Sermoni Domenicali

DOMENICA XIII DOPO PENTECOSTE

1. In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete» (Lc 10,23).
    Dice Giobbe: «Un torrente divide la pietra della caligine e l'ombra della morte dal popolo che va peregrinando» (Gb 28,3-4). Vediamo quale significato abbiano la pietra della caligine, l'ombra della morte, il torrente e il popolo che va peregrinando.
    Il torrente è la predicazione. Come il torrente abbonda di acqua in inverno e si prosciuga in estate, tanto che si dice che con la pioggia si gonfia e con la siccità si prosciuga, così la predicazione abbonda, e deve abbondare, nell'inverno della misera vita presente. A questo torrente, durante il cammino di questo esilio, l'anima, lontana dal volto e dagli occhi di Dio, deve dissetarsi e su di esso fermarsi e contemplare se stessa, come la colomba.
    Ma contro l'anima infelice, sempre Giobbe inveisce dicendo: «Non vedrà più corrente di fiumi, torrenti di miele e di burro» (Gb 20,17). Nel fiume è simboleggiata l'acqua della compunzione che lava le brutture dei peccati; nel torrente di miele è simboleggiata la sacra Scrittura che consola e illumina: infatti il miele, come è scritto nel primo libro dei Re, rischiarò gli occhi a Gionata (cf. 1Re 14,27); nel torrente di burro è simboleggiata la devozione prodotta dalla grazia, che arricchisce la mente.
    Quindi l'anima, dedita ai piaceri della carne, non vede più la corrente del fiume, perché non piange su se stessa, né vede i torrenti di miele e di burro perché non viene illuminata dalla dolcezza della predicazione né nutrita dalla devozione, prodotta dalla grazia. Questo torrente si prosciugherà nell'estate, cioè nella beatitudine della vita eterna. Dice infatti Geremia: Uno non dovrà più istruire il suo prossimo o il suo fratello, dicendogli: Riconosci il Signore, perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande (cf. Ger 31,34).
    Quanto grande però sia nel frattempo l'utilità della predicazione, lo afferma Giobbe dicendo: «Un torrente divide la pietra della caligine e l'ombra della morte dal popolo che va peregrinando». La pietra si chiama in lat. lapis, lapide, perché ferisce il piede (in lat. laedit pedem). La caligine, prodotta dalla densità dell'aria, è chiamata così perché è prodotta soprattutto dal calore dell'aria. La pietra della caligine raffigura la tentazione del diavolo il quale, avendo la sua dimora in quest'aria caliginosa, insinua nella mente la caligine della sua rovente suggestione, proprio per ferire e sconvolgere i sentimenti.
    L'ombra è l'aria senza sole, e si forma quando si pone un corpo davanti ai raggi del sole. La morte è così chiamata perché amara; e l'ombra della morte è la dimenticanza della mente. Il misero uomo mette davanti ai raggi del vero Sole l'impedimento, che sono le ricchezze, per trovare sotto di esse refrigerio come sotto un'ombra; ma quando è coperto da questa ombra, viene privato anche della conoscenza e del ricordo del Signore. Infatti le cose temporali fanno dimenticare Dio. Dice la Genesi: «Il capo dei coppieri del faraone, tornato alla prosperità, non si ricordò più di colui che gli aveva interpretato il sogno» (Gn 40,23).
    Quindi il torrente, cioè la predicazione, separa la pietra della caligine, cioè la tentazione del diavolo, e l'ombra della morte, cioè la dimenticanza della mente, dal popolo che va peregrinando, vale a dire dai penitenti, dai poveri di spirito, dai seguaci degli apostoli, i quali si reputano miseri e pellegrini, esuli e ospiti in questo esilio; ad essi, nel vangelo di oggi, il Signore dice: «Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete».
2. Fa' attenzione che in questo vangelo sono poste in evidenza tre fatti. Primo, la beatitudine di chi vede il Cristo, quando dice: «Beati gli occhi che vedono». Secondo, l'amore di Dio e del prossimo, quando dice: «Un dottore della legge si alzò». Terzo, la discesa dell'uomo da Gerusalemme a Gerico, quando dice: «Un uomo discendeva da Gerusalemme a Gerico».
    Nell'introito della messa di oggi si canta: «Guarda, o Dio nostra difesa» (Sal 83,10). Si legge quindi un brano della lettera del beato Paolo apostolo ai Galati: «Ad Abramo sono state fatte le promesse» (Gal 3,16). Divideremo il brano il tre parti e ne vedremo la concordanza con le tre suddette parti del vangelo. Prima parte: «Ad Abramo sono state fatte le promesse». Seconda parte: «Ora io dico: un testamento... «. Terza parte: «Ora, non si dà mediatore... «. E osserva che la ragione per cui questo brano della lettera viene letto insieme con questo vangelo è che il contenuto di entrambi concorda con legge data a Mosè.
3. «Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l'udirono» (Lc 10,23-24).
    Anche Tobia infatti diceva: «Beato sarò io se rimarrà un resto della mia discendenza, per vedere lo splendore di Gerusalemme» (Tb 13,20), vale a dire l'umanità di Gesù Cristo. La futura discendenza del beato Tobia furono gli apostoli, «stirpe che il Signore ha benedetto» (Is 61,9); e di esso sempre Isaia dice: «Progenie santa sarà quello che resterà di lei» (Is 6,13), cioè la chiesa.
    Questa fu la discendenza di Tobia per mezzo della fede e della sofferenza, e perciò meritò di vedere il trionfo di Gerusalemme. E quindi viene loro detto: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete». Vedevano un uomo, ma credevano che era Dio (cf. Gv 20,28). Beati gli occhi dei puri di cuore, che vedono Gesù Cristo. Dice infatti Giobbe: «Ora invece ti vedono i miei occhi» (Gb 42,5). Beati gli occhi che lo sterco delle ricchezze non acceca, e che la cisposità delle preoccupazioni terrene non offusca, perché essi vedono il Figlio Dio avvolto in miseri pannicelli, adagiato in una mangiatoia, fuggiasco in Egitto, seduto su di un asinello, appeso nudo sul patibolo della croce. Così lo videro gli apostoli. Così non lo possono vedere gli occhi cisposi. Dice il salmo: «Cadde su di loro il fuoco e non videro più il sole» (Sal 57,9). Gli occhi cisposi non sono in grado di vedere il sole.
4. Il sole è Cristo, il quale per poter essere veduto si avvolse in una nube. Infatti egli stesso dice: «Ho cucito un sacco sopra la mia pelle e ho coperto di cenere la mia carne. La mia faccia è gonfia per il pianto e le mie palpebre si sono oscurate. Ho sofferto tutto questo, benché le mie mani fossero senza peccato e le mie preghiere fossero pure davanti a Dio. O terra, non coprire il mio sangue, e non ci sia luogo in te dove resti soffocato il mio grido» (Gb 16,16-19).
    Nel sacco e nella cenere sono indicate le tribolazioni e l'abiezione della natura umana. Gesù Cristo con il sacco della nostra natura si fece una tunica, che si confezionò con l'ago, cioè con il misterioso intervento dello Spirito Santo, e con il filo, vale a dire con la fede della beata Vergine, e se ne rivestì; quindi su questa tunica (sulla sua umanità) sparse la cenere dell'umiltà e dell'abiezione. Questo gli occhi cisposi e maledetti non sono in grado di vederlo.
    Ahimè! Il volto di Gesù Cristo fu gonfio di schiaffi e di lacrime, cosa che egli subì benché le sue mani fossero pure da iniquità: egli non commise peccato e non si trovò inganno nella sua bocca (cf. Is 53,9); egli offrì a Dio Padre preghiere monde a favore degli immondi e degli scellerati; egli, come dice Isaia, pregò per i trasgressori della sua legge (cf. Is 53,12), dicendo: «Padre, perdona loro... « (Lc 23,34).
    O terra, o peccatore, non coprire con l'amore delle cose terrene il mio sangue, che è il prezzo della tua redenzione; permetti, ti prego, che questo sangue produca in te il suo frutto. Sulla tua fronte ho scritto con esso il segno Tau (T), affinché l'angelo mandato a colpire non colpisca anche te (cf. Ez 9,4-5). Ti scongiuro, non coprire di terra quel segno, non distruggere l'iscrizione del titolo, che Pilato stesso non volle cancellare, ma confermò dicendo: «Ciò che ho scritto, ho scritto!» (Gv 19,22).
    «Non si trovi in te luogo dove resti soffocato il mio grido». Il grido del nostro Redentore è il sangue della redenzione il quale, come dice l'Apostolo nella lettera agli Ebrei, ha la voce più eloquente di quella del sangue di Abele (cf. Eb 12,24); infatti il sangue di Abele chiedeva la morte del fratricida, mentre il sangue del Signore ottenne la vita per i suoi uccisori. Ma questo sangue trova in noi un luogo dove viene soffocato il suo grido, se la lingua tace ciò che la mente crede. Questo sacco, questa cenere, gli occhi cisposi non li vedono; questo grido gli orecchi sordi non lo sentono. E perciò il Signore soggiunge: «Io vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, ma non l'udirono».
    Nei profeti sono raffigurati i prelati della chiesa, nei re i potenti di questo mondo. Sia quelli che questi desiderano vedere Cristo in cielo, ma non vogliono contemplarlo appeso al patibolo. Vogliono regnare con Cristo ma anche godere con il mondo. Tutti costoro dicono insieme con Balaam: «L'anima mia muoia della morte dei giusti» (Nm 23,10). Essi vogliono vedere la gloria della divinità, che gli apostoli videro, ma non vogliono accettare l'ignominia della passione, la povertà di Cristo che i suoi apostoli hanno praticato, e quindi non lo vedranno insieme con gli apostoli, ma insieme con gli empi vedranno soltanto colui che hanno trafitto (cf. Gv 19,37). E non sentiranno il mormorio di una brezza leggera (cf. 3Re 19,12): «Venite, benedetti del Padre mio!», ma il tuono terrificante della condanna: «Via da me, maledetti, al fuoco eterno... « (Mt 25, 34. 41).
5. Dice in proposito Giobbe: «Il tuono della sua potenza chi può comprenderlo?» (Gb 26,14). E di nuovo: «Non hai afferrato e scosso i lembi della terra e non ne hai sbattuto via i malvagi?» (Gb 38,12-13). Il Signore ha afferrato i lembi della terra quando ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato, per confondere i potenti (cf. 1Cor 1,27).
    Fa' attenzione alle due parole «hai afferrato» e «hai scosso via». Il padre afferra con una mano il figlio e con l'altra lo scrolla e lo picchia; lo afferra perché non cada nel precipizio, e lo picchia perché non diventi superbo e insolente. Così il Signore afferra con la mano della sua misericordia il giusto perché non cada nel peccato; lo colpisce perché non si insuperbisca della grazia ricevuta dal Padre. Perciò dice l'Apostolo: «Affinché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne…», ecc. (2Cor 12,7).
    «E hai sbattuto via da essa i malvagi». Nel giorno del giudizio il Signore scuoterà via i malvagi dalla nostra terra, nella quale hanno peccato, e li sbatterà all'inferno, come si sbatte la polvere da un sacchetto. La terra stessa, oppressa dal peso dei loro peccati, si scuoterà di dosso i malvagi e li sbatterà all'inferno, nel quale ci sarà pianto degli occhi che si sono perduti dietro alle vanità, e stridore dei denti (cf. Mt 8,12) che hanno strappato ai poveri i loro beni. Gli occhi di tutti costoro non vedranno Gesù in cielo; vedranno invece la moltitudine dei demoni nell'inferno. Essi non sentiranno le melodie angeliche ma solo lo stridore dei denti.
6. Con questa parte del vangelo concorda l'introito della messa di oggi: «Guarda, o Dio, nostro protettore, guarda il volto del tuo Cristo. Vale più un sol giorno nei tuoi atri, che mille altrove» (Sal 83,10-11). Beati gli occhi che vedranno nell'amarezza del cuore il volto di Gesù Cristo, gonfio di schiaffi e di lacrime, coperto di sputi, perché quel volto nel quale gli angeli bramano fissare lo sguardo (cf. 1Pt 1,12), essi lo contempleranno splendente di gloria negli atri della Gerusalemme celeste.
    Dice in proposito Giobbe: «Vedrà nel giubilo il suo volto» (Gb 33,26), come dicesse: Se prima l'uomo, nell'amarezza del cuore, avrà veduto quaggiù il volto di Cristo, come lo ebbe nella passione, lo vedrà poi, come lo avrà nella beatitudine eterna, nel giubilo dello spirito, un giubilo che non si può né esprimere né tacere.
    Questo splendore del volto di Cristo è quel «solo giorno» che illuminerà senza alcun impedimento la città di Gerusalemme, uno splendore superiore ad ogni altro; per essere degni di giungervi dobbiamo pregare il Padre dicendo: «Vedi, o Dio, nostro protettore!». La protezione di Dio ci sembra meno necessaria quando l'abbiamo in continuazione; conviene che talvolta venga sottratta, perché così l'uomo si convinca che senza di essa è un nulla.
    «Vedi, o Dio, nostro protettore, e guarda il volto del tuo Cristo». Padre, non guardare ai nostri peccati; guarda il volto del tuo Cristo, che per i nostri peccati è stato coperto di sputi, fu gonfiato di schiaffi e di lacrime per riconciliare con te noi peccatori. Egli, per ottenerci il tuo perdono, ti mostrò il suo volto colpito dagli schiaffi perché tu lo guardassi e, guardandolo, rivolgessi la tua benevolenza a noi, che siamo stati la causa della sua passione.
7. Anche su questo abbiamo una concordanza nel libro di Giobbe: «Se ci sarà un angelo che parlerà in suo favore e mostrerà la sola cosa in cui gli è simile, per annunziare la giustizia dell'uomo, Dio avrà misericordia di lui e dirà: Lìberalo, che non scenda nella fossa: ho trovato un motivo per essere benigno con lui. La sua carne infatti si è consumata nei tormenti; ritorni ai giorni della sua adolescenza» (Gb 33,23-25).
    In quest'angelo è raffigurato Cristo; egli mostra al Padre la sola somiglianza che ha con noi. Egli infatti è infinitamente superiore a noi in tutte le sue manifestazioni: in una sola cosa non è diverso da noi, nella realtà della sua condizione di servo (cf. Fil 2,7). Egli parla per noi al Padre proprio nella condizione per la quale si mostra simile a noi e parla al Padre per mezzo di ciò che lo rende a noi uguale. Il suo parlare è un mostrarsi uomo a nostro favore: al di fuori di lui non si troverebbe alcun giusto che, esente da peccato, intercedesse per i peccatori.
    «Avrà misericordia di lui». È mediatore, quindi ha pietà dell'uomo, perché dell'uomo ha assunto la condizione. «E dice: Lìberalo, perché non scenda nella corruzione». La sua parola è già liberazione dell'uomo: assumendo la natura umana, la dimostra libera, e per mezzo della carne che ha assunto, ha dimostrato libera anche quella che ha redento.
    «Ho trovato in lui un motivo per essergli benigno», come se dicesse apertamente: Poiché non c'era uomo alcuno che sembrasse degno di intercedere per gli uomini davanti a Dio, mi sono fatto uomo io stesso per intercedere a favore degli uomini. E presentandomi come uomo, nell'uomo stesso ho trovato il motivo per essere propizio agli uomini.
    «La sua carne si è consumata nei tormenti». Il genere umano infatti era oppresso da innumerevoli tormenti di vizi e di castighi ma, arrivato il Redentore, ritorna ai giorni della sua adolescenza, ritorna cioè all'integrità della sua primitiva vita, per non restare nella condizione in cui è caduto, ma con la redenzione ritorni a quello stato nel quale era stato creato.
8. Con questa prima parte del vangelo concorda anche la prima parte dell'epistola di oggi: «Ad Abramo sono state fatte le promesse e alla sua discendenza. Non dice: E ai suoi discendenti, come si trattasse di molti, ma: e alla sua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo» (Gal 3,16), il quale fu come il granellino di senape, seminato nel giardino della beata Vergine Maria: per la povertà e l'umiltà fu il più piccolo di tutti i semi, cioè di tutti gli uomini, nella sua natività; crebbe quindi nella sua predicazione e nel compimento dei miracoli: e in questo fu più grande di tutte le piante, cioè di tutti i patriarchi dell'Antico Testamento. Diventò poi un albero nella sua risurrezione e allargò i suoi rami con la predicazione degli Apostoli, e così gli uccelli del cielo, cioè i fedeli della chiesa, accorrono per mezzo della fede, e per mezzo della speranza e della carità prendono dimora tra i suoi rami (cf. Mt 13,31-32), cioè nel suo insegnamento e nei suoi esempi. Beati quindi coloro che vedono ora, per mezzo della fede, colui nel quale sono benedette tutte le genti, e che lo vedranno poi di presenza nella gloria celeste e lo sentiranno dire: «Venite, benedetti del Padre mio» (Mt 25,34).
    Cristo stesso si degni di condurci a questa visione e ad ascoltare questa voce, egli che è Dio benedetto nei secoli eterni. Amen.
9. «Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova e gli chiese: Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna? Gesù gli disse: Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi? Quegli rispose: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso. Gesù gli disse: Hai risposto bene; fa' questo e vivrai» (Lc 10,25-28). Osserva che in questo brano del vangelo è racchiusa tutta la perfezione della via e della patria. Ogni parola di questo brano è di grande importanza e di grande utilità. Perciò tratteremo brevemente di ognuna di esse.
    Amore è detto in lat. dilectio, perché lega tra loro due persone (in lat. duos ligat). L'amore incomincia da due persone, e di solito nasce, germoglia nei buoni. Dilectio è l'amore di Dio e del prossimo. Amare, diligere, significa legare tra loro due persone. Il Signore è detto in lat. Dominus, perché domina su tutto il creato, oppure perché «comanda nella casa», in lat. domui praeest, o anche perché «fa minacce», in lat. dat minas.
    Dio si dice in ebraico Eloe, che significa timore; in greco si dice Theòs, che viene da theorèo, vedo, perché Dio vede tutte le cose. Theo vuol dire anche corro, perché Dio tutto percorre, o perlustra.
    L'amore, dilectio, lega Dio e il prossimo. Questa è la linea di cui dice il Signore nel libro di Giobbe: «Chi ha teso sulla terra la linea (la misura)? Su chi ha assicurato le sue basi?» (Gb 38,5-6). Il Signore ha teso la linea, la misura del suo amore sull'anima, affinché essa si prolunghi fino all'amore del prossimo. «Su chi», se non su Gesù Cristo, «sono assicurate le sue basi», cioè le rette intenzioni dell'anima, sulle quali si sorregge tutto l'edificio delle virtù? Se la base di ogni intenzione non è assicurata su Cristo, tutta l'opera di costruzione minaccia di rovinare, e la sua rovina sarà grande (cf. Mt 7,27). «Ama dunque il Signore, Dio tuo!» Fa' attenzione ai due termini: Signore e Dio. Signore, Dominus, perché domina su tutto il creato; Dio, perché tutto vede e tutto perlustra. Per questo Zofar, il Naamatita, dice di lui: «Dio è più alto del cielo: che cosa puoi fare? È più profondo degli inferi: come potrai conoscerlo? Si estende più della terra ed è più ampio del mare. Se tutto sconvolge, o se tutto vuole restringere, chi potrà opporsi a lui? O chi potrà dirgli: Perché fai cosi?» (Gb 11,8-10; 9,12).
    Osserva: gli angeli sono qui chiamati cieli, i demoni inferi, i giusti terra e i peccatori mare. Gli angeli dunque non arrivano alla sua altezza; giudica la malizia dei demoni molto più severamente di quanto pensino; la sua pazienza supera la longanimità dei giusti ed egli ha sempre presenti tutte le opere dei peccatori. Oppure: l'uomo diventa cielo con la contemplazione, inferno con l'offuscamento della tentazione, terra quando porta frutto, e mare quando si agita nella sua incostanza. Ma anche la contemplazione dell'uomo viene meno di fronte a Dio e se nelle tentazioni mette alla prova se stesso, teme i severi giudizi di Dio, e alla fine la ricompensa è superiore alle sue opere. E per quanto la mente si agiti nella ricerca, non arriverà mai a sapere quale sarà la severità del futuro giudizio.
    Parimenti, Dio ha larghezza nell'amare, lunghezza nel tollerare, altezza nel superare i desideri dell'intelletto, profondità nel giudicare gli impulsi illeciti dei pensieri. Egli sconvolge il cielo quando vanifica la contemplazione dell'uomo; sconvolge l'inferno quando permette che nelle tentazioni il pauroso abbia la peggio; sconvolge la terra quando con le avversità impedisce il frutto delle buone opere; sconvolge il mare quando confonde la nostra irresolutezza con il terrore del giudizio. Il cielo e l'inferno vengono costretti insieme, quando lo stesso spirito viene innalzato con la contemplazione e oscurato con la tentazione. La terra e il mare vengono costretti insieme, quando lo stesso spirito viene rafforzato da una fede sicura nelle cose eterne e anche tormentato dal soffio mutevole di qualche dubbio. Questo Dio, così fatto e così grande dev'essere amato. «Amerai il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore», ecc.
    Dice «tuo», e quindi da amare ancora di più: infatti amiamo più le cose nostre che quelle degli altri. È degno di essere da te amato perché, essendo egli il Signore, Dio tuo, si è fatto tuo servo, e così tu diventassi suo e non ti vergognassi di servirlo.
    Dice con le parole di Isaia: «Mi hai fatto servire nei tuoi peccati» (Is 43,24). Per trentatré anni Dio si è fatto tuo servo per i tuoi peccati, per liberarti dalla schiavitù del diavolo. «Amerai dunque il Signore, Dio tuo» che ti ha creato, che ha fatto se stesso per te, che ha dato se stesso a te perché tu dessi tutto te stesso a lui. «Amerai dunque il Signore, Dio tuo».
    Nella creazione, quando tu non esistevi, ha dato te a te stesso; nella redenzione, quando esistevi nel male, ha dato se stesso a te perché fu fossi nel bene, e quando ha dato se stesso a te, ha anche restituito te a te stesso. Dato dunque e restituito, tu devi te stesso a lui, e ti devi due volte, e ti devi totalmente. «Amerai dunque il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore». Colui che ha detto «tutto», non ti ha lasciato una parte di te, ma ha comandato che tu offra a lui tutto te stesso. Infatti con tutto se stesso ha comprato tutto te stesso, per essere lui solo a possedere tutto te stesso. «Amerai dunque il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore».
    Non voler dunque, come Anania e Saffira, trattenere per te una parte di te stesso, per non perire totalmente insieme con loro (cf. At 5,1-10). Ama dunque con tutto te stesso, e non con una sola parte di te. Dio infatti non ha parti, ma è tutto dovunque, e quindi non vuole soltanto una parte di ciò che è tuo, perché è tutto in ciò che è suo. Se tu riservi per te una parte di te, sei tuo e non suo. Vuoi avere tutto? Da' tutto a lui, ed egli darà a te tutto ciò che è suo; e così nulla avrai di te stesso, perché avrai tutto lui con tutto te stesso. «Amerai dunque il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore».
10. Fa' attenzione a queste quattro entità: cuore, anima, forze, mente.
    Il cuore è situato al centro del petto dell'uomo; tende un po' verso sinistra: infatti si scosta un po' dalla linea di divisione che separa le due mammelle; piega verso la mammella sinistra e sta nella parte superiore del petto; e non è grande e non è di forma allungata, ma tende piuttosto alla forma tondeggiante e la sua estremità è stretta e acuta.
    O uomo, la posizione e la forma del tuo cuore ti insegnano in che modo tu debba amare il Signore, Dio tuo. Il tuo cuore è posto al centro del tuo petto, tra le due mammelle. Nelle due mammelle è simboleggiato un duplice ricordo: quello dell'incarnazione del Signore e quello della sua passione, da cui l'anima prende il suo nutrimento come da due mammelle. Nella mammella destra è simboleggiato il ricordo dell'incarnazione, nella sinistra quello della passione. Tra queste due mammelle dev'essere posto il tuo cuore, perché qualunque cosa tu pensi, qualunque cosa tu faccia di bene, tutto tu riferisca alla povertà e all'umiltà dell'incarnazione e all'amarezza della passione del Signore. Dice in proposito la sposa del Cantico dei Cantici: «Il mio diletto è un sacchetto di mirra che riposerà tra le mie mammelle» (Ct 1,12).
    L'anima, sposa di Gesù Cristo, Figlio amatissimo di Dio Padre, si confeziona un sacchetto di mirra con tutta la vita del suo diletto. Ripensa infatti come sia stato adagiato in una mangiatoia, avvolto in fasce e cacciato in Egitto, esule, povero e pellegrino; come spesso sia stato fatto oggetto di ingiurie e di bestemmie da parte dei giudei; come sia stato tradito da un suo discepolo, incatenato dalla coorte del preside, condotto da Anna e Caifa, legato alla colonna, flagellato da Ponzio Pilato, coronato di spine, colpito con schiaffi, coperto di sputi, e come sia stato infine crocifisso tra due ladroni omicidi. Da tutti questi eventi dolorosi insieme raccolti e saldamente riuniti dal vincolo della devozione, l'anima si confeziona un sacchetto di mirra, vale a dire di amarezza e di compatimento, e lo pone tra le mammelle, dove ha sede il cuore. Sopra il cuore della sposa, cioè dell'anima, deve sempre stare il sacchetto della mirra.
    E considera che come il cuore tende un po' verso la mammella sinistra, così la compassione e la devozione del cuore deve volgersi all'amarezza della passione del Signore. Per questo la Maddalena versò le sue lacrime e il suo profumo prima di tutto sopra i piedi del Signore, nei quali è simboleggiata la sua passione. Piange sopra i piedi del Signore colui che prende parte al dolore di chi soffre; li unge colui che rende grazie per il dono della passione. Entrambi i sentimenti infatti dobbiamo rivolgere alla Passione del Signore: il dolore e la devozione.
    E come il tuo cuore è posto nella parte superiore del petto, così le sue aspirazioni e i suoi desideri devono essere rivolti alla gloria del cielo. Dov'è il tuo tesoro, cioè Gesù Cristo - la manna nell'arca d'oro -, là dev'essere anche il tuo cuore (cf. Mt 6,21).
    E come il tuo cuore non è grande e non è di forma allungata, ma tende leggermente alla forma rotonda, così anche tu non devi innalzarti verso la grandezza, o allungarti nella cupidigia, ma la tua vita dev'essere rotonda, cioè perfetta. Ciò che è rotondo infatti non subisce diminuzioni.
    E come l'estremità del cuore è stretta ed acuta, così devi sempre pensare che la conclusione della tua vita sarà stretta ed acuta. Stretta, perché dovrai passare per lo strettissimo passaggio della morte, attraverso il quale nulla potrai portare con te, eccetto i peccati, che non sono sostanza materiale; acuta, perché il timore del giudice ti trapasserà e l'orrore del castigo di trafiggerà. Perciò, finché hai il cuore in tuo potere, «ama il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore».
11. «E con tutta la tua anima». L'anima è una sostanza incorporea, intellettuale, razionale, invisibile, di origine sconosciuta, che nulla di terreno ha in sé mescolato. Anima, è quasi come dire ànemos, termine greco che significa vento, o movimento, perché è sempre in movimento spontaneo e muove i corpi; oppure è come dire anàmne, o anàmneia, che significa, sempre in greco, ricordo; oppure è composta da a e nemo, che, ancora in greco, significa conferire, perché conferisce la vita ai corpi; oppure anche anà, sopra, e àima, sangue, quindi sangue superiore. «Ama perciò il Signore, Dio tuo, con tutta la tua anima», affinché la tua attività, il tuo pensiero, la tua vita, tutto, tu riferisca al suo amore.
    «Con tutte le tue forze». Ricorda che tre sono le «forze» dell'anima: la forza razionale, la concupiscibile e la irascibile. Con la forza razionale distinguiamo il bene dal male; con la concupiscibile desideriamo il bene, con la irascibile ripudiamo il male. Queste forze le hanno perdute gli effeminati, dei quali Giobbe dice: «Fu gradito alla ghiaia del Cocìto, e dietro a sé trae tutto l'uomo» (Gb 21,33). Sono ghiaia i sassi dei fiumi, che l'acqua trascina con la sua corrente. Cocìto simboleggia il pianto delle donne e degli infermi. I letterati affermano che Cocìto è il fiume che scorre nelle regioni degli inferi e che laggiù c'è pianto e gemito per i malvagi. Gradito è dunque l'amore alla precipitosa ghiaia del Cocìto, cioè a coloro che non vogliono resistere energicamente ai piaceri e con le loro cadute di ogni giorno corrono vero l'eterno pianto. E il piacere dell'amore terreno trascina dietro a sé «tutto l'uomo», cioè la forza razionale, quella concupiscibile e quella irascibile. La prudenza del mondo trascina la forza razionale; il piacere della carne trascina quella concupiscibile e la vanagloria quella irascibile.
12. Questi sono anche i tre amici di Giobbe, cioè Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita (cf. Gb 2,11).
    Elifaz s'interpreta «disprezzo del Signore», e Temanita il vento «austro». Egli simboleggia la prudenza mondana, la quale proviene dall'austro, cioè dal vento caldo, che è la cupidigia del mondo, poiché i figli di questo mondo, nel loro genere, sono più prudenti dei figli della luce (cf. Lc 16,8). Questa prudenza mondana disprezza la sapienza del Signore, e perciò dalla sapienza del Signore viene anch'essa disprezzata. Dice Isaia: «Allorché, stanco, finirai di disprezzare, sarai disprezzato» (Is 33,1).
    Bildad s'interpreta «sola vecchiezza» e Suchita «che parla». Egli simboleggia il piacere della carne, che incominciò con i progenitori e di generazione in generazione rende vecchia la pelle dei figli. Questo patrimonio ce lo tramandò il vecchio Adamo; questa vecchiezza ebbe origine dal linguaggio del serpente. Dice infatti il penitente: «Dalla voce del mio gemito», cioè dalla suggestione del piacere che è causa dei miei gemiti, «il mio osso», cioè la mia ragione o la mia forza, «si attaccò alla mia carne» (Sal 101,6), vale a dire alla mia carnalità.
    Zofar s'interpreta «distruzione dell'osservatorio» e Naamatita «decoro». Egli simboleggia la vanagloria, che ha origine dal fatto di ammantarsi di una falsa religione, e a causa di ciò viene distrutto l'osservatorio della contemplazione e ogni altra opera buona. «Hanno ricevuto la loro ricompensa», dice il Signore (Mt 6,5).
    Con questi tre peccati vengono distrutte le tre forze dell'anima, e quindi è necessario che il beato Giobbe che s'interpreta «dolente», cioè il penitente che si duole, per liberarsi dal suo dolore non ascolti, non dia retta a questi tre amici, che egli stesso chiama «miei amici verbosi» (Gb 16,21), chiacchieroni, per poter amare il Signore, Dio suo, con tutte le sue forze.
13. «E con tutta la tua mente». La mente è la parte dell'anima che comprende l'intelligenza e la ragione. È chiamata mente perché è la parte più eminente dell'anima, o anche perché «ricorda» (in lat. mèminit). La mente infatti non è l'anima, ma ciò che è superiore nell'anima, la parte più eccellente, più efficace dell'anima, dalla quale procede l'intelligenza. Infatti l'uomo stesso è detto «immagine di Dio» in ragione della mente. Però tutte queste qualità sono unite all'anima in modo tale che essa resta una entità unica. L'anima è indicata con nomi diversi a seconda degli atti dei quali è causa efficiente. Infatti quando vivifica il corpo, è anima; quando vuole, è animo; quando sa, è mente; quando giudica rettamente, è ragione; quando ispira, è spirito; quando avverte qualcosa, è senso. «Ama, dunque, il Signore Dio tuo, con tutta la tua mente», affinché tutto ciò che ricordi, sai o comprendi, tu lo riferisca all'amore di Dio.
    «Ama il tuo prossimo come te stesso». E su questo argomento vedi il sermone della I domenica dopo Pentecoste, sul vangelo: «C'era un uomo ricco, vestito di porpora e bisso».
    E sullo stesso argomento abbiamo anche una concordanza nel libro di Giobbe, dove dice: «Se visiterai la tua specie non peccherai» (Gb 5,24). Vedi l'esposizione di questo passo nella II parte del Sermone della domenica di Settuagesima, sul vangelo: «In principio Dio creò il cielo e la terra».
14. Con questa seconda parte del vangelo concorda anche la seconda parte dell'epistola: «Questo io dico, un testamento confermato da Dio» (Gal 3,17).
    Il testamento è così chiamato perché è una volontà scritta e confermata alla presenza di testimoni. La volontà di Dio è la volontà del suo amore e dell'amore del prossimo, che fu scritta nella legge della natura, delle tavole, e della grazia, confermata da testimoni, ai quali ha detto: «Questo è il mio comandamento, che vi amiate a vicenda» (Gv 15,12). Questo testamento fu confermato con la morte del testatore. Dice Giovanni: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1), cioè fino alla morte. Questo, non perché con la morte finisca il suo amore, ma perché li amò talmente che l'amore lo portò fino alla morte.
    Ti preghiamo dunque, Signore Gesù, che tu ci leghi con l'amore verso di te e verso il prossimo in modo tale, da riuscire ad amarti «con tutto il cuore», cioè così profondamente da non essere mai distolti dal tuo amore; «con tutta l'anima», cioè con sapienza, per non essere ingannati da altri amori; «con tutte le forze e con tutta la mente», cioè con grande tenerezza per non essere mai indotti a separaci dal tuo amore; ed amare poi il prossimo come noi stessi.
    Accordacelo tu, che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
15. «Fa' questo e vivrai». Dice Giobbe: «La lampada di Dio splendeva sopra il mio capo. Mi lavavo i piedi nel latte e la roccia mi riversava ruscelli di olio» (Gb 29,3. 6). Nella lampada è simboleggiata la predicazione, nel capo la mente, nel latte la compunzione delle lacrime, nei piedi gli affetti e i sentimenti del cuore, nella roccia Cristo e nell'olio la grazia dello Spirito Santo. Quando dunque la lampada della predicazione splende sopra la mente del peccatore, essa lava le sozzure dei piedi, cioè degli affetti disordinati del cuore, nel latte della compunzione che sgorga dall'intensità dell'amore; e così la roccia, cioè Cristo, gli versa ruscelli d'olio, cioè l'abbondanza della grazia dello Spirito Santo, dalla quale illuminato nella vita presente, avrà anche la vita futura nella gloria. Dice infatti il Signore: «Fa' questo, e vivrai».
    Considera queste tre parole: «Fa'», «questo»; «e vivrai». In esse sono indicate tre cose: la dottrina, la vita e la gloria. «Questo», ecco la dottrina; «fa'», ecco la vita; «e vivrai», ecco la gloria. O uomo, ciò che ascolti nella predicazione, eséguilo poi con le opere. Quando splende la lampada sopra il tuo capo, làvati i piedi nel latte, e così vivrai perché la roccia ti verserà ruscelli d'olio, cioè queste parole che senti: «Amerai il Signore Dio tuo, con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente».
    Con questi quattro «modi di amare» concordano le quattro qualità di Giobbe, enumerate all'inizio della sua storia: «C'era nella terra di Uz un uomo chiamato Giobbe: semplice e retto, temeva Dio e rifuggiva dal male» (Gb 1,1). Nella terra di Uz, cioè «del consiglio», dimora il giusto, che mette in pratica tanto i consigli del Signore come i suoi precetti. È semplice per la purezza del cuore, retto nell'affetto dell'anima, teme Dio con l'uso ordinato delle qualità naturali, e rifugge dal male con il fermo proposito della sua volontà.
    «Fa' questo» per essere semplice, cioè senza ripieghi o imbrogli, cercando non la tua lode, ma quella di Dio, e dicendo con Giobbe: «Se vedendo il sole risplendere e la luna chiara avanzare, si è lasciato sedurre in segreto il mio cuore e con la bocca mi sono baciato la mano, questo sarebbe stato un gravissimo peccato e un rinnegare Dio, l'Altissimo» (Gb 31,26-28). Il sole nel suo splendore è figura dell'opera buona che si manifesta. La luna chiara che avanza è figura della buona riputazione la quale, splendendo nella notte di questa vita, prende incremento dalle buone opere.
    «E non si è lasciato sedurre in segreto il mio cuore». Ci sono infatti alcuni che si esaltano con i propri elogi e se ne compiacciono. «E con la mano alla bocca ho mandato un bacio». Nella mano è raffigurata l'opera e nella bocca il discorso. Quindi si bacia la mano con la bocca colui che loda ciò che fa. «E questo è un gravissimo peccato e un rinnegare Dio, l'Altissimo», perché chi attribuisce a se stesso il merito di ciò che fa, dimostra di rinnegare la grazia del suo creatore.
    Fa' questo, fa' cioè in modo da non vedere il sole delle tue opere buone e la luna splendente della tua buona riputazione per non compiacertene, e non lodare ciò che dici o che fai, ma tutto attribuisci al tuo creatore.
16. «Fa' questo», per essere retto. Dice Bildad il Suchita: «Se ti alzerai sul far del giorno, ti rivolgerai a Dio e pregherai l'Onnipotente; se camminerai nella purezza e nella rettitudine, egli certamente veglierà su di te e renderà tranquilla la dimora della tua giustizia. Così che ben poca cosa sarà stata la tua precedente condizione, perché l'ultima sarà molto più splendida» (Gb 8,5-7).
    «Se ti alzerai sul far del giorno», cioè nella contrizione del tuo cuore, «e ti rivolgerai a Dio Onnipotente» con la mente e con il corpo, «e lo pregherai» confessando il tuo peccato e proclamando la sua lode; «se camminerai nella purezza e nella rettitudine» compiendo le opere penitenziali della riparazione, «subito egli veglierà su di te» appena vede il tuo pentimento, «e renderà tranquilla la dimora della tua giustizia» perché hai confessato il tuo peccato; infatti chi fa un giusto giudizio di sé accusandosi nella confessione, rientrerà nel tranquillo possesso del suo corpo, nella quiete della sua coscienza. «Così che ben poca cosa sarà stata la tua precedente condizione... «. Ecco dunque che la penitenza aumenta la grazia nella vita presente e alla fine della vita accumula la gloria eterna. «Fa' questo, dunque, e vivrai».
    «Fa' questo», per essere timorato di Dio e poter dire con Giobbe: «Ho sempre temuto Dio come flutti rigonfi incombenti su di me, e davanti alla sua maestà non potevo resistere» (Gb 31,23). Quando flutti tempestosi minacciano, ai naviganti non gli importa più nulla delle cose materiali, né tornano loro in mente i piaceri della carne; gettano fuori della nave anche quelle cose per le quali avevano intrapreso lunghe navigazioni.
    Teme dunque Dio, come si temono i violenti marosi che incombono su di sé, colui che, aspirando solo alla vera vita, disprezza tutto ciò che ha e possiede quaggiù. E nei marosi rigonfi vede il simbolo della suprema potestà di Dio, quando tutti gli elementi naturali saranno sconvolti (cf. Mt 24,29), e il giudice supremo verrà e porterà tutto a quella conclusione, che i santi ogni giorno paventano.
    «E davanti alla sua maestà non potevo resistere», perché chi medita con serietà e attenzione l'avvento dell'ultimo giudizio, constata che veramente incombe su tutti tale spavento, quale non solo non è dato di provare, ma che ora non ci è dato neppure di minimamente immaginare. «Fa' questo, dunque, e vivrai».
17. E ancora: «Fa' questo» per rifuggire dal male. Zofar il Naamatita dice a Giobbe: «Se allontanerai l'iniquità che è nella tua mano e non farai abitare l'ingiustizia nelle tue tende, allora potrai alzare il volto senza macchia e sarai saldo e non avrai timori. Dimenticherai anche la miseria, e te ne scorderai come di acqua passata. Alla sera ci sarà per te splendore come di mezzogiorno, e quando ti crederai distrutto sorgerai come stella del mattino. Ed avrai fede in quello che speri, e sepolto, dormirai tranquillo. Riposerai e non ci sarà chi ti spaventi» (Gb 11,14-19).
    Commenta Gregorio: «L'iniquità nella mano raffigura il peccato nelle opere, l'opera peccaminosa; l'ingiustizia nella tenda è l'iniquità nella mente. La mente viene chiamata tenda, in quanto in essa ci nascondiamo dentro di noi quando all'esterno non siamo veduti nelle nostre opere. Alzare il volto vuol dire innalzare l'animo a Dio con gli esercizi di pietà: ma questo volto risulta macchiato se la coscienza ci accusa di peccato.
    «E sarai saldo e non avrai timori». Perché tanto meno avrai paura del giudizio, quanto più sarai stato saldo nel bene. «Ti dimenticherai della miseria». Tanto più crudamente sentirai i mali della vita presente, quanto più trascurerai di pensare al bene che verrà. Ma se fisserai il tuo occhio alle cose che dureranno in eterno, ti sembrerà un nulla tutto ciò che devi soffrire, ma che ti aiuta a raggiungere il fine. «E come lo splendore del mezzogiorno». Lo splendore del mezzogiorno al tramonto, raffigura il risveglio delle forze contro la tentazione.
    «E quando ti crederai distrutto... « Spesso infatti ci assalgono prove sì grandi da indurci alla disperazione e al crollo, ma il creatore guarda alla nostra oscurità e fa nuovamente brillare i raggi della luce che ci aveva tolto. E allora ti ritornerà la fiducia nella speranza che ti è data della misericordia divina.
    «Anche sepolto dormirai sicuro». Dormono sepolti al sicuro, coloro che si sottraggono agli onerosi impegni di questo mondo per esaminare attentamente il loro interno nella quiete e nella tranquillità. «Riposerai e non ci sarà chi ti spaventi». Infatti chi fissa il suo desiderio nell'eternità, non essendoci nel mondo cosa alcuna che lo attiri, niente più teme di ciò che è del mondo. «Fa' questo, dunque, e vivrai»: vivrai della vita della grazia in questo mondo, e della vita della gloria nell'altro.
    A questa gloria si degni di guidarci colui che è Vita e Gloria e che è benedetto nei secoli eterni. Amen.
18. «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto» (Lc 10,30). In quest'uomo va inteso Adamo, nella sua umanità, il quale, preso dalla superbia, con la sua caduta e la sua disobbedienza discese dalla beatitudine della Gerusalemme celeste alle miserie e alle privazioni di questa vita, instabile ed esposta all'errore. E proprio per questo «incappò nei briganti», cadde cioè in potere degli angeli della notte, che si trasformano in angeli di luce, ma non sono in grado di mantenersi tali. E non vi sarebbe incappato se egli stesso, andando contro il celeste comandamento, non si fosse consegnato nelle loro mani. E i briganti gli tolgono anche le vesti della grazia spirituale, cioè l'immortalità e l'innocenza, e lo riempiono talmente di ferite, cioè di peccati, da violare anche l'integrità della natura umana, e introdurre per così dire la morte attraverso le viscere aperte.
    Chi conserva intatte le vesti che ha indossato, non può sentire le ferite dei briganti. «Se ne andarono», non perché avessero cessato di insidiarlo, ma perché occultarono i loro attacchi. «Lasciandolo mezzo morto», perché potevano sì spogliarlo dell'immortalità, ma non privarlo del sentimento e della ragione, in modo che l'uomo non avesse più il senso di Dio e la capacità di conoscerlo.
    Il sacerdote e il levita che passano, sono figura del sacerdozio e del ministero dell'antica Legge, o dell'Antico Testamento, quando le piaghe e le ferite del mondo languente si vedevano, ma non venivano curate.
    Il Samaritano, nome che s'interpreta «custode», è figura del Signore, il quale per noi si è fatto uomo, ha intrapreso il cammino della vita terrena ed è venuto presso il ferito, «divenendo simile agli uomini e apparendo in forma umana» (Fil 2,7), affine a noi con l'assumere su di sé le nostre sofferenze, e vicino a noi con l'offrirci la sua misericordia.
    «Fasciò le sue ferite»: condannando i peccati, pose ad essi un freno. «Versa sulle ferite olio» quando offre ai penitenti una speranza, dicendo: «Fate penitenza, perché è vicino il regno dei cieli» (Mt 4,17). «Versa vino» quando nei peccatori infonde il timore del castigo, dicendo: «Ogni albero che non produce frutti buoni sarà tagliato e gettato nel fuoco» (Mt 3,10).
    La cavalcatura è figura della sua carne, nella quale si è presentato a noi; su di essa carica il ferito, perché sul suo corpo ha portato i nostri peccati (cf. 1Pt 2,24). Viene posto sul suo corpo chi crede nella sua incarnazione ed è convinto di essere protetto dai suoi misteri contro le incursioni del nemico.
    «La locanda» è figura della chiesa militante, nella quale vengono ristorati i viaggiatori in cammino verso la patria eterna. Viene condotto alla locanda colui che è posto sulla cavalcatura, perché nessuno può entrare nella chiesa se non è battezzato, se non è «incorporato» al corpo di Cristo.
    «E si prese cura di lui», affinché l'ammalato non trascurasse le prescrizioni che aveva ricevuto. Ma non aveva tempo il Samaritano di restare a lungo sulla terra: doveva ritornare là da dove era disceso. E quindi il «secondo giorno», cioè dopo la sua risurrezione, quando lo splendore della luce eterna rifulse sul mondo più luminoso che prima della passione, «diede due denari», cioè i due Testamenti, nei quali sono racchiusi l'immagine e il nome del Re eterno, «all'albergatore», cioè agli apostoli, perché allora «aprì loro la mente affinché capissero il senso delle Scritture» (Lc 24,45), e fossero così in grado di guidare il popolo.
    «E tutto ciò che spenderai in più». Spende di più l'Apostolo che dice: «Quanto alle vergini non ho alcun comando dal Signore, ma do un consiglio» (1Cor 7,25); e dà di più anche quando non si avvale del diritto di avere uno stipendio (cf. 2Ts 3,9). Quando ritornerà per il giudizio, «rifonderà le spese», dicendo: «Poiché sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: entra nel gaudio del tuo Signore» (Mt 25,21).
    «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo?». Stando al racconto, è chiaro che quello straniero fu «più prossimo» per il cittadino di Gerusalemme, al quale usò misericordia, che non il sacerdote e il levita che erano suoi concittadini. Nessuno ci è più vicino di colui che ha curato le nostre piaghe, perché il capo è una cosa sola con le membra. Amiamolo dunque come Dio e Signore, e amiamolo anche come prossimo; e amiamo anche colui che è imitatore di Cristo. Infatti il vangelo continua: «Fa' anche tu lo stesso». E per mostrare che veramente ami il prossimo come te stesso, fa' con amore tutto ciò che è in tuo potere per alleviare le sue necessità corporali e spirituali.
19. Con questa terza parte del vangelo concorda la terza parte dell'epistola: «Ora non si dà mediatore per una sola persona, e Dio è uno solo. La legge è dunque contro le promesse di Dio? Impossibile! Se infatti fosse stata data una legge capace di conferire la vita, la giustificazione scaturirebbe davvero dalla legge. La Scrittura invece ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, perché ai credenti la promessa venisse data in virtù della fede in Gesù Cristo» (Gal 3,20-22). Ecco che qui ti è detto apertamente che né il sacerdote, né il levita, cioè né il sacrificio né il ministero della antica legge avevano il potere di dare la vita e la giustificazione; ma il solo mediatore, e nostro Samaritano, Gesù Cristo, curò il ferito, ridiede vita a colui che era mezzo morto e, prendendolo su se stesso, lo ricondusse alla locanda della chiesa perché gli fosse data, giacché credeva nello stesso Gesù Cristo, la promessa della vita eterna. Dunque non dal sacerdote o dal levita viene la giustificazione, ma dalla fede in Gesù Cristo.
    «La Scrittura ha racchiuso ogni cosa sotto il peccato». Questo è quanto lo stesso Apostolo dice anche ai Romani: «Dio infatti ha racchiuso tutti nella disobbedienza (nella incredulità), per usare a tutti misericordia» (Rm 11,32), come dicesse: Conosciuti i peccati per mezzo della legge, tutti sono rinchiusi, perché non possano accampare scuse, ma implorino misericordia dal Samaritano, dal nostro mediatore.
    E su questo abbiamo la concordanza in Giobbe: «Non c'è uno [tra noi due] che possa rimproverare entrambi e che ponga la sua mano su tutti e due» (Gb 9,33) sia cioè arbitro? Se due nemici con la spada in mano combattono tra loro, chi oserà frammettersi tra loro e trattenerli, se non uno che sia in buoni rapporti con tutti e due? Dio e l'uomo si avversavano a vicenda: Dio con la spada della pena, l'uomo con la spada della colpa. Nessuno fu in grado di ricomporre questa lite. Venne Cristo, che è imparentato con entrambi perché Figlio di Dio e Figlio dell'uomo, e si pose tra loro e li trattenne. Rimproverò l'uomo perché non continuasse a peccare, e con la sua passione si oppose a Dio Padre perché non colpisse. Pose la sua mano su tutti e due perché diede all'uomo un esempio da praticare, e mostrò a Dio le sue opere, con le quali doveva ritenersi soddisfatto.
    Fratelli carissimi, innalziamo la nostra preghiera a Dio perché guarisca le ferite dei nostri peccati, ci riconcili a sé affinché possiamo essere degni di ritornare, da questa Gerico, alla Gerusalemme celeste dalla quale siamo caduti.
    Ci aiuti egli stesso che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
20. «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico, e incappò nei briganti…», ecc. (Lc 10,30).
    Dice il Signore a Giobbe: «Dimmi, se lo sai, in quale via abita la luce, e dove hanno la loro dimora le tenebre» (Gb 38,18-19). Nella luce è simboleggiata la giustizia, nelle tenebre l'iniquità. La luce abita a Gerusalemme; Gerico è la dimora delle tenebre. Perciò chi scende da Gerusalemme a Gerico, passa dalla luce della giustizia alle tenebre dell'iniquità. Infatti sta scritto: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico», ecc.
    Vedremo quale sia il significato morale dell'uomo, di Gerusalemme e di Gerico, dei briganti, del sacerdote e del levita, del samaritano, dell'olio e del vino, della cavalcatura, della locanda, del locandiere e dei due denari. Per quanto il Signore ce lo concederà, vedremo di concordare con tutti questi elementi alcuni passi del libro di Giobbe.
    Quest'uomo è figura del giusto il quale, quando è dedito alle opere di penitenza, e si mantiene nelle altezze della contemplazione, dicendo con Giobbe: «L'anima mia ha scelto le altezze» (Gb 7,15), senza dubbio abita a Gerusalemme. Allora diventa veramente come Giobbe, uomo semplice, retto, timorato di Dio e alieno dal male, che ha sette figli e tre figlie (cf. Gb 1,1-2).
    I sette figli del giusto sono le sette beatitudini proclamate dal Signore, nel vangelo di Matteo (cf. Mt 5,3-9).
    «Beati i poveri in spirito» (Mt 5,3). Questa beatitudine comprende due atti: la rinuncia alle cose materiali e la contrizione dello spirito, perché anche chi è buono deve ritenersi inutile e inferiore agli altri. I poveri in spirito non cercano cose elevate, ma praticano ciò che porta al timore di Dio e alla vera umiltà. Dice infatti Giobbe: «Cambio il mio volto e mi tormento nel mio dolore. Io mi preoccupavo per tutte le mie opere, perché so che non perdoni al malvagio» (Gb 9,27-28). Cambia il suo volto colui che non ha di se stesso grande concetto, come faceva prima, ma ha nei propri riguardi pensieri umili e dimessi, e così si tormenta nel dolore di quanto ha fatto in precedenza. Il povero in spirito è preoccupato di tutte le sue opere perché ha paura della pigrizia e della malizia. Un amore di Dio piuttosto tiepido produce pigrizia; l'amor proprio, l'amore di sé produce slealtà, in quanto per il bene compiuto si desidera la tacita approvazione del cuore umano, il vento del plauso o qualsiasi altro vantaggio esteriore.
    Beato invece colui «che scuote dalle sue mani ogni regalo» (Is 33,15). Osserva che il «regalo dalla bocca» è la gloria ottenuta per mezzo di appoggi; il «regalo dal cuore» è l'approvazione attesa dal pensiero; il «dono dalla mano» è la consegna materiale del premio. Contro tutto ciò si deve avere quel timore che difende e premunisce, sapendo che Dio non perdona al malvagio. Dio, infatti, anche se chiama i peccatori a penitenza, tuttavia non lascia mai impunito il peccato: o è l'uomo che castiga, o è Dio.
    «Beati i miti perché possederanno la terra» (Mt 5,4). Mite è colui il cui animo non è affetto da asprezze o irritazione, ma che nella semplicità della sua fede è in grado di sopportare con pazienza ogni offesa. Perciò si dice mite, quasi a dire muto, perché non risponde all'offesa che viene fatta. Dice in proposito Giobbe: «Se la grande folla mi intimidì e il disprezzo dei vicini mi spaventò, io preferii starmene in silenzio senza uscire di casa mia» (Gb 31,34). Come se dicesse apertamente: Gli altri dal di fuori si agitavano contro di me, io invece nel mio interno me ne restai tranquillo.
    «E il disprezzo dei vicini mi spaventò». Ci sono quelli che hanno paura di essere disprezzati. Questi vengono costretti ad uscire dalla porta perché, spinti dalle ingiurie, mentre rivelano di sé cose che non si sapevano, vanno per così dire all'aperto attraverso la porta della bocca. Dice Gregorio: Il non desiderare nulla del mondo dà una grande sicurezza in quanto si è fissi nell'immutabile, e non c'è turbamento nello spirito per quanto tutti all'intorno siano sconvolti; e se c'è un turbamento esteriore, questo è dovuto alla fragilità della carne. Chi non ha paura del disprezzo non balza fuori con la lingua. E Agostino: Se coloro con i quali vivi non ti lodano per la tua vita onesta, essi sono in errore; se invece ti lodano tu sei in pericolo.
    «Beati quelli che piangono» (Mt 5,5). Dice Giobbe : «Il mio volto si è gonfiato per il pianto e le mie palpebre si sono annebbiate» (Gb 16,17). E ancora: «Avanzavo piangendo» (Gb 30, 28). Commenta Gregorio: Quell'uomo santo, famoso per ricchezze e onori, avanzava piangendo perché, anche se la gloria del potere lo metteva in evidenza davanti agli uomini, nel suo intimo, con il suo dolore, offriva al Signore il sacrificio di un cuore contrito.
    «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia» (Mt 5,6). Dice Giobbe: «Mi ero rivestito di giustizia come di un manto, e del mio giudizio come di un diadema» (Gb 29,14). Si riveste di giustizia come di un manto colui che da ogni parte si riveste e si protegge con le opere buone, e nessun aspetto della sua attività lascia nuda con il peccato. Il giudizio dei giusti è detto «diadema», perché desiderano essere premiati lassù con quello, e non con le meschine cose terrene.
    «Beati i misericordiosi» (Mt 5,7). E Giobbe: «Mai ho rifiutato ai poveri quanto bramavano, né ho lasciato languire gli occhi della vedova. Mai da solo ho mangiato il mio tozzo di pane senza che ne mangiasse anche l'orfano. Perché dalla mia infanzia è cresciuta insieme con me la compassione, e uscì con me dal seno di mia madre. Mai ho disprezzato chi moriva perché privo di vesti e il povero che non aveva di che coprirsi, e hanno dovuto benedirmi i suoi fianchi e con la lana delle mie pecore si è riscaldato» (Gb 31,16-20).
    «Beati i puri di cuore» (Mt 5,8). E Giobbe: «Il mio cuore non ha seguito i miei occhi e alla mia mano non si è attaccata sozzura. Il mio cuore non è stato mai sedotto da donna, e io mai ho insidiato la porta del mio vicino... Questa è una nefandezza e un grande delitto, e quello è un fuoco divorante fino allo sterminio, che estirpa tutti i germogli» (Gb 31,7. 9. 11-12). Come dicesse: Non ho mai voluto vedere nulla che accendesse la concupiscenza, né vedendolo ho voluto ciò a cui la concupiscenza mi spingeva. Né si attaccò macchia alle mie mani, cioè non c'è stata mai colpa nelle mie azioni. E se talvolta ho avuto qualche pensiero illecito, non ho mai permesso che questo pensiero si traducesse nella realtà. «È un fuoco divorante fino allo sterminio»: perché il fuoco della lussuria non giunge solo a macchiare e contaminare, ma divora fino alla distruzione. «Ed estirpa tutti i germogli»: i germogli raffigurano la santa attività dell'anima: se non si resiste al male della lussuria, vengono distrutte anche le opere che pur sembravano sante.
    «Beati i pacifici» (Mt 5,9). Giobbe: «Mai mi sono sottratto al giudizio nei confronti del mio schiavo o della mia schiava, quando mi intentavano lite: che farei quando Dio si alzerà per giudicare me? E quando mi interrogherà, che cosa potrò rispondergli? Chi ha fatto me nel seno materno, non ha fatto anche lui? Non fu Uno solo a formarci nell'utero?» (Gb 31,13-15). Commenta Gregorio: Giobbe accetta di essere chiamato in giudizio con i suoi schiavi come un loro eguale, perché teme il giudizio di colui che sta al di sopra di tutto. Vede se stesso quale servo del vero Signore, e quindi non si mette al di sopra dei suoi schiavi con la superbia del suo cuore. Chi non ha rifiutato di essere giudicato insieme con i suoi schiavi e le sue schiave, fa capire chiaramente di non essere mai stato arrogante e superbo con nessuno del suo prossimo. Per i potenti praticare la virtù dell'umiltà è una grande cosa, tenuto conto del loro stato e della loro situazione.
21. Queste sette beatitudini sono i sette figli del giusto, e la loro gloria lo rende nobile, potente e famoso. Le tre figlie poi sono la contrizione, la confessione e la riparazione, di cui si è già parlato abbastanza in molte parti [dei sermoni].
    Ecco quanta luce, quanta gloria c'è in Gerusalemme, cioè nella vita santa. Ma quante tenebre e quanta miseria, quando da Gerusalemme si discende a Gerico, nome che s'interpreta «luna» o anche «odore», e sta ad indicare la corrotta prosperità temporale, della quale i figli di questo mondo dicono al predicatore, con le parole di Geremia: «Al discorso che tu hai fatto a noi nel nome del Signore, noi non daremo ascolto; anzi decisamente eseguiremo tutto ciò che uscirà dalla nostra bocca (ciò che abbiamo promesso), cioè sacrificheremo alla regina del cielo e le offriremo libazioni. Da quando abbiamo cessato di offrirle sacrifici, abbiamo sofferto carestia di tutto e siamo stati sterminati dalla spada e dalla fame» (Ger 44,16-17. 18). Regina del cielo era chiamata la luna, nella quale è indicata la corrotta prosperità temporale, della quale i carnali sono schiavi, e se ne vengono privati, credono di morire di fame e di spada, e quindi non vogliono ascoltare la parola del Signore.
    A questa luna non era disceso Giobbe, che diceva: «Mai ho considerato mia forza l'oro, né ho detto all'oro fino: tu sei la mia fiducia! Mai ho goduto perché grandi erano le mie ricchezze e perché molto aveva conquistato la mia mano: non ho contemplato il fulgore del sole, né la luna nella sua chiarità» (Gb 31,24-26). Certamente avrebbe disperato del creatore se avesse posto la sua speranza nelle creature. Nulla, all'infuori di Dio, può bastare allo spirito che sinceramente cerca Dio.
    Scende da Gerusalemme a Gerico colui che, dalla luce della povertà, cade nelle tenebre delle ricchezze. Raccontano che un lupo, vedendo la luna nel pozzo, la credeva una forma di formaggio. Allora, su consiglio della volpe, scese nel pozzo, ma non vi trovò nulla e vi restò dentro deluso e avvilito. Quando i contadini ve lo trovarono, lo massacrarono con una tempesta di pietre.
    C'è anche qualche religioso che nel pozzo della vanità mondana vede la luna procedere luminosa. Crede lo stolto, su consiglio della volpe, cioè della concupiscenza della carne, che ciò che è passeggero e instabile sia invece autentico e duraturo. E il povero illuso scende da Gerusalemme a Gerico, dall'altezza della contemplazione al pozzo della cupidigia, e così incappa nei briganti che lo spogliano, lo coprono di ferite e se ne vanno lasciandolo mezzo morto.
    I briganti raffigurano i cinque sensi del corpo, sui quali abbiamo una concordanza in Giobbe: «Insieme sono venuti i briganti e si sono aperti la strada verso di me e hanno posto l'assedio attorno alla mia tenda» (Gb 19,12). Il brigante è chiamato in lat. latro, da làtito, nascondersi, perché sta nascosto quando tende i suoi agguati. I sensi del corpo, nascosti sotto l'apparenza della necessità, tendono l'insidia del piacere; e per ingannare più facilmente, attaccano tutti insieme e alla misera anima aprono quella larga via che conduce alla morte. La tenda del nostro corpo viene tutt'all'intorno assediata dai sensi, affinché l'anima, da qualsiasi parte voglia uscire, cada in loro potere: allora essi la spogliano dei doni della grazia e la feriscono in quelli della natura. Infatti, dice ancora Giobbe: «Mi ha sbarrato la strada perché non passi e sul mio sentiero ha disteso le tenebre. Mi ha spogliato della mia gloria e mi ha tolto dal capo la corona. Mi ha rovinato sotto ogni aspetto e io perisco, ha sradicato come una pianta la mia speranza» (Gb 19,8-10).
    All'anima sventurata viene sbarrata la strada, quando essa, schiava dei sensi del corpo, vede il bene che c'è da fare ma non riesce a compierlo. E le tenebre vengono distese sul suo sentiero quando non riesce nemmeno più a vedere quello che deve fare. Viene spogliata della gloria quando viene come denudata della grazia dello Spirito Santo; e le viene tolta dal capo la corona quando viene privata anche della retta intenzione della mente: così distrutta va verso la rovina ed è come un albero privo della radice dell'umiltà, sradicato dalla terra dell'eterna stabilità dal vento della suggestione diabolica: ad essa non resta più neppure la speranza della misericordia divina.
22. Ecco a quale miseria si riduce colui che scende da Gerusalemme a Gerico! Deve perciò dolersene e piangere con Giobbe dicendo: «Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: È stato concepito un uomo. Quel giorno si cambi in tenebra, non se ne curi Dio dall'alto, non venga mai ricordato; né brilli mai su di esso la luce. Lo oscurino le tenebre e le ombre della morte, lo copra una densa caligine e lo avvolga da ogni parte l'amarezza. Quella notte se la prenda un turbine tenebroso, non si aggiunga ai giorni dell'anno e non entri nel computo dei mesi. Quella notte sia isolata, nel silenzio, indegna di risuonare di canti di lode. La maledicano quelli che imprecano al giorno, gli esperti ad evocare il Leviatan. Le stelle vengano oscurate dalla sua caligine; attenda la luce ma senza mai vederla, e non veda il momento dell'aurora che sorge, perché essa non chiuse il varco del ventre che mi ha portato e non ha sottratto il male alla vista dei miei occhi. Perché non sono morto fin dal seno di mia madre? Perché non spirai appena uscito dal grembo? Perché sono stato accolto sulle ginocchia? Perché allattato alle mammelle?» (Gb 3,3-12).
    Considera che il giorno simboleggia il piacere del peccato, la notte la cecità della mente. L'uomo può essere descritto sotto tre punti di vista: della sua natura, della sua colpa e della sua fragilità. È giorno quando l'uomo nasce, è notte quando viene concepito, perché non è travolto dal piacere del peccato se prima non viene reso debole, fragile dalle tenebre che invadono la sua mente.
    Ma «perisca il giorno», cioè il piacere del peccato sia distrutto dalla forza della giustizia. «E perisca la notte»: quello che la mente accecata compie dando il consenso, non avendo prima ponderato con cautela le lusinghe del piacere, lo distrugga la penitenza. E affinché la colpa, che incomincia con le lusinghe, non trascini alla morte, «il giorno si tramuti in tenebra», vale a dire, all'inizio del piacere si deve vedere a quale mortale conclusione la colpa trascini, e quindi deve essere punita [la notte] con la penitenza. E se viene punita in questo modo «Dio più non la ricerchi» nel giudizio, per punirla, e non la illumini, non la metta in evidenza. Viene messo in luce, in evidenza, ciò che viene rinfacciato; invece ciò che dal giudice non viene ricordato, viene per così dire coperto e dimenticato. Infatti sta scritto: «Beati coloro i cui peccati sono stati coperti» (Sal 31,1; Rm 4,7), per non essere messi in mostra davanti agli uomini.
    «Le tenebre non rischiarino, ma oscurino» il giorno del piacere, perché non venga visto da colui che tutto vede. «Le tenebre» sono i gemiti della penitenza o anche i giudizi misteriosi di Dio, con cui, prevenuti dalla sua grazia, veniamo assolti e che noi non siamo capaci di meritare. «L'ombra della morte» è la morte di Cristo secondo la carne, che ha distrutto la nostra duplice morte. Egli infatti restò nel sepolcro un giorno e due notti, perché unì la luce della sua unica morte alle tenebre della nostra duplice morte.
    Viene detta «vera morte» quella che separa l'anima da Dio; invece è «ombra di morte» quella che separa l'anima dal corpo. In altro senso: è detta «ombra di morte» la dimenticanza, che fa in modo che qualcosa non sia più nella memoria, come la morte fa sì che non ci sia più ciò che ci tiene attaccati alla vita.
    «Copra quel giorno una densa caligine», cioè la confusione della mente che aspira alla gloria, «e da ogni parte sia avvolto dell'amarezza» della penitenza. «Quella notte se la prenda un turbine tenebroso», come dicesse: Un turbine di tempesta, suscitato dallo spirito di amarezza, che offusca di tristezza la mente. Questo è lo spirito (il vento) che squarcia la navi di Tarsis (cf. Sal 47,8), è la forza della compunzione, che umilia le menti del mare, cioè quelle attaccate al mondo, irrorandole di salutare rugiada.
    «Non venga aggiunto ai giorni dell'anno e non entri nel computo dei mesi». L'anno della nostra luce si compie quando, all'arrivo del giudice, ha termine il nostro pellegrinaggio terreno. I giorni dell'anno sono le singole virtù; i mesi sono i vari atti di virtù. Il giusto teme che il giudice voglia compensare, mettere a confronto, con questi atti di virtù i peccati commessi; e allora prega che in quel momento ricompensi il bene fatto, senza tener troppo conto del male commesso. Infatti se questa notte (il male) fosse conteggiata con i giorni (il bene), tutto sarebbe oscurato. Perché dunque in quel momento non venga conteggiata, impugniamola adesso, perché nessuna colpa resti impunita, e nessuno difenda o giustifichi ciò che ha fatto, aggiungendo così malizia a malizia. Infatti soggiunge: «Quella notte sia isolata, nel silenzio, indegna di risuonare di canti di lode». Ci sono quelli che approvano e difendono il male, e così il peccato non è uno solo, ma se ne commettono due. Contro costoro dice l'Ecclesiastico: «Hai peccato: non continuare» a peccare (Eccli 21,1), cioè a scusare e difendere il male fatto. Invece osteggia adeguatamente il male, colui che mai brama la prosperità di questo mondo.
    Infatti prosegue: «La maledicano quelli che imprecano al giorno». Colpiscono efficacemente la notte con la penitenza, coloro che calpestano il luccichio della prosperità, che non hanno «il giorno» del piacere. Oppure: il giorno simboleggia la suggestione del nemico. E il senso è questo: espiano veramente i peccati passati, coloro che sanno scoprire l'inganno del seduttore anche nella suggestione piacevole, provocando così ancor più contro di sé il Leviatan (il diavolo).
    Su questo vedi il Sermone della III domenica di Quaresima, IV parte, sul vangelo: «Quando lo spirito immondo esce da un uomo».
    Ma poiché, debellati i vizi, resta sempre qualche macchia, se pur minima, che non può essere eliminata, perché il vincitore non vada in superbia, aggiunge: «Le stelle siano oscurate dalla sua caligine», dalla caligine della notte, poiché anche quelli che risplendono per le loro virtù conservano qualche resto della notte, che resiste per un complesso di circostanze; e questo perché rifulgano ancor più, proprio a motivo di quelle imperfezioni che essi non vorrebbero, e dalle quali sono umiliati e posti in ombra. Si legge in proposito nel libro di Giosuè che, nella Terra Promessa, i Cananei non furono uccisi, ma divennero tributari della tribù di Efraim (cf. Gs 17,13); infatti quando con la speranza entriamo nella sfera delle cose celesti, pur in mezzo a opere perfette rimangono dei vizi: questi tuttavia sopravvivono perché ci esercitiamo nella virtù dell'umiltà, e perché non monti in superbia colui che non è in grado di eliminare ogni male, sia pur piccolo.
    E anche nel libro dei Giudici: «Queste sono le nazioni che il Signore ha risparmiato, per mettere alla prova Israele per mezzo di esse» (Gdc 3,1); sono cioè i vizi, con i quali il giusto è sempre alle prese, e mentre ha paura di essere vinto, viene represso in lui l'orgoglio per le proprie virtù, e di fronte ai piccoli difetti impara a capire che non è stato lui a vincere i più gravi.
    Altro senso: «Le stelle siano oscurate dalla caligine di quella notte», perché la notte, cioè il consenso alla colpa, tramandataci da Adamo, confonde talmente la vista, che anche quelli che brillano come astri di fronte al mondo, non sono in grado di vedere la luce eterna com'è veramente. E soggiunge: «Attenda la luce e non la veda», perché per quanto fervore abbiano in questo esilio, tuttavia finché sono in questa carne non vedranno mai quella luce com'è veramente, a motivo della condanna alla cecità, nella quale sono nati.
    «Né vedano il sorgere dell'aurora». Il sorgere dell'aurora simboleggia la nuova nascita della risurrezione finale, nella quale i santi nasceranno nella loro carne alla visione dell'eterna luce. Ma per quanto quaggiù gli eletti risplendano, non potranno mai comprendere come sarà la gloria della nuova nascita. Questa notte non chiuse, ma aprì le porte del ventre, perché all'uomo concepito al peccato, aprì le brame della concupiscenza. Aperte quindi queste porte, cioè le brame della concupiscenza carnale, siamo trascinati agli infiniti mali della corruzione. Perciò oppressi gemiamo, perché giustizia vuole che ciò che abbiamo fatto di nostra volontà, lo dobbiamo poi subire anche nolenti.
    «Perché non sono morto nella matrice materna?». La matrice, nella quale l'uomo viene concepito nel peccato, simboleggia la cattiva suggestione. Ah, fossi morto, mi fossi cioè ritenuto come morto in essa, in modo che la suggestione non mi trascinasse al piacere. «Perché non spirai appena uscito dal grembo?». È uscito dal grembo colui che, concepito nel peccato, è trascinato fuori dal piacere: ma fossi almeno perito in quel piacere, per non giungere fino alla follia di dare il consenso .
    «Perché sono stato accolto sulle ginocchia?». Si è accolti sulle ginocchia, quando tutti sensi e le membra, a motivo del consenso dello spirito, si sottomettono, si piegano al compimento dell'opera cattiva, come le ginocchia si piegano ad accogliere il neonato. «Perché allattato alle mammelle?». Si è allattati alle mammelle quando si è incoraggiati (al male) con vana sicurezza e ridicole scuse.
    Osserva anche che la colpa si commette dapprima di nascosto, e allora si è nella matrice; poi si commette apertamente, senza vergogna, davanti agli uomini, e allora esce nell'utero; in seguito diventa abitudine, e allora è come accolta sulle ginocchia; alla fine viene alimentata o da falsa speranza o dalla disperazione, e allora è come allattata alle mammelle.
23. Ecco, adesso vedi chiaramente quanto deve piangere e quanto deve pentirsi colui che discende da Gerusalemme a Gerico. E continua la parabola: «Per caso un sacerdote scendeva per quella medesima strada, lo vide e passò oltre. Anche un levita, giuntogli accanto, lo vide e passò oltre» (Lc 10,31-32).
    Nel sacerdote è raffigurata la passione del comando, nel levita l'ipocrisia. E su queste due passioni troviamo un riscontro nel libro dei Giudici, dove si legge che Abimelech combatteva valorosamente per conquistare una torre: «avvicinatosi alla porta, tentava di appiccarle il fuoco. Ma una donna gettò dall'alto un pezzo di màcina, colpì Abimelech alla testa e gli spaccò il cranio. Egli chiamò subito il suo armìgero e gli disse: Presto, tira fuori la spada e colpiscimi; perché non si dica di me che sono stato ucciso da una donna. Egli obbedì al comando del re, e lo uccise» (Gdc 9,52-54).
    Vediamo che cosa significhino Abimelech e la torre, la porta e il fuoco, la donna e il pezzo di màcina, il cranio, e l'armìgero di Abimelech.
    Abimelech s'interpreta «mio padre re», e sta indicare colui che vuole comandare agli altri come padre e re. La torre raffigura l'altezza della dignità, o dell'autorità, alla quale si avvicina per conquistarla. Ma per poterla «bruciare» più facilmente, si serve di monete d'oro e d'argento, raffigurate nel fuoco - del quale dice il Profeta: «Il fuoco sta nella casa dell'empio» (Mic 6,10) -, e le mette sotto la porta della torre, le dà cioè a coloro che sembrano essere la porta della chiesa, e poter così per mezzo di essi, bruciati da questo fuoco, salire sulla torre.
    Oppure anche: «appicca il fuoco alla porta», cioè ai portieri e ai notai della loro curia, che sono degli infami scrocconi, che succhiano il sangue dei poveri, svuotano le borse dei ricchi, e distribuiscono tutto a nipoti e nipotine, e forse anche figli e figlie; ratificano petizioni in carta, e in cambio incassano somme d'oro e d'argento. Di costoro dice Giobbe: «Il fuoco divorerà le tende di coloro che volentieri accettano regali» (Gb 15,34). E sempre Giobbe: «Sono nell'abbondanza le tende dei predoni», o ladroni, «ed essi provocano sfacciatamente Dio, che pure ha posto lui stesso tutte quelle cose nelle loro mani» (Gb 12,6). E ancora: «Sono come ònagri nel deserto: escono per il loro lavoro, braccano la preda, procurano il cibo ai figli», e anche alle loro nipotine; «lasciano nudi gli uomini privandoli degli indumenti. Nelle città fecero gemere gli uomini, e le anime dei feriti chiameranno aiuto: ma Dio non lascerà tali cose impunite. Essi si ribellarono alla luce» (Gb 24,5. 7. 12-13), e quindi saranno privati della luce della grazia e di quella della gloria.
    Lo sventurato Abimelech, che brama il potere, certamente non per essere utile, intraprende il viaggio senza temere gli imbrogli di chi lo ospita, il gelo delle Alpi, il caldo dell'Italia, i rischi e i pericoli della Toscana, i briganti di Roma. Gli basta avvicinarsi alla porta: appicca il fuoco, viene alleggerito dell'oro, viene caricato del piombo appeso al rescritto. E vediamo che cosa capita a questo disgraziato, bramoso di salire in alto.
    «Ecco una donna». La donna è questa nostra carne; il pezzo di màcina, con la quale gli viene rotto il cranio, raffigura la bramosia dell'ambizioso, per la quale le sue energie mentali si disperdono nelle cose di questo mondo, ed egli stesso sarà poi distrutto dalla condanna del severo giudizio. Dice Giobbe: «Sfuggirà alle armi di ferro, ma lo colpirà l'arco di bronzo. La spada, estratta e sguainata dal fodero, lo folgorerà nella sua amarezza» (Gb 20,24-25).
    Commenta Gregorio: Le armi di ferro sono le necessità della vita presente, che pesano gravemente. Nel bronzo è raffigurata l'eterna sentenza la quale, essendo disattesa dal malvagio, è giustamente paragonata all'arco che colpisce a tradimento. «Sfuggirà perciò alle armi di ferro», perché, preoccupato delle necessità presenti, ruberà molto con la sua avarizia, esponendosi però ai colpi dell'eterno giudizio.
    «Estratta e sguainata»: il malvagio, mentre ordisce misfatti nel suo pensiero, è come una spada nel fodero; ma esce dal fodero quando si palesa nell'esecuzione del suo misfatto. Con la parola «folgorazione» viene indicato il lampeggio prodotto dalla spada mentre colpisce. Quindi, di colui che, investito di autorità e di potere, fa del male agli altri, si dice che folgora perché, mentre di fronte ai buoni si innalza come in una luce di gloria, poi dalla vita stessa dei buoni viene condannato e tormentato.
    «Il re chiamò il suo armìgero». L'armigero è l'aiutante che porta le armi, ma con esse non combatte: quindi raffigura l'ipocrita; e lo sventurato Abimelech vuole morire per mano dell'armìgero, piuttosto che per mano di una donna, cioè a motivo dei peccati carnali. Dice Giobbe a proposito: «Quando è il momento, lo struzzo stende in alto le sue ali» (Gb 39,18). Lo struzzo, le cui penne assomigliano a quelle della cicogna e dello sparviero, raffigura l'ipocrita che con le penne di una falsa santità allunga le frange del suo vestito. Costui ha le ali chiuse, tiene cioè nascosti i suoi pensieri, ma quando è il momento, le spiega verso l'alto, vale a dire che quando si presenta l'occasione propizia, rende palesi i suoi intenti con grande superbia. Ma per intanto si finge santo, e quindi tiene chiuse in se stesso le cose che pensa, e tiene per così dire le ali umilmente piegate sopra il corpo.
    Adesso capisci chiaramente chi sia il sacerdote che offre agli dei, come sacrifici, le sacre monete d'oro e d'argento: agli dèi, dei quali è detto: «Tutti gli dèi delle nazioni sono demoni» (Sal 95,5); e sai anche chi sia il levita, che è il suo ministro.
24. Ricordiamoci dunque che il sacerdote e il levita, pur vedendo quell'uomo spogliato di tutto, piagato e mezzo morto, passarono oltre senza curarsene.
    Su questo abbiamo una concordanza in Giobbe: «Lo struzzo abbandona le sue uova alla terra: forse che tu le riscalderai nella polvere? Dimentica che un piede le schiaccerà, o che una fiera della campagna le stritolerà. Tratta duramente i suoi figli, come non fossero suoi» (Gb 39,14-16). Lo struzzo appunto è l'ipocrita che ambisce le grandezze temporali e abbandona le sue uova, cioè i figli che ha messo al mondo: non ne ha cura alcuna e non si preoccupa che, privi di amorevoli esortazioni, di istruzione e di vigilanza, vengano corrotti dai cattivi esempi, o portati alla rovina dalle fiere del campo. Il campo è il mondo e la fiera è il diavolo il quale, tendendo i suoi agguati con le ladrerie di questo mondo, spogliando e ferendo l'anima che discende da Gerusalemme a Gerico, si sazia ogni giorno della morte dell'uomo. E il senso è questo: anche se il diavolo, imperversando in questo mondo, assale coloro che sono stimati per la loro buona condotta, l'ipocrita non se ne preoccupa minimamente. Per questo è detto: «Tratta duramente i suoi figli»: chi non è ricolmo e animato dalla grazia e dall'amore, guarda il suo prossimo come un estraneo, anche se è stato lui a generarlo a Dio.
    A ragione dunque è scritto: «Abbandona le sue uova alla terra». Abbandonare le uova alla terra, vuol dire non offrire ai figli alcun esempio di vita santa. Però, siccome la provvidenza celeste non li abbandona, soggiunge: «Tu forse li riscalderai nella polvere?». Come dicesse: Sono io che li riscaldo nella polvere, perché infiammo con il fuoco del mio amore le anime dei fanciulli, abbandonate in mezzo ai peccatori, i quali sono come «la polvere che il vento disperde dalla faccia della terra» (Sal 1,4).
25. E il vangelo giustamente continua: «Invece un samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi sopra olio e vino; poi, caricatolo sul suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente estrasse due denari e li diede al locandiere…», ecc. (Lc 10,33-35).
    Il samaritano, nome che s'interpreta «custode», simboleggia la grazia dello Spirito Santo, della quale dice Giobbe: «Chi mi concederà di ritornare com'ero ai mesi passati, ai giorni nei quali Dio era il mio custode? Quando brillava la sua lucerna sopra il mio capo e alla sua luce camminavo anche in mezzo alle tenebre. Com'ero ai giorni della mia giovinezza, quando Dio abitava nel segreto della mia tenda. Quando l'Onnipotente stava con me e attorno a me stavano i miei figli» (Gb 29,2-5).
    L'anima che discende da Gerusalemme a Gerico e che incappa nei briganti, vedendosi spogliata di tutto e ferita, pensando alla sua innocenza battesimale, alla dolcezza della contemplazione, alla purezza della sua vita di un tempo, sospira e piange dicendo: «Chi mi concederà di ritornare come ero un tempo», cioè alla vita santa; «ai giorni», vale a dire alla coscienza piena di luce, alla luce del buon esempio, quando Dio custodiva il mio entrare e il mio uscire? (cf. Sal 120,8): il mio entrare nella contemplazione e il mio uscire all'attività; il mio entrare nella coscienza e il mio uscire nella stima del prossimo.
    «Quando brillava la sua lucerna», la sua grazia, «sopra il mio capo», nella mia mente, «e alla sua luce camminavo» nei sentieri della giustizia, «anche in mezzo alle tenebre», in mezzo cioè ai falsi fratelli.
    Ahimè, ahimè, chi mi concederà che io ritorni com'ero nei giorni della mia giovinezza, cioè dell'innocenza battesimale e della vita intemerata; «quando Dio abitava nel segreto della mia tenda», affinché nel segreto io progredissi nel bene: e con queste parole si pente anche della finzione di ostentare Dio in pubblico, ma poi non riconoscerlo in segreto. Ma quando uscii dal segreto incappai nei briganti. Finché ero nel segreto «l'Onnipotente era con me e attorno a me c'erano i miei figli», vale a dire i sensi del mio corpo, che mi obbedivano umilmente. Ma ahimè, ahimè, sventurato!, quando scesi da Gerusalemme uscii dal segreto e i miei figli sono diventati per me i briganti che mi spogliano e mi feriscono.
    Vediamo però che cosa faccia all'anima ferita la grazia dello Spirito Santo «che prega», cioè che fa pregare, con gemiti inesprimibili (cf. Rm 8,26), che è «padre dei poveri, datore di doni e luce dei cuori» (Sequenza della messa di Pentecoste).
    «Fasciò le sue ferite versandovi sopra olio e vino». Nell'olio che illumina è simboleggiato il riconoscimento del peccato, nel vino che inebria la compunzione delle lacrime: compunzione che inebria l'anima affinché si dimentichi delle cose temporali. L'ebbrezza poi provoca anche le lacrime. Su queste due cose abbiamo la concordanza in Giobbe che dice: «Per quali vie si diffonde la luce e il calore si divide (si spande) sulla terra? Chi segnò il corso alla pioggia torrenziale e la strada al tuono rumoreggiante, per far piovere sopra la terra?» (Gb 38,24-26).
    La via è la grazia dello Spirito Santo, per mezzo della quale si diffonde la luce, si riconosce cioè il proprio peccato, e quindi anche il calore, cioè l'ardore della contrizione, si diffonde (si divide) sulla terra, vale a dire fa sì che il peccatore divida il corpo del peccato, distingua cioè punto per punto tra il peccato stesso e le sue circostanze; così dà corso a una pioggia torrenziale, ossia alla compunzione delle lacrime, la cui violenza travolge gli ostacoli della colpa e della vergogna, dando il via al tuono fragoroso, aprendo cioè la via alla confessione, che come il tuono terrorizza i demoni.
    Si legge infatti nel primo libro dei Re: «Il Signore fece scoppiare tuoni fragorosi sopra i filistei terrorizzandoli, e così furono sbaragliati dai figli d'Israele» (1Re 7,10). Con il tuono e con la spada i filistei, cioè i demoni, terrorizzati, sono colpiti dai figli d'Israele, cioè dai veri penitenti. Giustamente quindi è detto: «Versando olio e vino fasciò le sue ferite». La grazia dello Spirito Santo fascia le ferite dell'anima, quando ripromette al penitente la speranza del perdono e la veste di gloria.
    «Caricatolo sul suo giumento», ecc. Il giumento, che suona come giovamento, è simbolo dell'obbedienza, la quale dice: «Stavo davanti a te come un giumento» (Sal 72,23). Infatti, finché l'anima si sottomette alla volontà altrui, è aiutata e trasportata: mentre porta, è portata. La locanda, in lat. stabulum (stalla), simboleggia il fetore del proprio peccato e il locandiere lo spirito di contrizione. I due denari sono le due specie di pentimento, cioè quello dei peccati commessi e quello dei peccati di omissione. Il penitente infatti deve piangere perché ha fatto ciò che è era proibito, ma anche perché ha omesso di fare ciò che era comandato.
    L'anima ferita dal peccato, ma curata poi con il farmaco dello Spirito Santo, adagiata sul giumento dell'obbedienza viene portata ad stabulum, cioè al fetore della propria iniquità, per fermarsi lì insieme con Giobbe, del quale è detto appunto che «con un coccio si raschiava la marcia, seduto sopra un letamaio» (Gb 2,8).
    Il coccio è un pezzo di vaso di terracotta; si chiama in lat. testa perché da molle che è, diventa duro con la cottura, quindi testa è come dire tosta. Il coccio simboleggia la durezza della penitenza, con la quale il penitente, seduto sul letamaio, cioè umiliandosi nel fetore del suo peccato, deve raschiare la marcia delle sue iniquità. La marcia è detta in lat. sanies, perché è prodotta dal sangue il quale, alterato dal bruciore prodotto dalla ferita, si cambia in marcia. La marcia perciò è la putrefazione del sangue, e quindi il penitente deve raschiare la marcia della colpa con la durezza della penitenza.
    E fa' attenzione che nessuno è in grado di ritornare a Gerusalemme, se non viene caricato sopra il giumento dell'obbedienza. Per questo il Signore fece il suo ingresso in Gerusalemme seduto sopra un asinello. Di questo asinello dice Neemia: «Non c'era posto (per cui passare) per il giumento sul quale ero seduto» (2Esd 2,14). Il nostro corpo, che dev'essere come un umile giumento, obbediente e spregevole, sul quale deve stare seduta l'anima, non deve trovar posto in questo mondo, perché il posto dell'uomo è sopra tutte le cose. Sta scritto infatti: «Lo hai posto al di sopra di tutte le opere delle tue mani» (Sal 8,7).
    Considera ancora ciò che si legge nella Storia Naturale: quando il giumento è nella fase dell'estro, se gli si taglia la criniera, si calma. Così dobbiamo fare anche con il nostro corpo: quando vuole godere dell'abbondanza delle cose temporali ed è portato alla lussuria dalla sfrontatezza della carne, allora dobbiamo sfigurarlo e tosargli la testa, come si fa con i pazzi. Per questo si legge di Giobbe che, rasatosi la testa, cadde a terra (cf. Gb 1,20). Anche a chi è affetto di scabbia o da altra grave malattia, viene di solito rasata la testa. A questo nostro corpo, scabbioso e malato, dobbiamo tagliare i capelli delle ricchezze e dei piaceri, affinché, come un animale mansueto, sia in grado di portarci alla città di Gerusalemme.
    Fratelli carissimi, imploriamo dallo Spirito Santo la grazia, affinché versi sulle piaghe dell'anima nostra l'olio e il vino della sua misericordia, le fasci, ci carichi sul giumento dell'obbedienza, ci conduca alla locanda, cioè al ricordo delle nostre iniquità, ci affidi al locandiere, vale a dire allo spirito di contrizione, perché rimaniamo sotto le sue cure finché con i due denari, cioè con la duplice specie di compunzione, ricuperiamo il primitivo stato di salute che abbiamo perduto. Ci metta in grado, ricuperata la salute, di ritornare a Gerusalemme, dalla quale siamo caduti.
    Ce lo conceda egli stesso che, Dio unico con il Padre e il Figlio, vive e regna nei secoli eterni. E ogni anima penitente risponda: Amen, alleluia!