè dal piacere della carne, e nelle vie, cioè dalle vanità del mondo, il Signore misericordioso li chiama, per mezzo dei predicatori della santa chiesa, alla cena della patria celeste.
Osserva ancora che la terza volta il padrone dice al servo: «Esci per le strade e lungo le siepi, e spingili ad entrare, perché la mia casa si riempia» (Lc 14,23). Questi che sono spinti ad entrare raffigurano coloro che vengono spronati ad entrare alla cena del Signore dai castighi e dalle avversità. Dice infatti Osea: «Ecco, io le sbarrerò di spine la strada e ne cingerò il recinto di barriere e non ritroverà i suoi sentieri; inseguirà i suoi amanti ma non li raggiungerà, li cercherà ma non li ritroverà. E allora dirà: Ritornerò al mio sposo di prima, perché allora ero molto più felice di adesso» (Os 2,6-7).
Il Signore sbarra con la siepe delle avversità e lo steccato della malattia le vie, cioè le opere cattive dell'anima peccatrice, con le quali essa corre dietro ai suoi amanti, cioè ai demoni: e il Signore fa questo perché si converta e ritorni al suo primo Sposo. Avendo sperimentato la dolcezza del suo amore, deve ammettere che era infinitamente più felice quando fruiva della sua contemplazione, che non ora, che abusa della miserabile voluttà della carne.
12. Con questa terza parte del vangelo, nella quale si parla dei poveri, concorda anche la terza parte dell'epistola: «Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l'amore di Dio? Figlioli miei, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (1Gv 3,17-18). E il Signore: «Date in elemosina quello che avanza, ed ecco, tutto per voi sarà mondo» (Lc 11,41). E commenta la Glossa: Ciò che vi avanza di quanto vi è necessario per il vitto e il vestito, datelo ai poveri.
Chi dunque ha ricchezze di questo mondo, e dopo aver trattenuto da esse ciò che gli è necessario per il vitto e il vestito, vede che il suo fratello, per il quale Cristo è morto, si trova nel bisogno, deve dargli ciò che gli sopravanza. E se non glielo dà, se chiude il suo cuore di fronte al fratello che è nell'indigenza, io affermo che pecca mortalmente, perché non c'è in lui l'amore di Dio; se ci fosse in lui questo amore, darebbe volentieri al fratello povero.
Guai perciò a coloro che hanno la cantina piena di vino e il granaio pieno di frumento, e che hanno due o tre paia di vestiti, mentre i poveri di Cristo con il ventre vuoto e il corpo seminudo gridano aiuto alla loro porta. E se qualcosa si dà loro, si tratta sempre di poco, e non delle cose migliori ma delle più scadenti.
Verrà, sì, verrà l'ora, quando anch'essi grideranno, stando fuori alla porta: Signore, Signore, aprici!» (Mt 25,11). Ed essi, che non vollero ascoltare i lamenti dei poveri, si sentiranno dire: «In verità, in verità vi dico: non vi conosco» (Mt 25,12). «Andate, maledetti, nel fuoco eterno!» (Mt 25,41). «Chi chiude l'orecchio per non sentire la voce del povero, dice Salomone, quando sarà lui a gridare, non otterrà risposta» (Pro 21,13).
Fratelli carissimi, preghiamo perciò il Signore Gesù Cristo, che ci ha chiamati con questa predicazione, perché si degni anche di chiamarci, con l'infusione della sua grazia, alla cena della gloria celeste, nella quale saremo saziati contemplando quanto è soave il Signore (cf. Sal 33,9). Di questa soavità ci renda partecipi il Dio uno e trino, benedetto, degno di lode e glorioso nei secoli eterni. E ogni anima fedele, introdotta a questa cena, dica: Amen. Alleluia!
Chi dunque ha ricchezze di questo mondo, e dopo aver trattenuto da esse ciò che gli è necessario per il vitto e il vestito, vede che il suo fratello, per il quale Cristo è morto, si trova nel bisogno, deve dargli ciò che gli sopravanza. E se non glielo dà, se chiude il suo cuore di fronte al fratello che è nell'indigenza, io affermo che pecca mortalmente, perché non c'è in lui l'amore di Dio; se ci fosse in lui questo amore, darebbe volentieri al fratello povero.
Guai perciò a coloro che hanno la cantina piena di vino e il granaio pieno di frumento, e che hanno due o tre paia di vestiti, mentre i poveri di Cristo con il ventre vuoto e il corpo seminudo gridano aiuto alla loro porta. E se qualcosa si dà loro, si tratta sempre di poco, e non delle cose migliori ma delle più scadenti.
Verrà, sì, verrà l'ora, quando anch'essi grideranno, stando fuori alla porta: Signore, Signore, aprici!» (Mt 25,11). Ed essi, che non vollero ascoltare i lamenti dei poveri, si sentiranno dire: «In verità, in verità vi dico: non vi conosco» (Mt 25,12). «Andate, maledetti, nel fuoco eterno!» (Mt 25,41). «Chi chiude l'orecchio per non sentire la voce del povero, dice Salomone, quando sarà lui a gridare, non otterrà risposta» (Pro 21,13).
Fratelli carissimi, preghiamo perciò il Signore Gesù Cristo, che ci ha chiamati con questa predicazione, perché si degni anche di chiamarci, con l'infusione della sua grazia, alla cena della gloria celeste, nella quale saremo saziati contemplando quanto è soave il Signore (cf. Sal 33,9). Di questa soavità ci renda partecipi il Dio uno e trino, benedetto, degno di lode e glorioso nei secoli eterni. E ogni anima fedele, introdotta a questa cena, dica: Amen. Alleluia!