Sermoni Festivi

CATTEDRA DI SAN PIETRO

1. In quel tempo: «Gesù arrivò dalle parti di Cesarea di Filippo» (16,13).
    In questo vangelo si devono considerare tre momenti: - l'interrogazione di Gesù Cristo, - la professione di fede di Pietro, - il conferimento del potere di legare e di sciogliere.

2. In questa prima parte sono posti in evidenza due insegnamenti morali: la vita santa e la buona fama. Prima però vediamo la storia, ossia l'allegoria.
    Cesarea di Filippo è situata nel territorio dove nasce il Giordano, ai piedi del Libano, e ha due sorgenti, lo Ior e il Dan, che unite insieme formano il nome del Giordano: Iordan.
    Giunse dunque Gesù «e interrogò i suoi discepoli». Mentre si appresta a verificare la fede dei discepoli, il Signore si informa sulle opinioni della gente, perché la fede degli apostoli non sembri frutto delle credenze della gente, ma sia fondata sulla conoscenza della verità. «Gli uomini, chi dicono che sia il Figlio dell'uomo?» (Mt 16,13). Giustamente sono chiamati uomini coloro che, come succede di solito al mondo, hanno opinioni diverse sul Signore. «Chi dicono che sia il Figlio dell'uomo?». Il Signore non dice «io», per non dare l'impressione di parlare con arroganza: egli dichiara apertamente l'umiliazione della sua umanità. «Essi risposero: Alcuni dicono [che tu sei] Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti» (Mt 16,14). L'idea che Gesù fosse Giovanni il Battista, nasceva forse dal fatto che quest'ultimo, quando era ancora nel grembo della madre, aveva avvertito la presenza del Signore (cf. Lc 1,41. 44); che fosse Elia, perché questi era stato rapito in cielo (cf. 4Re 2,11), e perché si credeva che sarebbe ritornato sulla terra (cf. Mt 17,10-11); che fosse Geremia, perché era stato santificato nel grembo materno (cf. Ger 1,5).
3. «Giunse Gesù dalle parti di Cesarea», nome che s'interpreta «proprietà del principe» o «proprietà principale»; «di Filippo», nome che s'interpreta «bocca della lampada».
    Giunse Gesù; vieni anche tu, o cristiano, dalle parti di Cesarea. Si dice principe, perché per primo si impadronisce (primus capit) di un luogo o di una dignità: è lo spirito dell'uomo, la cui proprietà è il corpo, e nel quale lo spirito deve tenere il primo posto e il più alto potere. Dice isaia: «Il principe penserà sempre a cose degne di un principe e starà a capo dei suoi condottieri» (Is 32,8). Fa' attenzione alle due parole: penserà e starà. Ecco il potere e il posto che il primo deve tenere.
    Quali sono le cose degne di un principe, alle quali devi pensare, o principe, «o spirito dell'uomo», se non ritornare a te stesso, rientrare nel tuo cuore e lì riflettere: che cosa sei, che cosa sei stato, che cosa saresti dovuto essere, che cosa potrai essere? Che cosa sei stato per tua natura, e che cosa sei ora per causa della colpa, che cosa saresti dovuto essere con il tuo impegno, e che cosa ancora potrai essere con la grazia di Dio. I condottieri sono gli affetti, i sentimenti e i pensieri, a capo dei quali deve stare il principe, per poterli dominare e dirigere, per far loro evitare l'illecita concupiscenza e le inutili distrazioni. «Giunse dalle parti... «. Nelle «parti» sono indicati i sensi del corpo, nei quali viene o entra lo spirito dell'uomo, quando dice a questo: va', ed esso va; e dice a quello: vieni, ed esso viene; e al suo servo, cioè al corpo: fa' questo, e il corpo lo fa (cf. Mt 8,9).
    E osserva che questo principe, al quale appartiene la proprietà, viene chiamato «bocca della lampada». Nella lampada ci sono quattro componenti: il vetro lucente, l'olio che brucia, lo stop-pino, e la fiamma. Nel vetro è simboleggiata la purezza della coscienza; nell'olio la partecipazione alle necessità dei fratelli; nello stoppino l'acerbità della contrizione; nella fiamma l'ardore dell'amore divino. Fortunato quello spirito, fortunato quel cristiano che è la bocca di questa lampada, in modo che quando parla, parli mosso dalla purezza della coscienza, dalla compassione, dalla contrizione e dall'amore di Dio.
    E osserva ancora che Cesarea, cioè la nostra carne, dev'essere situata ai piedi [alle radici] del Libano, là dove nasce il Giordano. Il monte Libano, nome che s'interpreta «candore», simboleggia l'eccellenza della castità, la cui radice è l'umiltà, e dalla quale scaturiscono due sorgenti: Ior, che significa «fiume», e Dan, che vuol dire «giudizio»: uniti insieme formato il Giordano, cioè il fiume del giudizio, vale a dire la compunzione delle lacrime, nelle quali l'umiltà giudica se stessa e condanna ciò che ha fatto di male. Ecco quanto grande è il valore dell'umiltà, dalla quale si innalza il monte della castità e scaturisce il fiume della compunzione. Colui che in questo modo giunge dalle parti di Cesarea di Filippo, può a buon diritto interrogare i suoi discepoli, dicendo: «Gli uomini chi dicono che sia il Figlio dell'uomo?».
4. Il termine discepolo, deriva dal fatto che impara (lat. discit) la disciplina. Colui che è buono in se stesso, ha e deve aver la sua famiglia bene disciplinata e onesta, per poter dire con Davide: «I miei occhi sono rivolti ai fedeli della terra, perché siedano con me» (Sal 100,6). ognuno gradisce la compagnia di coloro che sono simili a lui. E poiché è cinico e spregiudicato uno che non tiene conto del suo onore, ecco che domanda e vuole essere informato su ciò che gli uomini dicono di lui, anche per correggere ciò che eventualmente non va bene. E poiché dalla stima di santità della vita e dalla buona fama proviene di solito l'autoesaltazione, ecco che si dichiara figlio dell'uomo. Dice Giobbe: «L'uomo è putridume, e il figlio dell'uomo verme» (Gb 25,6). Come dicesse: Da putridume proviene putridume. Perciò il Signore, quando rivelava ad Ezechiele cose grandiose, lo chiamava figlio dell'uomo perché non andasse in superbia (cf. Ez passim). Colui che si ritiene un verme, non si insuperbisce certo di se stesso. Ecco perciò che domanda: Che cosa dicono gli uomini di me, verme e putridume? Voglia il cielo che gli venga risposto: «Alcuni (dicono che tu sia) Giovanni il Battista». Giovanni l'Evangelista e Giovanni il Battista: compito del primo è annunciare, del secondo battezzare, lavare. La prima cosa è buona, la seconda è più sicura, perché, per quanto riguarda la verità, c'è più sicurezza nell'ascoltarla che nel predicarla. Parimenti, l'evangelizzatore è uno che prega solo con la parola, mentre il battezzatore è colui che nel silenzio e nella devozione della mente fa di sé a se stesso un battistero (una fonte) di lacrime: questa è di gran lunga cosa migliore di quella. In costui si avvera ciò che è detto del Battista: «Non berrà né vino né altra bevanda inebriante» (Lc 1,15). Il vino raffigura la vanagloria e le altre bevande inebrianti la fatua allegria: tutto ciò non beve colui che non cerca le lodi degli uomini «Altri dicono che tu sia Elia». Si legge nel quarto libro dei Re che Elia «era peloso e che si cingeva le reni (i fianchi) con una cintura di cuoio» (4Re 1,8). Ecco la veste di chi fa penitenza, di chi disprezza il mondo e castiga la sua carne. Elia s'interpreta «robusto dominatore». Infatti si legge di lui che prese i profeti di Baal, li trascinò fino al torrente Cison, ove li trucidò (cf. 3Re 18,40). Baal s'interpreta «divoratore», Cison «uomo che vomita dolore». Elia è figura del penitente, che si lascia coprire di pelo a disprezzo della gloria del mondo, che si cinge le reni per combattere la lussuria della carne. Egli, come un forte dominatore, afferra i profeti del ventre che tutto divora. Il ventre ha dei profeti che predicano all'uomo: Perché digiuni così? Perché ti tormenti in questo modo? Andrai incontro a malattie; ti ridurrai a tale debolezza che non potrai più aiutare né te stesso né gli altri! Di questi profeti dice Geremia: «I tuoi profeti hanno avuto a tuo riguardo visioni false» (Lam 2,14). Invece il penitente li afferra con la contrizione e li trascina a una lacrimosa confessione, dove vomita tutto il dolore della tentazione e del peccato, e così li stermina.
    «Altri dicono che tu sia Geremia», al quale il Signore disse: «Ecco, io oggi ti costituisco... per sradicare» ciò che è illecitamente piantato, «per demolire» ciò che è mal costruito, «per disperdere» ciò che è ingiustamente ammassato, «perché tu dissipi» la siepe «e edifichi» la casa, «e pianti un giardino» (Ger 1,10). La concupiscenza della carne pianta illecitamente, poiché dice il Deuteronomio: Non pianterai alcun boschetto accanto all'altare del tuo Dio (cf. Dt 16,21); e l'Apostolo: Noi abbiamo un altare, del quale non hanno alcun diritto di mangiare quelli che sono al servizio della tenda (cf. Eb 13,10), cioè del corpo. Si legge nel terzo libro dei Re: «Acab parlò a Nabot dicendo: Dammi la tua vigna perché ne vorrei fare un orto di verdure» (3Re 21,2). Acab raffigura il diavolo, Nabot il giusto; la vigna è la compunzione, l'orto di verdure è la concupiscenza della gola e della lussuria. Il diavolo vuole togliere al giusto la compunzione della mente e piantare la concupiscenza della carne.
    Anche la superbia costruisce male: «Chi si costruisce la casa troppo alta, cerca la rovina» (Pro 17,16). L'avarizia accumula con l'ingiustizia, con l'imbroglio: «Guai a chi accumula i frutti dell'avarizia, dannosa alla sua casa, per farsi in alto il suo nido e credere così di sfuggire alla stretta (de manu) della sventura» (Ab 2,9).
    L'avaro accumula allo scopo di costruirsi molto in alto il suo nido, elevare cioè la sua condizione e quella dei suoi. Ma quando crede di essere al sicuro, il diavolo gli tende la trappola e prende il padre con i suoi piccoli, cioè l'avaro con i suoi figli, e tutti li porta alla morte. Così pure l'ostinazione costruisce una siepe: «I tuoi piccoli sono come le tenere locuste che si rifugiano tra le siepi nel giorno del gelo» (Na 3,17). Le locuste raffigurano gli usurai, che insegnano anche ai loro figli a praticare l'usura e a saltare, per così dire, di usura in usura. Questi, nel gelo della loro cattiveria, si rifugiano nelle siepi della loro ostinazione, perché non vogliono né restituire le cose altrui né ritornare alla penitenza.
    È veramente Geremia, cioè grande davanti al Signore, colui che estirpa queste quattro ingiustizie non solo da se stesso ma anche dagli altri, e costruisce la casa dell'umiltà nella quale possa riposare Dio, e pianta l'orto della carità nel quale Dio possa pascersi. Della casa dell'umiltà parla il Signore, quando dice: «Zaccheo, affrettati a scendere, perché oggi io devo fermarmi in casa tua» (Lc 19,5). Nella casa di colui che discende, cioè di colui che si umilia nella sua coscienza, dimora la grazia dell'Onnipotente. Del giardino della carità dice la sposa del Cantico dei Cantici: «Il mio diletto venga nel suo giardino e mangi i frutti delle sue piante» (Ct 5,1). Dice che il giar-dino e i suoi frutti appartengono al suo diletto, perché tutto ciò che vi è piantato e vi cresce, proviene solo dalla grazia di Cristo. I frutti sono le opere di carità, delle quali Cristo si nutre ogni volta che vengono fatte per il prossimo. «Avevo fame, e mi avete dato da mangiare» (Mt 25,35).
    «Dicono che tu sia uno dei profeti». Compito dei profeti è predire le cose future. È un buon profeta colui che predice a se stesso la fine della sua vita, la venuta del giudice e il premio del regno celeste.
    Beato colui che viene onorato di questa reputazione, colui al quale è tributata tale testimonianza di vita, da essere ritenuto Giovanni il Battista per la sua devozione, Elia per la mortificazione della carne, Geremia per la distruzione dei vizi e l'incremento delle virtù, uno dei profeti per la retta chiaroveggenza delle cose future.
5. «Gesù disse loro: «Voi invece chi dite che io sia?» (Mt 16,15). Come dicesse: Quelli sono uomini, e hanno opinioni umane; voi invece, che siete dèi (cf. Sal 81,6), chi dite che io sia? «Rispose Pietro», uno per tutti, perché tutti sapevano una cosa sola: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). In questa professione di fede, Pietro ha abbracciato la natura umana e quella divina. Cristo infatti è chiamato così da crisma, e significa unto, consacrato, perché in quanto uomo è unto e consacrato da Dio Padre con lo Spirito Santo. «O Dio figlio, ti ha consacrato Dio, Padre tuo» (Sal 44,8). E Isaia: «Questo dice il Signore al suo consacrato, Ciro» (Is 45,1). Ciro s'interpreta «erede», cioè figlio. Di chi? «Del Dio vivente».
    Osserva che il crisma si confeziona con il balsamo. Dice la Storia Naturale che il luogo dove cresce la pianta del balsamo si chiama «occhio del sole», e la pianta è detta «vite», perché con la vite ha delle somiglianze; la sua linfa elimina la cateratta dell'occhio e calma i brividi della febbre. Quando si estrae il suo liquido, la pianta viene incisa solo nella corteccia, e da essa scaturiscono delle gocce di squisita fragranza.
    La generazione di Cristo è duplice: la prima è la generazione della divinità, la seconda è quella dell'umanità, ed entrambe sono l'occhio del sole.
    Della generazione della divinità dice Isaia: «La sua generazione chi la descriverà?» (Is 53,8). E Giobbe: «Da dove viene la sapienza? E il luogo dell'intelligenza dov'è? È nascosta agli occhi di ogni vivente ed è nascosta anche agli uccelli del cielo» (Gb 28,20-21), cioè agli stessi angeli è ignota la generazione di Cristo dal Padre. Dice infatti l'Ecclesiastico: «A chi mai fu rivelata la radice della sapienza?» (Eccli 1,6), vale a dire l'origine del Figlio di Dio? E quindi, ciò che è al di sopra dell'intelligenza e della conoscenza degli angeli, quale uomo potrà descriverlo? Dice isidoro: È chiaro che solo il Padre sa come ha generato il Figlio, e solo il Figlio sa come è stato generato dal Padre. Cristo infatti rifulse dal Padre come luce da luce, come parola dalla bocca, come sapienza dal cuore. Ecco dunque che la generazione della divinità è detta «occhio del sole», perché illumina tutta la chiesa trionfante, la celeste Gerusalemme. Dice l'Apocalisse: «La luce di Dio la illumina, e la sua lampada è l'Agnello» (Ap 21,23).
    La generazione dell'umanità è detta occhio del sole, perché con la fede nella sua incarnazione illumina tutta la chiesa militante. Leggiamo in Zaccaria: «Il Signore è l'occhio dell'uomo e di tutte le tribù d'Israele» (Zc 9,1). Israele s'interpreta «uomo che vede Dio». Quanto credi, tanto vedi. «Era la vera luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Gv 1,9), non perché illumini ogni uomo, ma perché nessuno può essere illuminato se non da lui. Ogni uomo che nasce in questo mondo, viene illuminato in ordine alla vita eterna unicamente per mezzo della fede in Cristo, il quale dice: «Io sono la vera vite» (Gv 15,1).
6. La vite è così chiamata in quanto ha la forza (lat. vis) di metter radice rapidamente, o anche perché le viti si allacciano tra loro. Dice la Storia Naturale che la vite abbonda di rami, con i quali si lega ai rami di un'altra pianta attorcigliandosi ad essi. Ed è una proprietà esclusiva della vite, tra tutte le altre piante, che in un nodo del suo ramo si forma da una parte la foglia e dall'altra il grappolo pieno di uva; ed è pure caratteristica della vite che i cavoli, piantati in vicinanza della sua radice, la fanno inaridire. La vite simboleggia la fede in Cristo, che ha la virtù di radicarsi velocemente nel cuore dell'uomo. Radicati e fondati - dice l'Apostolo - in Cristo Gesù (cf. Ef 3,17). Essa allarga i rami della carità e lega a sé anche altri; da una parte ha la foglia della predicazione e dall'altra il grappolo dell'opera buona, pieno del mosto dell'amore. I cavoli, cioè le preoccupazioni temporali e le lusinghe della carne, inaridiscono la linfa, il sentimento della fede.
    Inoltre la pianta del balsamo viene incisa solo nella corteccia. La corteccia è figura dell'umanità di Cristo, dalla cui ferita scaturì una linfa di meravigliosa fragranza, cioè il suo sangue prezioso, che elimina dall'occhio del cuore la cateratta del dubbio e dell'infedeltà, e libera dai brividi delle febbri, cioè delle tentazioni, perché il ricordo del Crocifisso crocifigge i vizi. «Tu dunque sei il Cristo, il figlio del Dio vivente!».
    «Gesù, rispondendo, disse a Pietro», e in lui ha risposto a tutti: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, Bar Iona, ecc. « (Mt 16,17). Bar significa «figlio», e Giona s'interpreta «colomba». Giustamente Pietro è chiamato «figlio della colomba», perché seguiva il Signore con devota semplicità, oppure anche perché era ricolmo di grazia spirituale. Pietro dunque è chiamato figlio dello Spirito Santo, il quale si era mostrato in forma di colomba a colui che egli aveva proclamato Figlio del Dio vivente; e al figlio della colomba il Padre rivela il mistero di fede, che non po-tevano rivelare né la carne né il sangue, cioè gli uomini gonfi della sapienza della carne che non sono figli della colomba e quindi sono alieni dalla sapienza dello Spirito. Di questi dice Abdia: «Disperderò i sapienti dall'Idumea e la prudenza dal monte di Esaù» (Abd 1,8). Ecco la carne e il sangue. Idumea s'interpreta «sanguinosa", Esaù «cumulo di pietre». Tutta la sapienza e la prudenza di questo mondo consistono nel nutrire la carne, e accumulare un mucchio di pietre, cioè di ricchezze, con le quali i sapienti e i prudenti del mondo saranno lapidati nel giorno del giudizio.
7. «E io ti dico che tu sei Pietro» (Mt 16,18). Da notare che Pietro ebbe tre nomi: Simone, che s'interpreta «obbediente"; Pietro, «che riconosce», e Cefa, «capo» (testa). Fu Simone nel momento della chiamata di Cristo: «Seguitemi. Ed essi, abbandonate le reti, lo seguirono» (Mt 4,19-20); fu Pietro nella professione di fede fatta oggi, con la quale riconobbe Cristo Figlio del Dio vivente, e quindi meritò di sentirsi dire: «Tu sei Pietro». Non dico: sarai chiamato Pietro, ma tu sei Pietro, da me pietra, in modo però che io ritengo per me la dignità del fondamento, perché «nessuno può porre un fondamento diverso da quello che vi è stato posto, che è Cristo» (1Cor 3,11), sul quale è edificata la chiesa.
    «E sopra questa pietra edificherò la mia chiesa» (Mt 16,18), e quindi non deve temere se cadrà la pioggia, cioè la persecuzione diabolica, se strariperanno i fiumi, cioè la perfidia degli eretici, se soffieranno i venti, cioè la rabbia del mondo, e si abbatteranno su questa casa, perché è fondata sopra una pietra solida e stabile (cf. Mt 7,25). Si legge nel libro dei Numeri: «Sicura è la tua abitazione, purché tu metta il tuo nido sulla roccia e tu sia tolto dalla stirpe di Cain» (Nm 24,21-22), nome che s'interpreta «astuto» o «caldo» (lat. callidus o calidus), ed è figura del diavolo che con la sua astuzia brucia con la fiamma dei vizi l'anima dei peccatori, i quali avranno come carnefice nella pena colui che ascoltarono come istigatore nella colpa.
    «Edificherò la mia chiesa». Osserva che è chiamata chiesa quella trionfante, quella militante, e anche l'anima fedele. Cristo edifica la prima con gli spiriti beati, la seconda con i fedeli, e la terza con le virtù: perciò Cristo è chiamato anche «muratore», come si legge in Amos: «Ed ecco, il Signore stava sopra un muro liscio, e tra le mani aveva la cazzuola da muratore» (Am 7,7). La cazzuola si chiama in lat. trulla, da trudo, spingere, fissare, perché serve a fissare tra loro le pie-tre con la calce, con la quale poi le pareti vengono anche rese lisce. Quindi il muro liscio è quello che è levigato sulla sua superficie. Nella cazzuola è simboleggia la potenza di Dio, con la quale egli edifica il muro della sua triplice chiesa e lo leviga perché nulla ci sia di disordinato, di ruvido, di ineguale, ma tutto si faccia in modo lineare ed agevole. Dice infatti l'Apostolo: «Tutto si faccia nella carità» (1Cor 16,14), che è il cemento delle altre virtù. E considera ancora che il Signore sta sopra il muro della chiesa per tre scopi: per edificarla, per combattere da essa e per mezzo di essa gli avversari, e per proteggerla.
    E quindi «le porte degli inferi non prevarranno contro di essa» (Mt 16,18). Le porte degli inferi sono i peccati, le minacce e le lusinghe, che non hanno la possibilità di prevalere, cioè di separare la chiesa dalla fede e dalla carità che sono in Cristo Gesù. Infatti chi accoglie con amore, nell'intimo del cuore, la fede in Cristo, supera facilmente tutto ciò che lo assale dall'esterno. In altro senso: la porta è così chiamata perché serve a portar fuori qualcosa; inferi, è detto perché le anime vi vengono portate giù (lat. inferuntur). Porte degli inferi sono chiamati i sensi del corpo, attraverso i quali l'anima peccatrice viene come portata fuori a cercare e a desiderare le cose inferiori, i beni terreni.
    Dice Isaia: «Ecco che il Signore ti farà portar via» - cioè permetterà che... -, «come viene portato via un gallo dal pollaio» (Is 22,17). Come l'astuta volpe afferra per la gola un cappone e lo trascina nella sua tana, così l'insidiosa e subdola concupiscenza della carne, attraverso i sensi del corpo trascina l'anima a queste cose inferiori. Però, se è edificata e fondata sull'amore di Cristo, contro di essa nulla potrà mai prevalere.
8. «E a te darò le chiavi del regno dei cieli» (Mt 16,19). Ecco «Cefa», posto a capo degli apostoli e della chiesa. È detto che oggi Cristo interrogò gli apostoli, e che Pietro, a nome di tutti, professò la fede della chiesa universale. E oggi il Signore gli conferì il potere di legare e di sciogliere, e perciò questo giorno è chiamato «Cattedra di san Pietro». Chi primo fra tutti professò la sua fede, primo fra tutti ebbe il potere delle chiavi.
    Le chiavi simboleggiano l'autorità e la capacità di giudicare, e in virtù di esse accogliere nel regno coloro che ne sono degni, ed escluderne gli indegni. Infatti continua: «E tutto ciò che legherai...», vale a dire: quando giudicherai degno delle pene eterne chi resta ostinato nei peccati, o quando assolverai il vero e umile penitente, così sarà fatto anche in cielo.
    Commenta Girolamo: «E tutto ciò che legherai». Hanno la stessa potestà giudiziaria anche gli altri apostoli; ad essi infatti il Signore, dopo la sua risurrezione, disse: «Ricevete lo Spirito Santo: coloro ai quali rimetterete i peccati, saranno rimessi; coloro ai quali non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20,23); e ce l'ha anche tutta la chiesa nei suoi presbiteri e nei suoi vescovi. Ma Pietro la ricevette in modo particolare, perché tutti comprendano che chiunque si separerà dall'unità della fede e dalla sua comunione, non potrà né essere assolto dai peccati né entrare in cielo. Alcuni, che non hanno ben compreso queste parole, si rivestono in parte della presunzione dei farisei e presumono di poter condannare gli innocenti e assolvere i colpevoli, quando invece davanti a Dio non si ricerca tanto la sentenza del sacerdote, quanto di salvare la vita dei colpevoli. Per questo nel Levitico viene comandato ai lebbrosi di mostrarsi ai sacerdoti (cf. Lv 14,2); non sono i sacerdoti che li fanno lebbrosi o meno, ma solo controllano e constatano chi è mondo o immondo: così è anche in questo caso.
    Per le preghiere del beato Pietro, il Signore ci sciolga dalle catene dei nostri peccati e ci apra le porte del regno dei cieli: lui che è benedetto nei secoli. Amen.

9. «Davide, seduto in trono (cattedra), fra i tre è principe sapientissimo, e come il piccolissimo tarlo che rode il legno» (2Re 23,8). Davide, nome che s'interpreta «di mano forte», è figura di Simon Pietro, al quale Cristo impose il nome di Pietro, desumendolo da sé stesso, pietra fondamentale. E Pietro fu di mano forte, quando aprì le sue mani e lasciò tutto. L'avaro ha la mano debole, perché è chiusa, serrata e arida. Dice Matteo: «Ed ecco un uomo che aveva una mano inaridita» (Mt 12,10). Il Signore gli disse: «Apri la tua mano! Egli l'aprì e la mano fu risanata» (Mt 12,13). Commenta la Glossa: Per conseguire la guarigione, nulla è più utile della larghezza (generosità) delle elemosine: invano infatti alza le mani verso Dio chi implora perdono per i suoi peccati, se poi non le apre ai poveri secondo le sue possibilità.
    Pietro dunque, seduto sulla cattedra, è sapientissimo. Dicono gli Atti: «Vedendo la franchezza e il coraggio di Pietro e di Giovanni, e considerando che erano illetterati e privi di cultura, si meravigliavano venendo a sapere che erano stati con Gesù» (At 4,13). Non faccia meraviglia il fatto che Pietro, pur essendo senza istruzione, venga detto sapientissimo; egli era stato con Gesù, Sapienza del Padre, e lo amò più degli altri; e alla scuola di Gesù, Pietro non aveva appreso la sapienza del mondo ma quella del cielo. «Chi cammina con la Sapienza (lett. con i sapienti) diventa sapiente» (Pro 13,20).
    Pietro non era quel letterato di cui parla Isaia: «Dov'è il letterato? Dov'è colui che valuta le parole della legge? Dov'è il maestro dei piccoli?» (Is 33,18). E l'Apostolo: «Tu insegni agli altri e non insegni a te stesso. Tu che ti glori della legge, offendi Dio trasgredendo la legge stessa» (Rm 2,21. 23). Pietro era ignorante nelle cose terrene, ma sapientissimo in quelle del cielo, del quale oggi ha ricevuto le chiavi; e sedette sulla cattedra, ricevette cioè il potere giudiziario di legare e di sciogliere. Sedette anche sulla cattedra materiale, di Antiochia e di Roma, e su questa cattedra è oggi presentato al popolo.
    «Principe tra i tre». Nei tre, fra i quali siede sulla cattedra il principe degli apostoli, è indicata la sua triplice costanza nella fede. La prima volta professò la sua fede nell'episodio odierno: «Tu sei Cristo, il Figlio del Dio vivente». La seconda volta nella sua predicazione, quando disse: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29). La terza volta lo fece con il suo martirio.
    «È come il piccolissimo tarlo che rode il legno». Il tarlo è un vermetto: niente è più molle di un verme, quando lo si tocca; niente è più forte di un verme quando punge o colpisce. Così fu il beato Pietro. Nulla fu più tenero di lui, cioè più paziente, quando veniva flagellato, quando veniva crocifisso. Lo aveva insegnato ai discepoli nella sua prima Lettera: «Siate modesti, umili, non rendete male per male», ecc. (1Pt 3,8-9). Ma quando colpiva, nessuno era più forte di lui. Disse infatti ad Anania: «Perché mai Satana ha indotto il tuo cuore a mentire allo Spirito Santo e a rubare sul prezzo del campo? Non hai mentito a un uomo, ma a Dio... All'udire queste parole, anania cadde a terra e spirò» (At 5,3-5). E a Simon Mago: «Il tuo denaro vada con te in perdizione!» (At 8,20).
    Ci liberi dalla perdizione, dall'eterna rovina, colui che ha dato a Pietro il potere di legare e di sciogliere. Amen.

10. «Davide, seduto sul trono (sulla cattedra)». Abbiamo un certo riferimento a questo nell'Ecclesiastico: «Il re, assiso sul trono, dissipa con il suo sguardo ogni male» (Pro 20,8). Davide, cioè il giusto o il penitente, è di mano forte. Dice la Genesi di Ismaele: «Questi sarà un uomo fiero: la sua mano sarà contro tutti e la mano di tutti contro di lui; egli pianterà le sue tende di fronte a quelle di tutti i suoi fratelli» (Gn 16,12).
    Dove noi abbiamo l'aggettivo «fiero», il testo ebraico ha il sostantivo «fara», che è l'ònagro, ossia l'asino selvatico. Nell'ònagro (in agro: nel campo) è indicato il penitente, che nel campo della penitenza porta il peso del giorno e del caldo (cf. Mt 20,12); le sue mani, cioè le sue opere, sono contro tutti i demoni; e le mani di tutti i demoni sono contro di lui. «Il nemico che combatte valorosamente, rende anche te valoroso combattente» (Ovidio). E di fronte alle tende dei fratelli, cioè contro gli istinti sensuali del corpo, pianterà, cioè fisserà saldamente le tende della penitenza, sempre pronto a resistere.
    E da dove gli viene sì grande fortezza? Certamente dalla «cattedra». «Assiso sulla cattedra, è sapientissimo». La sapienza è la conoscenza delle cose che esistono e che sono immutabili nella loro sostanza. Il termine sapiente deriva da sapore, perché come il gusto serve a distinguere il sapore dei cibi, così il sapiente è in grado di discernere le cose fatue da quelle pregevoli, il male dal bene. Quindi il penitente, o il giusto, è sapiente nel piangere i peccati passati, più sapiente nel prevenire i pericoli di peccare, sapientissimo nell'apprezzare i beni eterni. Egli è assiso sulla cattedra. La cattedra, seggio sopraelevato del giudice, simboleggia la ragione; è detta anche soglio, che suona quasi come solido: colui che vi siede disperde con il suo sguardo ogni male del diavolo, della carne e del mondo. La ragione è lo sguardo dello spirito, con il quale il vero viene visto in se stesso e non attraverso il corpo; oppure è la stessa visione del vero, non per mezzo del cor-po; oppure è il vero stesso che viene contemplato.
    Altro senso. La cattedra simboleggia il pensiero della morte: la mente vi si ferma e si umilia. Uno non può governare rettamente la sua nave, se non ha l'accortezza di insediarsi nella parte finale della nave stessa. La nave, che è stretta dove incomincia e dove finisce, cioè alle due estremità, ed è larga al centro, raffigura la vita dell'uomo, che è molto stretta al suo inizio e alla sua fine perché misera e amara, ed è larga al suo centro perché volubile e piena di pericoli. Nessuno può dirigerla rettamente se non si sforza di umiliarsi nel pensiero della morte. E fa' attenzione che dice «sapientissimo». Il timoniere che siede a poppa, cioè nella parte posteriore della nave, è e dev'essere il più esperto di tutti, perché vede tutti, previene tutte le eventualità, incita i pigri, sostiene quelli che faticano, nel tempo di burrasca promette un miglioramento, anzi la bonaccia, e rincuora tutti con la speranza di un porto sicuro.
    Allo stesso modo chi si umilia nel pensiero della morte, regola al meglio tutta la sua vita, e si guarda intorno: sa scuotersi dalla pigrizia, resistere nella fatica, nelle avversità confidare nella misericordia del Signore e guidare rettamente la sua vita al porto della vita eterna.
11. Quindi «è principe sapientissimo fra i tre»: in questi «tre» sono indicate la contrizione, la confessione e la soddisfazione, cioè l'opera riparatoria. Allude a questi tre atti il primo libro dei Re, dove Samuele dice a Saul: «Quando arriverai alla quercia del Tabor, ti verranno incontro tre uomini che stanno salendo a Dio in Betel: uno porterà tre capretti, il secondo tre forme di pane, il terzo un'anfora di vino» (1Re 10,3). Vediamo quale sia il significato della quercia, dei tre uomini, di Betel, dei tre capretti, delle tre forme di pane e dell'anfora di vino.
    La quercia è così chiamata perché gli antichi cercavano (lat. quercus, quaerere) in essa il ci-bo, cioè le ghiande, delle quali una volta gli uomini si cibavano (Isidoro). Tabor s'interpreta «luce che viene». La quercia simboleggia la penitenza, nella quale gli antichi padri cercavano il cibo dell'anima, cioè la luce della grazia divina che scende sui penitenti. Dalla penitenza viene la luce celeste che fa vedere all'uomo se stesso e le sue opere, ciò che prima non vedeva.
    «Quando dunque arriverai» alla penitenza, «ti verranno incontro tre uomini che stanno salendo», che cioè ti stanno facendo salire, «a Dio in Betel», nome che significa «casa di Dio», cioè la Gerusalemme celeste. La contrizione porta tre capretti, nei quali è indicato il triplice fetore del peccato, fetore della coscienza, della persona e della riputazione. Il penitente deve affliggersi nella contrizione, perché ha rovinato la sua coscienza con il consenso, la sua persona con l'opera e la sua riputazione con il cattivo esempio.
    Parimenti la confessione porta tre forme di pane, nelle quali sono indicate tre specie di lacrime: «Le lacrime furono il mio pane giorno e notte» (Sal 41,4). Giustamente le lacrime possono essere dette «forme (lat. tortae) di pane, perché provengono (per così dire) dalla torsione del cuore. E sono dette lacrime da «lacerazione» della mente (lacrimae, laceratio mentis). Il pane è così chiamato perché si serve (lat. ponitur) insieme con ogni altro cibo, o anche perché ogni essere animato lo cerca (lat. petit), o lo gradisce. Noi dobbiamo unire la compunzione a ogni altro nutrimento dell'anima nostra, perché ogni nostra opera sarebbe insipida senza la compunzione e la devozione; e la chiediamo e dobbiamo chiederla a Dio ogni giorno, perché ogni giorno ne abbiamo bisogno: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» (Lc 11,3). Quindi il peccatore, nella confessione, deve piangere perché ha macchiato la stola dell'innocenza battesimale, perché ha meritato la geenna (l'inferno), e perché ha perduto la vita eterna.
    Infine la soddisfazione porta un'anfora di vino, nella quale è simboleggiata la gioia del penitente nel fare la penitenza impostagli per il suo peccato: penitenza che non deve essere fatta né con timidezza o paura, né con indolenza: «Dio infatti ama chi dona con gioia» (2Cor 9,7). Il digiuno e l'elemosina devono essere fatti con gioia, e la preghiera con fiducia nella misericordia divina. La soddisfazione consiste appunto in queste tre opere (digiuno, elemosina e preghiera).
    Beato quel penitente che sarà principe, cioè padrone, di se stesso, che sarà assiso sulla cattedra della ragione e che si umilia nel pensiero della morte: egli sarà sapientissimo con queste tre pratiche.
12. «È come il tarlo, quel debolissimo vermetto». Osserva che il verme fa tre cose: è sempre in movimento, alza il capo per vedere dove meglio aggrapparsi, si accorcia per poi allungarsi di più. Così il giusto: è sempre al lavoro. Dice Girolamo: Fa' sempre qualcosa, affinché il diavolo ti trovi sempre occupato, «perché l'ozio insegna molte cattiverie» (Eccli 33,29). «Ci si domanda come mai Egisto è diventato adultero. Il motivo è evidente: stava in ozio» (Ovidio). Insegna la Storia Naturale che l'inerzia accresce nel corpo i fluidi superflui: lo stesso avviene anche nell'anima. Invece la fatica consuma i fluidi superflui: infatti è da questi che si produce il sudore e la traspirazione. Dice anche che qualunque specie di pianta, se non viene curata, inselvatichisce.
    Inoltre alza il capo, cioè la mente, per esaminare con occhio critico l'andamento della sua attività, in modo da orientarsi meglio verso Dio. «Il saggio ha gli occhi in fronte» (Eccle 2,14), ha cioè nella mente la luce del discernimento, «e le tue pupille precedano i tuoi passi» (Pro 4,25). E infine con l'umiltà si accorcia, per poi allungarsi e arrivare fino alla vita eterna.
    Si degni di concedercela colui che è benedetto nei secoli. Amen.
13. «Davide siede sulla cattedra». Davide, che s'interpreta «di bell'aspetto», è figura di Cristo che in croce, con le mani inchiodate, sconfisse le potenze dell'aria (cf. 1Pt 1,12); gli angeli bramano fissare lo sguardo nella bellezza del suo volto perché, come è detto nell'Apocalisse: «il suo volto è come il sole quando splende in tutta la sua forza» (Ap 1,16). Egli «siede», cioè si è umiliato, «sulla cattedra», vale a dire sulla croce, «sapientissimo» perché è la Sapienza del Padre, per mezzo della quale il Padre ha creato tutte le cose.
    Troviamo parole simili nel terzo libro dei Re: «Salomone era il più sapiente di tutti gli uomini... parlò di piante, dal cedro del Libano all'issopo che sbuca dalla parete» (3Re 4,31. 33). Salomone è figura di Cristo, il più sapiente di tutti, perché egli è la Sapienza, della quale dice l'Ecclesiastico: «Chi mai ha compreso la sapienza di Dio, la quale è prima di tutte le cose? Prima di ogni cosa fu creata la sapienza. Sorgente della sapienza è il Verbo», cioè il Figlio, «di Dio nell'alto dei cieli» (Eccli 1,3-5), dal quale, come l'acqua dalla sorgente, scaturisce ogni sapienza.
    Egli, «seduto sul legno» della croce, «parlò del cedro del Libano», cioè della grandezza della divinità, «e dell'issopo», vale a dire dell'umiliazione della sua umanità, «che sbucò dalla parete», cioè dalla beata Vergine, cui accenna Isaia quando dice: «Ezechia voltò il suo viso contro la pare-te... e proruppe in un grande pianto» (Is 38,2-3).
    A Davide era stata fatta la promessa che dalla sua discendenza sarebbe nato Cristo; ma il re Ezechia, poiché si vedeva morire senza eredi, credette che la promessa riguardante Cristo fosse annullata. Per questo proruppe in un grande pianto e voltò il viso contro la parete, rivolse cioè lo sguardo della mente alla beata Vergine; desiderava sopra ogni cosa che lei nascesse dalla sua discendenza, perché poi da lei nascesse Cristo. La somma sapienza di Cristo si rivelò sulla croce, quando prese all'amo della divinità il diavolo che si era avventato sull'esca dell'umanità; infatti dice Giobbe: «La sua sapienza abbatté il superbo» (Gb 26,12).
14. Siede dunque «sulla cattedra il principe fra tre». In questo modo s'intende ch'egli (Gesù) è uno dei tre: ai lati Disma e Gesta1, e in mezzo la potenza divina. Dice Giovanni: «Crocifissero con lui altri due, uno da una parte e uno dall'altra, e Gesù nel mezzo» (Gv 19,18). Ecco come siede, ecco come si è umiliato il principe degli angeli: come fosse anche lui un ladrone, viene crocifisso tra due ladroni. Quindi, alludendo alla sua umiliazione è detto ancora: «Egli è come il tarlo, il piccolissimo verme».
    Osserva che il verme fa tre cose: si trascina con la bocca; quando viene bruciato il legno dove si trova, stride fortemente; niente è di esso più molle, quando lo si tocca. Così Cristo si trascinò alla croce con la sua propria bocca, quando rimproverò ai giudei la loro malizia. La verità genera l'odio, e perciò dovette subire il supplizio. Parimenti è detto di lui: Lo scarabeo grida dalla croce (Ambrogio).
    Lo scarabeo è un piccolo insetto, che vola, e che ha gli occhi sulla sommità del capo. Anche Cristo, piccolo nella sua umiliazione, vola con la potenza della sua divinità: «Volò, volò sulle ali dei venti» (Sal 17,11), vale a dire sopra le potenze degli angeli e dei santi: «Il Capo di Cristo è Dio» (1Cor 11,3); ha gli occhi sulla sommità del capo, perché in virtù della sua divinità tutto vede: ai suoi occhi nessuna creatura è invisibile (cf. Eb 4,13). Egli, quando sul legno della croce bruciava nella passione, gridò fortemente: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23,46). Inoltre nessuno fu più paziente di lui e più umile quando venne flagellato, coronato di spine, colpito con gli schiaffi; nessuno sarà più forte di lui quando nel giudizio, con sentenza irrevocabile, precipiterà nell'inferno il diavolo con tutti i suoi seguaci.
    Ci liberi da questa sentenza di eterna morte colui che è benedetto nei secoli. Amen.
 

15. «Davide, assiso sulla cattedra fra i tre». Davide, che s'interpreta «misericordioso», raffigura i prelati della chiesa, che vengono eletti al preciso scopo di essere misericordiosi verso gli altri con triplice misericordia. Infatti a Pietro fu detto per tre volte: «Pasci!» (cf. Gv 21,15-17), e neppure una volta gli fu detto «tosa!». Pasci con la parola della predicazione, con il sostegno della fervida preghiera e anche con i proventi del beneficio temporale. Il prelato siede sulla cattedra della dignità ecclesiastica, e voglia il cielo ch'egli sia sapiente di quella sapienza della quale parla Giacomo: «La sapienza che viene dall'alto, che è anzitutto pura, poi pacifica, modesta, persuasiva, favorevole ai buoni, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità di giudizio» (Gc 3,17). Ecco i sette gradini che il prelato deve salire per sedere in cattedra.
    Di sette gradini - dice Ezechiele - è la sua salita (cf. Ez 40,22). La vita del prelato deve essere «condita» (insaporita) con la sapienza che viene dall'alto, per essere anzitutto pura, della purezza della mente per quanto riguarda lui stesso, pacifica nei riguardi dei sudditi, perché è stato posto sulla cattedra proprio per riconciliarli con Dio e tra di loro; dev'essere modesta per l'onestà dei costumi; persuasiva, cioè abile nel persuadere; favorevole ai buoni sia con i sentimenti che con i fatti; piena di misericordia. Ecco Davide misericordioso verso i poveri, ai quali appartiene tutto ciò che possiede, fatta eccezione di ciò che gli è necessario per vivere: diversamente, nella sua casa ci sarebbe la rapina (cf. Is 3,14), e quindi dovrebbe essere condannato come un rapinatore.
    O anche: una sapienza piena di misericordia per la compassione dell'animo, e piena di buoni frutti nel compimento delle opere. Dev'essere senza parzialità nei giudizi, cioè senza preferenze di persone. Inoltre, infligga anche a se stesso la penitenza, nella misura con cui la infligge agli altri, perché «doppio peso e doppia misura sono tutte cose abominevoli al cospetto di Dio» (Pro 20,10), «e la misura scarsa è piena dell'ira di Dio» (Mic 6,10).
    «Principe fra tre». Sono la vita, la scienza e l'eloquenza le tre prerogative che soprattutto devono adornare il prelato: vita intemerata, scienza autentica, eloquenza facile e persuasiva. Ma ahimè! Oggi la vita è immonda, la scienza è cieca, e l'eloquenza è muta.
    «È come il tarlo del legno, piccolissimo verme». Dice la Glossa: Davide nelle afflizioni, in casa e nei riguardi dei sudditi fu più mite degli altri; ma sul trono e contro i nemici nessuno fu più avveduto di lui. E questo Davide viene encomiato per tre qualità: per la sapienza, per l'umiltà e per la fortezza.
    Tale dev'essere anche il prelato che vuol reggere con giustizia il popolo che gli è affidato. Si degni di concederglielo colui che è benedetto nei secoli. Amen.