Sermoni Domenicali

DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE

1. In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: «Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore» (Mt 7,15).
    Nel quarto libro dei Re si racconta che la donna sunammita parlò di Eliseo a suo marito, e gli disse: «Io sento che è un uomo di Dio, un santo, questi che passa spesso da noi. Prepariamogli una piccola stanza nel piano di sopra, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e una lampada, in modo che venendo da noi vi si possa ritirare» (4Re 4,9-10). Vediamo che cosa significhino Eliseo, la Sunammita e suo marito, la stanza, il letto, la tavola, la sedia e la lampada.
    Eliseo s'interpreta «salvezza del mio Dio», ed è figura di Gesù Cristo, mandato da Dio Padre per la salvezza del suo popolo. Gesù Cristo venne alla Sunammita, che s'interpreta «schiava» o anche «rosso scarlatto». E questa è l'anima che Gesù Cristo ha riscattata con il suo sangue dalla schiavitù del diavolo: presso quest'anima Gesù Cristo è ospitato mentre le dà la vita; passa oltre quando le sottrae la sua grazia perché, avendo di se stessa un concetto troppo alto, si umili. Il marito di questa sunammita è figura dell'intelletto razionale il quale, con le forze e il sentimento che ha per sua natura o che gli sono stati concessi per grazia, deve dirigere l'anima, deve consigliarla, deve curarla, e suscitare da lei una progenie di virtù e di opere buone. Con questo marito l'anima si consiglia e dice: «Sono convinta che costui è un uomo di Dio, un santo…», ecc.
    Osserva ancora che nella piccola stanza è simboleggiata l'unità, nel letto la castità, nel tavolo la soavità della contemplazione, nella sedia il disprezzo di sé e nella lampada la luce del buon esempio. La stanza è chiamata in lat. coenaculum, cenacolo, cioè locale in cui varie persone mangiano insieme, come anche coenobium, cenobio, che vuol dire «riunione di molti»; e quindi sta ad indicare la riunione, l'unità dei fedeli, della quale lo sposo del Cantico dei Cantici dice: «Mi hai ferito il cuore, sorella, mia sposa, con uno dei tuoi occhi e con un solo ricciolo del tuo collo» (Ct 4,9). «Un solo occhio» (un solo sguardo) simboleggia l'unità dei prelati, i quali devono illuminare tutta la chiesa, come l'occhio illumina tutto il corpo (cf. Mt 6,22). Nei riccioli che scendono dal capo sono raffigurati tutti i fedeli, uniti a Cristo, loro capo. Quindi lo sposo viene ferito dalla ferita dell'amore per amare la chiesa, quando vede in essa l'unità dei prelati in concordia con i sudditi, con i fedeli. E il cenacolo dell'unità deve essere piccolo per mezzo dell'umiltà, virtù che è come il cemento che lega tra loro sudditi e prelati.
    Nel letto poi è indicata la castità. Leggiamo nel Cantico dei Cantici: «Il nostro letto è fiorito» (Ct 1,15). Il letto della coscienza dev'essere fiorito dei gigli della purezza. Così nella tavola è indicata la soavità della contemplazione, della quale dice il salmo: «Davanti a me tu prepari una mensa» (Sal 22,5). La mente, quando viene innalzata a gustare quella dolcezza, non dà più alcuna importanza a sofferenze o a tribolazioni. Quella dolcezza infatti influisce nella mente in modo tale che non può più angustiarsi per la sofferenza. Nella sedia, che deriva da «sedersi», e che suona come sedda, sella, è simboleggiato il disprezzo di sé. In questa sedia sedeva colui del quale parla Geremia: «Egli sederà solitario e tacerà» (Lam 3,28). «Sederà» in segno di disprezzo di sé, «solitario», in disparte dal tumulto delle cose del secolo e dai ripensamenti, e «tacerà», non pronuncerà parole maligne. Nella lampada, che non dev'essere occultata sotto il moggio ma posta sul monte, per illuminare quelli che sono nella casa (cf. Mt 5,15), è indicata la luce del buon esempio. Questa è la dimora, così arredata su consiglio del marito, che l'anima deve preparare per il vero Eliseo, e non per i falsi profeti, vale a dire per gli eretici e gli ipocriti, dei quali il Signore nel vangelo di oggi dice: «Guardatevi dai falsi profeti…», ecc.
2. Fa' attenzione che in questo vangelo sono posti in evidenza tre fatti. Primo, la simulazione degli ipocriti, quando dice: «Guardatevi dai falsi profeti». Secondo, i frutti dell'albero buono e il taglio di quello cattivo, quando continua: «Così ogni albero buono», ecc. Terzo, la cacciata dal regno di chi dice e non fa, e l'accoglienza nel regno di chi compie la volontà di Dio, quando conclude: «Non chi dice: Signore, Signore», ecc. Con queste tre parti del vangelo vedremo la concordanza di alcuni racconti presi dal quarto libro dei Re.
    Nell'introito della messa di questa domenica si canta: «Ecco, Dio è il mio aiuto» (Sal 53,6). Si legge quindi l'epistola del beato Paolo apostolo ai Romani: «Noi siamo debitori, ma non verso la carne» (Rm 8,12); divideremo il brano in tre parti, trovandone la concordanza con le tre parti del vangelo. Prima parte: «Siamo debitori». Seconda parte: «Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio». Terza parte: «Lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito».
3. «Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi?» (Mt 7,15-16).
    Fa' attenzione a queste tre cose: falsi profeti, veste di pecore, lupi rapaci. I falsi profeti sono gli ipocriti, dei quali dice Geremia: «Dai profeti di Gerusalemme è uscita la corruzione su tutta la terra» (Ger 23,15). Questi sono i profeti di Gezabel, nome che s'interpreta «sterquilinio»; infatti, mentre ricercano i saluti nelle piazze e i primi seggi nelle sinagoghe (cf. Mt 23,6-7), profeteggiano a favore dello sterquilinio, essi che sono diventati «come lo sterco della terra» (Sal 82,11). Di questi profeti parla anche Michea: «Così dice il Signore contro i profeti che seducono il mio popolo, che mordono con i loro denti e predicano la pace; e a chi non mette niente nella loro bocca, dichiarano la guerra santa» (Mic 3,5).
    Considera queste quattro parole: seducono, mordono, predicano e dichiarano. I falsi profeti seducono, con la persuasione attirano a sé gli innocenti. Mordono con le detrazioni e le calunnie. Mordono: da mordere viene morbus, malattia, così chiamato, il morbo, perché è via alla morte. La calunnia (la detrazione) è una malattia per la quale, come per una via, la morte arriva all'anima. Predicano la pace, per farsi vedere pacifici, essi che mai hanno trovato la via della pace (cf. Sal 13,3). Questi sono i sacerdoti ladri, che mordono con vituperi coloro che non danno, e a coloro che danno predicano la pace e promettono la misericordia, e a coloro che non danno dichiarano la guerra santa. Infatti ritengono cosa santa perseguitare quelli che non danno, e li feriscono con la spada della scomunica. Che se poi danno, li benedicono con una solenne benedizione, essi che sono maledetti dal Signore, il quale maledice anche le loro benedizioni (cf. Ml 2,2). A quelli che danno, infatti, dicono: Voi siete figli della chiesa e onorate la madre vostra, perché soffrite con lei per la sua povertà, e quindi siete benedetti perché a lei date.
    Ma ditemi, o falsi profeti, ladri e omicidi, chi è la chiesa, se non l'anima fedele? Per renderla pura, senza macchia né ruga, il Signore ha consegnato alla morte la sua anima, cioè la sua vita (cf. Ef 5,27). Chi dà a questa chiesa ciò che ha, il Signore lo benedirà. Ma ahimè, ahimè, oggi un'asina cade a terra e c'è subito pronto chi l'aiuta a rialzarsi; ma va in rovina un'anima e non c'è nessuno che la soccorra! Se fossero dei profeti veri, direbbero con il vero profeta Geremia: «Guai a me, perché l'anima mia viene meno a motivo degli uccisi» (Ger 4,31). «Guai a me a causa della tribolazione del mio popolo» (Ger 10,19). «Chi verserà l'acqua sul mio capo e chi darà ai miei occhi un fonte di lacrime, e piangerò giorno e notte sugli uccisi della figlia del mio popolo?» (Ger 9,1).
    Abbiamo poi la concordanza del quarto libro dei Re, dove si racconta che «l'uomo di Dio, Eliseo, si turbò e pianse. E Cazael gli disse: Per quale motivo piange il mio signore? E quello rispose: Perché conosco i mali che farai ai figli d'Israele: incendierai e brucerai le loro città fortificate, passerai a fil di spada i loro giovani, sfracellerai i loro bambini e sventrerai le loro donne incinte» (4Re 8,11-12).
    Eliseo è figura del degno prelato della chiesa, il quale deve piangere fino ad avere il volto congestionato, perché Cazael, cioè il diavolo, dà alle fiamme con il fuoco della cupidigia le città, cioè le anime dei fedeli; uccide con la spada della suggestione i giovani, vale a dire distrugge le virtù; sfracella i bambini, distrugge cioè le opere buone ancora ai loro inizi; sventra le donne incinte, distrugge il proposito della buona volontà. E chi non piangerà su così grandi sventure? Ma i falsi profeti non se ne curano, purché abbiano di che depredare. Ben a ragione, dunque, il Signore dice: «Guardatevi», cioè state bene attenti, «dai falsi profeti». Falso deriva dal lat. fallere, ingannare, dire ciò che non è vero. Dicono: pace, pace, pace, ma la pace non c'è (cf. Ger 6,14).
    Leggiamo nel terzo libro dei Re che Acab, re d'Israele, «radunò tutti i profeti e disse loro: Devo andare a fare la guerra contro Ramot di Galaad, oppure devo desistere? E i profeti risposero: Va', perché il Signore lo metterà nelle tue mani» (3Re 22,6). Di quei falsi profeti, il vero profeta del Signore, Michea, dice poco più avanti: «Ecco, il Signore ha posto lo spirito della menzogna nella bocca di tutti i tuoi profeti che stanno qui; invece il Signore preannuncia contro di te una sciagura» (3Re 22,23).
    Acab è figura di colui che ama questo mondo; egli vuole salire a Ramot di Galaad per ribellarsi contro il Signore. Ramot s'interpreta «visione di morte», Galaad «cumulo di testimonianze» (Gn 31,47-48), e stanno a indicare le dignità e le ricchezze di questo mondo, nelle quali invece c'è visione di eterna morte e sono accumulate le testimonianze di condanna eterna contro coloro che le amano. E quando [il mondano] vuol salire alle dignità e accumulare ricchezze, consulta i falsi profeti e domanda loro se deve accingersi all'impresa. Va a chiedere consiglio ai sacerdoti del nostro tempo, i quali gli dicono: «Va' pure!», non è certo peccato possedere ricchezze o conquistare cariche; anche in quello stato si può salvarsi.
    Oh, magari si presentasse Michea, profeta del Signore, a confondere questi negromanti e ventrìloqui e costringerli a confessare di dire il falso, a chiudere la bocca ai mentitori (cf. Sal 62,12) con l'autorità di Gesù Cristo, che dice: «Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. Guai a voi che ora siete sazi; guai a voi che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi» (Lc 6,24-26). Ecco, il Signore dice: «Guai!», e voi, falsi profeti, dite «Vai!» Guardatevi dunque dai falsi profeti. Non prestate loro fede, quando vi dicono di salire a Ramot di Galaad, perché lì saranno guai.
4. «Essi vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci». «Quale intesa ci può essere tra Cristo e Beliar?» (2Cor 6,15). Quale intesa ci può essere tra la pecora e il lupo? È pecora nella veste, ma lupo nell'animo. La giustizia finta non è giustizia, ma doppia ingiustizia (Agostino). I falsi religiosi sono lupi rapaci, ma si presentano in veste di pecora. Abbiamo qualcosa di simile nel terzo libro dei Re, dove si racconta che «Geroboamo disse a sua moglie: àlzati e cambia vestito perché non si sappia che tu sei la moglie di Geroboamo, e va' a Silo dove c'è il profeta Achia. Quando la donna entrò dal profeta fingendo di non essere quella che era, Achia sentì il rumore dei suoi piedi mentre entrava dalla porta, e disse: Entra, moglie di Geroboamo! Perché fingi di essere un'altra?» (3Re 14,2. 5-6).
    Geroboamo s'interpreta «divisione del popolo», ed è figura del falso religioso che, diviso, bipartito in pecora e lupo, provoca sempre divisioni e discordie nel chiostro e nei capitoli. È infatti come un satana tra i figli di Dio (cf. Gb 1,6). Come dice il salmo: È il nemico che vaga nelle tenebre (cf. Sal 90,6).
    Sua moglie è la libidine lupigna; e il lupo vuole che essa cambi il vestito, indossi cioè la pelle della pecora. Ma il profeta del Signore Achia la riconosce e le dice: «Entra», ecc. Achia s'interpreta «esame della vita», e sta a significare la coscienza dell'uomo, la quale sempre protesta e denuncia ogni simulazione. Dice infatti l'Apostolo ai Romani: Il testimonio della loro coscienza e i loro stessi ragionamenti ora li accusano, ora li difendono (cf. Rm 2,15). E Salomone nei Proverbi: «Il malvagio cerca sempre contese; ma gli sarà mandato contro un messaggero senza pietà» (Pro 17,11), cioè la coscienza che rimprovera e rimorde.
    E considera che l'ipocrita, camuffato sotto la pelle di pecora, è come la iena, della quale si raccontano tante cose incredibili. La iena è un animale piccolo e selvatico, che di notte scava tra i sepolcri e si ciba dei corpi dei morti. Imita la voce dell'uomo, va dietro ai pastori nei loro recinti, e ascoltandoli a lungo e attentamente ne impara i richiami e i nomi per poter poi esprimersi imitando la voce umana e infierire di notte contro l'uomo, dopo averlo attirato con uno stratagemma. Contraffà anche il vomito dell'uomo e con rantoli e sforzi attira i cani e quindi li divora. E se i cani, quando ne vanno a caccia, entrano in contatto con la sua ombra mentre la seguono, perdono la voce e non possono più abbaiare. Gli occhi della iena hanno grande varietà e mutevolezza di colori; non attenua mai la forza dello sguardo, ma procede senza batter ciglio contro ciò che ha preso di mira. In bocca non ha gengive: ha un solo dente, che non perde mai, e per non spuntarsi rientra come in un incavo naturale. Se questa iena gira tre volte attorno ad un animale, quest'ultimo non è più in grado di muoversi. A questo proposito il Signore, per bocca di Geremia, dice: «La mia eredità è diventata per me come la caverna della iena» (Ger 12,8).
    Così anche l'ipocrita è un animale, perché vive bestialmente; si fa piccolo con la simulazione, è selvaggio a motivo della nefandezza della sua condotta, poiché nella notte va scavando nei sepolcri della simulazione. Come dice l'Apostolo, s'introduce nelle case delle donne (cf. 2Tm 3,6), con parole melliflue e benedizioni seduce i semplici (cf. Rm 16,18) e così si ciba dei cadaveri dei peccatori. Imita la voce, cioè le lodi degli uomini; entra nei recinti dei pastori, vale a dire nei luoghi dove si predica e, ascoltando attentamente, impara anche lui a predicare: poi, col favore delle tenebre, inganna la gente che con la sua predicazione ha attirato a sé.
    Contraffà anche il vomito dell'uomo, cioè la confessione dei peccatori. Si proclama peccatore, ma è ben lungi dal credersi tale; con falsi singhiozzi e gemiti tenta di farsi ritenere santo dalla gente che lo vede gemere a quel modo. E qualche volta riesce a ingannare anche i giusti, che credono troppo facilmente alla sua finta devozione. Se la sua ombra sfiora qualcuno, questi non è più capace di abbaiargli contro, anzi lo difende. E questo succede soprattutto oggi a coloro che si fidano degli eretici. Costoro non hanno certo prestato ascolto al consiglio del Signore: «Guardatevi dai falsi profeti», ecc.
    Negli occhi dell'ipocrita poi ci sono tanti cambiamenti. Talvolta leva gli occhi al cielo e sospira, talaltra li rivolge alla terra e piange. E il cambiamento del colore: ora è pallido, ora nero; ora ha vesti dimesse, ora ordinate; ora l'astinenza gli va bene, ora non gli va bene. Tutto questo cambiamento di colori è indice dell'instabilità interiore.
    Parimenti ogni animale che la iena, cioè l'eretico o l'ipocrita, ha aggirato tre volte, lo ha cioè ingannato con la parola della predicazione, con l'esempio della sua finta santità e con la profferta di allettanti promesse, resterà immobilizzato nei confronti del bene. «Guardatevi» dunque, ve ne scongiuro, «dai falsi profeti. Li riconoscerete da questi loro frutti». E avverte la Glossa: Si riconoscono soprattutto a motivo della loro insofferenza nel tempo delle avversità. Infatti quando la prosperità arride, sotto la pelle di pecora si nasconde l'animo del lupo. Ma quando spira il vento contrario, allora la pelle di pecora viene lacerata dai denti del lupo.
    «Raccolgono forse uva dalle spine o fichi dai rovi?». Le spine sono chiamate così da pungere, perché sono appuntite come gli aghi (spicae); e i rovi sono detti in lat. tribuli perché fanno tribolare. Le spine e i rovi raffigurano gli eretici e gli ipocriti, nei quali nessuno che sia assennato potrà mai trovare la santità o la verità; essi sanno solo lacerare e ferire coloro che li seguono.
5. «Guardatevi dai falsi profeti». Falsi profeti sono anche gli istinti carnali che, per ingannare l'anima, accampano il pretesto della fragilità e della debolezza della natura, decantano l'abbondanza delle cose terrene, profetizzano la pace e proclamano che grande è la misericordia di Dio: e insinuano tutte queste cose per indurre l'anima al peccato. Di tutte queste cose il giusto, piangendo con le parole di Geremia, dice: «Ah, ah, ah, Signore Dio, i profeti dicono loro: Non vedrete spada e non soffrirete la fame, ma vi concederà una pace perfetta in questo luogo» (Ger 14,13). Quando gli istinti carnali parlano così, non ci resta che gemere e dire: Ah, ah, ah, Signore Dio. E in questo triplice «ah» è simboleggiato un triplice dolore: quello del cuore, quello della bocca e quello del corpo. E dice in proposito il Signore a Ezechiele: «Tu, figlio dell'uomo, profetizza e batti mano contro mano affinché si raddoppi e si triplichi la spada per quelli che dovranno essere uccisi. Questa è la spada del grande massacro che li farà tramortire dallo stupore» (Ez 21,14).
    Quando il giusto sente la voce dei profeti, il fischio di richiamo dei greggi, il sussurro dei desideri carnali, subito deve battere mano contro mano e raddoppiare o triplicare la spada del dolore, con la quale uccidere i falsi profeti e far tramortire le loro brame. Giustamente quindi il Signore dice: «Guardatevi dai falsi profeti!... «.
    Su tutto questo abbiamo una concordanza nel quarto libro dei Re, dove Ieu dice: «Ora convocatemi tutti i profeti di Baal, tutti i suoi servi e tutti i suoi sacerdoti: non ne manchi neppure uno» (4Re 10,19). E quando furono radunati, «Ieu comandò ai soldati e ai suoi comandanti: Entrate e uccideteli; nessuno vi sfugga. Li passarono quindi a fil di spada. Portarono fuori dal tempio la statua di Baal, la frantumarono e la bruciarono. Quindi distrussero anche il tempio di Baal e destinarono il luogo ad immondezzaio, a discarica, fino ad oggi» (4Re 10,25-28). E così Ieu fece scomparire Baal da Israele.
    Ieu s'interpreta «eccitato» o «adirato», ed è figura del giusto il quale deve insorgere, arrabbiarsi con gran furore contro se stesso, quando si sente in preda alla tentazione. Allora deve radunare tutti i profeti di Baal, i suoi servi e i suoi sacerdoti, ecc. Baal, che s'interpreta «divoratore», simboleggia il ventre che tutto divora e i cui profeti sono gli istinti carnali. Questi il giusto li deve radunare tutti insieme e con la spada della penitenza sterminarli.
    «E portarono fuori del tempio la statua». Il tempio è detto in lat. fanum, e deriva da fauno, falsa divinità boschereccia alla quale i pagani nel loro errore costruivano templi; oppure anche perché nel fanum compaiono figure di demoni: infatti la parola greca fanìa significa apparizione; oppure da fando, gerundio del verbo fari, profetizzare. Il tempio di Baal simboleggia la gola, la quale suscita nella mente visioni di pesci e di carni: da questo tempio il giusto deve far uscire la statua, cioè l'idolo della concupiscenza, bruciarlo con la fame e la sete e frantumarla con svariate mortificazioni.
    «Distrussero anche il tempio di Baal». Questo tempio è chiamato qui in lat. aedes, e viene da èdere, mangiare, e sta a indicare l'ingordigia vertiginosa e disordinata nel mangiare, che il giusto deve assolutamente distruggere, e fare al suo posto una latrina. La parola latrina, che è la ritirata o il gabinetto, deriva dal lat. lateo, appartarsi, e simboleggia il fetore del ventre. Quando dobbiamo provvedere al ventre, non per voluttà ma per necessità, pensiamo un po' che siamo una latrina di sterco, che noi, miseri ed infelici, sempre ci portiamo appresso: e meditando su questo dobbiamo solo umiliarci. Dice Michea: «In mezzo a te sarà la tua umiliazione» (Mic 6,14). Il nostro mezzo, il centro, è il ventre, latrina di rifiuti: meditando su questo troviamo certamente motivo di umiliarci. Giustamente quindi è detto: «Guardatevi dai falsi profeti».
6. Da questi profeti implora di essere liberato il giusto, nell'introito della messa di oggi: «Ecco, Dio è il mio aiuto, il Signore è il sostegno della mia anima. Fa' ricadere il male sui miei nemici; nella tua fedeltà disperdili» (Sal 53,6-7), «tu che sei la mia difesa» (Sal 58,12). Il Signore va in soccorso al giusto quando gli concede la grazia di sterminare i profeti di Baal. Lo accoglie quando dal tempio della gola getta fuori la statua della concupiscenza. Ritorce il male sui suoi nemici quando brucia e frantuma quella statua con i digiuni e le veglie. In realtà li disperde quando distrugge completamente il tempio delle cattive abitudini.
    Con questa prima parte del vangelo concorda la prima parte dell'epistola di oggi: «Siamo debitori, ma non verso la carne, per vivere secondo la carne. Poiché se vivrete secondo la carne, voi morirete; se invece, con l'aiuto dello spirito, farete morire le opere della carne, voi vivrete» (Rm 8,12-13).
    Ecco che qui l'Apostolo mostra chiaramente come debbano essere sterminati i falsi profeti di Baal. «Noi siamo debitori - dice - non verso la carne», ma verso lo Spirito Santo che fa vivere; non verso la carne dalla quale viene la morte. Per debito, per obbligo siamo tenuti legati allo Spirito, e non alla carne, per vivere secondo la carne, cioè secondo i piaceri della carne, anche se alla carne siamo costretti a concedere il necessario. Infatti se vivremo secondo la carne, se crederemo ai falsi profeti, moriremo, perché quei lupi rapaci ci dilanieranno. Se invece con l'aiuto dello Spirito faremo morire i profeti di Baal, cioè le opere della carne con la spada della penitenza, se ne avremo bruciata la statua, se avremo distrutto il suo tempio, senza dubbio vivremo: della vita della grazia al presente, e della vita della gloria in futuro.
    A questa gloria si degni di farci giungere colui che vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen.
7. «Ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi. Non può un albero buono produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni sarà tagliato, e sarà gettato nel fuoco. Ecco dunque che dai loro frutti li potrete riconoscere» (Mt 7,17-20). Osserva che nell'albero ci sono queste cinque parti: la radice, il tronco, i rami, le foglie e il frutto. La radice si chiama così perché penetra nella profondità della terra quasi con dei raggi (lat. radix, radiis). I naturalisti infatti dicono che l'altezza degli alberi è pari alla profondità delle loro radici. Il tronco è come la statura dell'albero che si erge sulle radici. I rami sono le propaggini del tronco: su di essi si formano le foglie che proteggono i frutti.
    L'albero buono simboleggia la buona volontà, alla quale, per durare ed essere buona, sono necessarie queste cinque cose: la radice dell'umiltà, il tronco dell'obbedienza, i rami della carità, le foglie della santa predicazione e i frutti, cioè la dolcezza della celeste contemplazione. La radice dell'umiltà, quanto più è profonda nel cuore, tanto più è alta nelle opere. E questo è simboleggiato nell'acqua che, quanto più scende, tanto più sale. L'umiltà dell'ipocrita, non avendo radice nel cuore, vuole apparire grande nelle opere. Invece la vera umiltà, quanto più penetra nel profondo, tanto più si abbassa, e così tanto più in alto viene esaltata.
8. Su questa santa radice dell'albero buono, abbiamo una concordanza nel quarto libro dei Re, dove si racconta che «il re Ezechia disse ad Isaia: Qual è il segno che il Signore mi guarirà, e che il terzo giorno salirò al tempio del Signore? Isaia gli rispose: Da parte del Signore, questo ti sia come segno che il Signore manterrà la promessa che ti ha fatto: Vuoi che l'ombra [della meridiana] avanzi di dieci gradi, o che di dieci gradi retroceda? Ezechia rispose: È facile che l'ombra avanzi di dieci gradi: ma io non voglio questo; voglio invece che retroceda di dieci gradi. Allora Isaia invocò il Signore, e l'ombra tornò indietro di quei dieci gradi che già aveva percorsi sulla meridiana di Acaz» (4Re 20, 8-11). La meridiana di Acaz - nome che s'interpreta «convertito» o anche «che ricorre alla fortezza" - raffigura il cuore del penitente il quale, convertitosi dalla sua vita di peccato, ricorre alla fortezza della perseveranza per conquistare il premio della gloria. E in questa meridiana vi sono e vi devono essere dieci gradi di umiltà, per i quali il sole, cioè l'anima illuminata dalla grazia di Dio, deve avanzare e quindi nuovamente tornare indietro.
    Il primo grado di umiltà consiste nel considerare dentro di sé da quale misera e nauseante materia si è procreati.
    Il secondo grado consiste nel considerare che per nove mesi si resta rinchiusi nel grembo materno e si è nutriti con sangue mestruo.
    E su queste due realtà troverai più ampie considerazioni nel sermone della domenica di Quinquagesima, dove viene commentato il brano evangelico di Luca: «Un cieco sedeva lungo la via» (Lc 18,35).
    Il terzo grado consiste nel considerare come dalle tenebre del grembo materno si esca piangendo e strillando, nudi e sudici.
    Per questi tre gradi era disceso Giobbe, quando diceva: «Chi potrà rendere puro chi è stato concepito da seme impuro?» (Gb 14,4). E ancora: «Perché non sono morto fin dal grembo di mia madre, e non spirai appena uscito dal suo ventre? Perché sono stato accolto sulle ginocchia? Perché due mammelle mi hanno allattato?» (Gb 3,11-12). E Geremia: «Perché mai sono uscito dal grembo materno per vedere fatiche e dolori e per finire i miei giorni nella vergogna?» (Ger 20,18).
    Il quarto grado consiste nel considerare quanto miseranda e ingrata sia la peregrinazione di questo esilio, durante la quale ci sono soltanto gemiti e dolore, difficoltà e pianto. Dice infatti Giacobbe: «I giorni della mia vita sono stati pochi e tristi» (Gn 47,9).
    Il quinto grado consiste nel ricordo della propria iniquità, dei tanti peccati commessi e delle tante omissioni, e quanto si è stati ingrati nei confronti di Dio: si era liberi, e ci si è venduti gratis al diavolo. Su questo grado leggiamo nel quarto libro dei Re che Ezechia voltò il viso verso la parete, pregò il Signore e proruppe in un pianto dirotto (cf. 4Re 20,2-3). La parete è figura della quantità dei peccati ai quali il peccatore deve volgersi, ripensare, nell'amarezza della sua anima, a tutti i peccati che ha commesso e a tutti i doveri ai quali è venuto meno, e pregare il Signore perché gli infonda nuovamente la grazia perduta e gli perdoni i peccati.
    Il sesto grado consiste nel pensiero della morte, pensiero più amaro di ogni altra amarezza. Dice il libro dell'Ecclesiastico: «O morte, quanto è amaro il tuo pensiero per l'uomo che vive tranquillo nella sua agiatezza» (Eccli 41,1). Se non si pentirà, la sua carne sarà data ai vermi, la sua anima ai demoni; le sue sostanze dovrà lasciarle ai figli e ai parenti. Dice infatti il salmo: «Scenderanno nel profondo della terra», cioè nell'inferno, ecco l'anima data ai demoni; «saranno dati in potere della spada», cioè della morte, ecco la carne data ai vermi; «diverranno preda delle volpi» (Sal 62,10-11), ecco le sostanze lasciate ai parenti i quali, astuti come le volpi, si getteranno sulla pelle dell'asino defunto.
    Il settimo grado di umiltà consiste nel richiamare alla mente come il Figlio di Dio piegò il capo della sua divinità nel grembo della Vergine poverella; come colui che riempie di sé il cielo e la terra, e che il cielo e la terra non possono contenere, si rimpicciolì nel talamo di una fanciulla, nel quale dimorò per nove mesi; come fu avvolto in panni, fu adagiato in una mangiatoia di animali (cf. Lc 2,7), fu portato in Egitto per sfuggire alla persecuzione di Erode; come il padrone di tutto il mondo fu dal mondo scacciato, e come in tutto il mondo non poté trovare un posto dove reclinare il capo, se non sulla croce dove, piegato il capo nel grembo del Padre, nelle sue mani consegnò il suo spirito (cf. Lc 23,46; Gv 19,30).
    L'ottavo grado consiste nel considerare quanta misericordia e quanta benevolenza usò Gesù verso i peccatori, che attirava a sé con la dolcezza della sua predicazione, e con i quali anche prendeva il cibo per richiamarli alla penitenza; e quanta compassione provò colui che pianse amaramente sulla città nella quale doveva venir crocifisso, e su Lazzaro che avrebbe poi risuscitato; e quanta benignità ebbe nel cuore da voler parlare da solo con la samaritana e da permettere che la Maddalena lo toccasse.
    Il nono grado consiste nel considerare come fu percosso con le verghe, colpito con schiaffi, coperto di sputi, coronato con una corona di spine, abbeverato con fiele e aceto e crocifisso tra due ladroni, come fosse stato un ladrone anche lui.
    Il decimo grado, infine, consiste nel meditare a fondo come suonerà la tromba e i morti «che dormono nella polvere della terra», come dice Daniele, «si risveglieranno, alcuni per la vita eterna e altri per l'eterna vergogna, per constatare» (Dn 12,2) come colui che era benigno diventerà severo, colui era stato giudicato verrà per giudicare il mondo nella giustizia, egli che era Figlio della Vergine industriosa (Girolamo: Virginis quaestuariae); come «ad un suo cenno si scuoteranno le colonne del cielo» (Gb 26,11), «le potenze dei cieli saranno sconvolte» (Mt 24,29), «i cieli si arrotoleranno come un libro» (Is 34,4), e «il sole si cambierà in tenebre e la luna in sangue» (Gl 2,31; cf. At 2,20), e gli uomini fuori di sé fuggiranno e diranno ai monti: Cadete su di noi; e ai colli: Nascondeteci dalla faccia di colui che siede sul trono (cf. Os 10,8 ; Ap 6,16).
    Per questi dieci gradi (scalini) l'anima del penitente deve salire e scendere; quanto più scenderà, tanto più risalirà. E questo sarà veramente il segno che il Signore la guarirà da ogni infermità di peccato e che potrà salire al tempio della celeste Gerusalemme, costruito con pietre vive. Beato, dunque, quell'albero che avrà tale radice, perché è dalla radice che germogliano i frutti dell'albero. Per questo abbiamo trattato a lungo della radice, nella quale è simboleggiata l'umiltà: da essa nasce l'albero della buona volontà e l'uomo raccoglie il frutto della vita eterna. Giustamente dunque ha detto il Signore: «L'albero buono produce frutti buoni».
9. «L'albero cattivo invece produce frutti cattivi». Cattivo si dice in lat. malus, e deriva dal greco mélan, colore nero, o fiele nero. Per questo gli uomini che rifuggono l'umana compagnia sono chiamati melanconici: in essi è abbondante il fiele nero.
    L'albero cattivo raffigura la cattiva volontà: la sua radice è la cupidigia, il suo tronco l'ostinazione, i rami sono le opere cattive, le foglie sono le parole maligne e i frutti la morte eterna. E di tale albero il Signore soggiunge: «Ogni albero che non produce frutti buoni sarà tagliato e gettato nel fuoco». Per questo leggiamo in Daniele che «un vigilante, un santo scese dal cielo, gridò ad alta voce e disse: Tagliate l'albero e stroncate i suoi rami; scuotete le foglie e disperdetene i frutti; fuggano le bestie che stanno sotto di esso e gli uccelli che sono tra i suoi rami» (Dn 4,10-11).
    L'albero viene tagliato quando il peccatore, tagliato dalla scure della morte, cade e ritorna alla terra. E allora i rami delle ricchezze e i successi di questo mondo vengono stroncati e le leggere foglie delle parole scrollate via. Ormai cessano le parole, perché si è arrivati alle percosse (Iam cessant verba, quia ventum est ad verbera).
    E i frutti, cioè le sue opere cattive, saranno dispersi, perché le porte del corpo, attraverso le quali quell'anima sventurata era solita uscire per vedere le donne di quella regione (cf. Gn 34,1), ormai vengono chiuse. E le bestie, il cui nome suona come vastiae, devastatrici, cioè i predoni e gli omicidi che erano abituati a ripararsi sotto la sua ombra, morto lui, fuggono. E gli uccelli, cioè i superbi che erano soliti starsene tra i suoi rami, tutti fuggono. Giustamente quindi dice il Signore: «Ogni albero che non porta frutti buoni sarà tagliato e sarà gettato nel fuoco, che è preparato per il diavolo e per i suoi angeli» (Mt 7,19; 25,41).
    Dice in proposito Isaia: «Da ieri è preparato il Tofet; è preparato dal re: profondo e largo. Suo alimento è il fuoco e tanta legna: il soffio del Signore lo incendierà come un torrente di zolfo» (Is 30,33). Il Tofet, che significa «larghezza», raffigura l'inferno, che ha aumentato la sua capienza oltre ogni limite; è stato preparato da ieri, cioè dall'eternità, dal re Gesù Cristo, al quale tutto il passato è presente, e per il quale ciò che ha fatto dall'eternità è ciò che è per noi il nostro ieri. Questo inferno è detto profondo e largo: profondo perché sempre lontano dal toccare il fondo, cioè senza una fine delle pene; largo per ricevere e contenere tutte le anime dei dannati. E si chiama inferno perché le anime vi vengono gettate dentro (lat. inferuntur); il suo alimento è costituito da moltissima legna, cioè dalle anime dei peccatori; il soffio del Signore, cioè la sua ira, come un torrente di zolfo che arde e ammorba, lo accenderà. Chi arde in questo mondo del fuoco dell'avarizia ed è contagiato dal fetore della lussuria, brucerà eternamente laggiù.
10. Con questa seconda parte del vangelo concorda la seconda parte dell'epistola: «Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!» (Rm 8,14-15).
    Lo spirito di Dio è l'umiltà, e quelli che sono guidati, cioè animati, dall'umiltà, sono veramente «albero buono», perché sono figli di Dio. Come la radice sostiene e alimenta l'albero, così l'umiltà sostiene e alimenta l'anima. Lo spirito di umiltà è dolce più del miele, e chi è alimentato dal miele produce frutti dolci.
    «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi», che vi costringa di nuovo, come nel tempo della Legge, a servire Dio forzatamente, per timore del castigo. L'albero cattivo riceve non lo spirito di adozione, con i figli, ma quello della schiavitù, con gli schiavi, i quali non restano per sempre nella casa (cf. Gv 8,35), ma saranno tagliati e gettati nel fuoco inestinguibile.
    Si ha l'adozione quando viene adottato qualcuno al posto di un figlio. Perciò il figlio adottivo, accolto cioè al posto del figlio (vero) Gesù Cristo - che sempre sia benedetto -, da un albero sterile, dopo avervi innestato il germoglio della fede, ottenne un albero buono e fruttifero; e dei figli dell'ira fa ogni giorno figli della grazia, perché con la contrizione del cuore e la confessione della bocca gridino ogni giorno: «Abbà, Padre». Abbà è un termine siriaco ed ebraico, che in lat. significa Pater, Padre. E questo doppio nome di paternità sta ad indicare la duplice misericordia della benevolenza paterna. Infatti il penitente, accolto al posto del figlio, è autorizzato a sperare sia nella remissione dei peccati che nella beatitudine della gloria.
    Ti preghiamo dunque, Abbà, Padre, di renderci alberi buoni, di farci produrre frutti degni di penitenza, affinché radicati e fondati nella radice dell'umiltà e liberati dal fuoco eterno, meritiamo di poter cogliere il frutto dell'eterna vita. Accordacelo tu che sei benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
11. «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, entrerà nel regno dei cieli» (Mt 7,21).
    Il Signore ha questo nome, in lat. Dominus, perché signoreggia, o domina su tutte le creature; o perché sta a capo della casa (in lat. domus, casa); o può voler dire anche dans minas, che dà (fa) minacce. La Glossa commenta così questo passo del vangelo: «Il cammino verso il regno di Dio consiste nell'obbedienza, e non nell'invocazione del suo nome; e neppure lo si invoca con sincerità e convinzione, quando la proclamazione del nome non concorda con la volontà; e infatti dice l'Apostolo: «Nessuno può dire: Signore Gesù, se non sotto l'azione dello Spirito Santo» (1Cor 12,3). Dire con sincerità: «Signore Gesù», significa credere con il cuore, confessarlo con la bocca e testimoniarlo con le opere. Una cosa senza l'altra equivale a negare; infatti, per quante lodi faccia risuonare la lingua, la vita poi lo bestemmia. Gridano «Signore» coloro che non sono suoi servi, coloro che non temono le sue minacce.
    Dice infatti il Signore stesso con le parole di Isaia: «Mi grida da Seir: Custode, quanto resta della notte? Custode, quanto resta della notte? Risponde il custode: Viene il mattino e poi verrà la notte; se volete cercare, cercate; convertitevi e venite!» (Is 21,11-12). Seir s'interpreta «ispido», ed è figura del peccatore, oppresso dalle spine delle ricchezze e delle preoccupazioni. Perciò la Genesi dice che Esaù si stabilì nella terra di Seir, della regione di Edom (cf. Gn 36,8) E osserva che Esaù fu chiamato Seir e Edom: Seir perché peloso, Edom a motivo delle lenticchie rosse per le quali aveva venduto la primogenitura (cf. Gn 25,29). Esaù vuol dire anche «mucchio di pietre», e Edom «sangue». Dove c'è un mucchio di pietre, cioè di ricchezze, lì ci sono anche le spine pungenti delle preoccupazioni e spargimento di sangue. Il peccatore dunque grida: «Custode, quanto resta della notte?». Ecco qui «la ruota in mezzo ad un'altra ruota» (Ez 1,16; 10,10).
    Nel vangelo di Matteo è detto due volte «Signore», e in Isaia due volte «Custode», per indicare che colui che è il Signore, è necessario che sia anche il Custode, per custodire perfettamente la casa della quale è a capo. Questo duplice nome di Signore comprende in sé il creatore e il giudice, e tra questi due estremi viene posto il centro, cioè il custode. Gesù Cristo nella creazione delle cose fu Signore, e sarà Signore anche nell'esame del severo giudizio perché sarà giudice e renderà a ciascuno ciò che è giusto. Però tra questi due momenti fu custode nella notte: il Signore assunse la condizione di servo per custodire i servi. Infatti leggiamo nel vangelo di Luca che «passava la notte in orazione» (Lc 6,12). Il custode della notte passava la notte in orazione, non per sé ma per la sua creatura, che era venuto a liberare.
    Fu ancora custode della notte nella sua passione. Leggiamo sempre nel vangelo di Luca: «Gesù si allontanò da loro quanto il tiro di un sasso, e inginocchiatosi pregava» (Lc 22,41). Solo pregava per tutti, perché solo, per tutti avrebbe sofferto. Dice anche Ambrogio: «Patì per me, egli che in sé non aveva nulla per cui dovesse patire». Si inginocchia per mostrare, con la posizione del corpo, l'umiltà dello spirito. Allora fu veramente umile e misericordioso, ma ritornerà severo e inesorabile per fare della terra un deserto e distruggere da essa i malvagi.
12. E di questi malvagi egli si lamenta con le parole del profeta Osea: «Si sono rimpinzati, si sono saziati, il loro cuore si è inorgoglito e si sono dimenticati di me. Perciò sarò per loro come una leonessa, come un leopardo sulla via degli Assiri. Li assalirò come un'orsa cui sono stati rapiti i piccoli; dilanierò le loro interiora fino al fegato e come un leone li sbranerò. La belva del campo li dilanierà. Viene da te la tua rovina, o Israele: solo da me ti potrà venire l'aiuto» (Os 13,6-9). Osserva che in questo passo sono poste in evidenza otto cose, e cioè quattro vizi e i loro quattro corrispondenti castighi: «si sono riempiti», ecco le ricchezze e l'avarizia; «si sono saziati», ecco la gola; «il loro cuore si è inorgoglito», ecco la superbia e la vanagloria; «si sono dimenticati di me», ecco la lussuria.
    Dice infatti Ezechiele: «Poiché mi hai dimenticato e mi hai gettato dietro al tuo corpo, anche tu porterai le tue scelleratezze e le tue fornicazioni» (Ez 23,35). Getta il Signore dietro al suo corpo colui che, dimentico dell'amara sua passione, si abbandona ai piaceri del corpo e per amore del suo corpo diventa schiavo della gola e del ventre. «Perciò» - dice il Signore - «sarò come una leonessa» contro quelli che si sono rimpinzati; «come un leopardo nella via degli Assiri, assalirò» quelli che si sono saziati; «come un'orsa cui sono stati rapiti i piccoli dilanierò fino al fegato le interiora» dei superbi, che si sono inorgogliti nel loro cuore. Amiamo con il fegato: in esso è simboleggiato l'amore alle cose terrene, e il Signore dilanierà le interiora di chi le ama. «E come un leone consumerò» i lussuriosi, «e la belva del campo», che è il diavolo, «li strazierà con la spada della morte eterna, e così avranno come torturatore nella loro sofferenza colui che hanno ascoltato come istigatore nella colpa.
    «La tua rovina viene da te stesso, o Israele», come dicesse: Se sei andato in rovina, la colpa è tua. Ma il soccorso non ti potrà venire da nessun altro che da me, che custodisco Israele. Giustamente dunque è detto: «Custode, quanto resta della notte? Custode, quanto resta della notte?». «E il custode risponde: Viene il mattino e poi verrà la notte. Se volete cercare, cercate. Convertitevi e venite».
    Custode deriva da cura; mattino, in lat. mane, dall'aggettivo manus, buono, perché gli antichi chiamavano la mano «un bene»; infatti che cosa c'è di meglio della luce (del mattino, mane)? Il Signore, nostro custode, che ha cura di noi (cf. 1Pt 5,7), a coloro che gridano: «Signore, Signore!», dice: «Viene il mattino», cioè la luce della grazia; camminate dunque finché è giorno, perché arriverà la notte nella quale non potrete più far niente. Se un albero, dice Salomone, cade rivolto a mezzogiorno, cioè alla vita, o se cade rivolto a settentrione, vale a dire alla morte, resta dove è caduto (cf. Eccle 11,3). Lavora dunque assiduamente finché è giorno, o peccatore, perché non c'è né azione né ragione in quell'inferno verso il quale ti stai affrettando, anzi ti stai lanciando con i tuoi peccati.
    Se dunque vi proponete di cercare, cercate finché è giorno. E se cercate, che cosa vuol dire cercare? «Convertitevi - risponde - e venite». Ecco come si cerca Dio e come lo si trova. Il Signore non si deve cercarlo gridando «Signore, Signore!», perché egli cerca adoratori che lo adorino in spirito e verità (cf. Gv 4,23-24), cioè nello spirito della contrizione e nella verità della confessione.
13. In questo modo cercò il Signore il santo re di Giuda, Giosia. Concorda con quanto è stato detto finora ciò che si racconta di lui nel quarto libro dei Re, dove si dice che quando ebbe udite le parole della Legge del Signore, Giosia si lacerò le vesti; concluse un'alleanza con il Signore, impegnandosi a seguire il Signore con tutto il cuore e con tutta l'anima; gettò poi fuori dal tempio del Signore tutti i vasi fatti in onore di Baal, e li bruciò fuori di Gerusalemme nella valle del Cedron. Diede alle fiamme i carri del sole; fece scomparire anche i negromanti, gli indovini, le immagini degli idoli e tutti gli abomini e le immondezze, e celebrò la Pasqua del Signore (cf. 4Re 22,11; 23, 3. 4. 11. 24).
    Giosia s'interpreta «in lui è il sacrificio», e raffigura il penitente nel quale «è il sacrificio a Dio», che è il suo spirito addolorato e pentito (cf. Sal 50,19). Il penitente, quando sente annunciare la gloria eterna dei giusti e il castigo dei peccatori che mai non finirà, si lacera le vesti, vale a dire castiga le sue membra che sono come le vesti dell'anima, e stabilisce un patto con il Signore: il Signore gli perdoni le sue colpe ed egli in futuro non tornerà mai più a commetterle.
    E dal tempio del Signore, cioè dal suo cuore nel quale dimora il Signore, toglie tutti i vasi che erano stati fatti in onore di Baal, tutti i cedimenti alla gola con i quali serviva al dio Baal, cioè al suo ventre, e li brucia nella valle del Cedron, che s'interpreta «tristezza e dolore»: li brucia cioè nell'umiltà del dispiacere e del pentimento. E con il fuoco della penitenza dà alle fiamme anche i carri del sole, cioè i cinque sensi del corpo che sulle loro quattro ruote, vale a dire tra i piaceri delle cose temporali che si estendono a tutte le quattro stagioni, scorrazzano nel sole, cioè nella luce della gloria passeggera. E caccia fuori i negromanti, cioè lo spirito di avarizia, e gli indovini, gli incantatori e i ciarlatani, chiamati in lat. arioli, in quanto gridano preghiere infami attorno agli altari (lat. ara), e nei quali sono raffigurati gli ipocriti; getta fuori inoltre le immagini degli idoli, cioè le fantasie impure, i cattivi pensieri, le fornicazioni e le parole sconce.
    Ripulito da tutte queste brutture, il peccatore celebra al Signore «la pasqua», che vuol dire «passaggio» (cf. Es 12,11), perché passa dai vizi alle virtù per convertirsi e seguire il Signore, non dicendo «Signore, Signore!», ma facendo la volontà del Padre, per meritare così di entrare, alla fine della vita, nel suo regno.
14. Con questa terza parte del vangelo concorda anche la terza parte dell'epistola: «Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8, 16-17).
    Se dopo esserci convertiti, seguiremo il Signore purificando il tempio da ogni bruttura, allora potremo veramente riconoscere che lo Spirito di Dio dà al nostro spirito testimonianza di una fondata speranza e attesta che siamo figli di Dio, che fanno la volontà del Padre che è nei cieli. E se siamo figli, siamo anche eredi, cioè partecipi della stessa gloria: eredi di Dio, il quale ci ha costituiti eredi dell'eredità eterna con il testamento convalidato dal sangue e dalla morte del Figlio suo; e del suo Figlio siamo coeredi, perché egli è carne e fratello nostro (cf. Gn 37,27) a motivo della compartecipazione alla nostra natura, ch'egli ha esaltata al di sopra degli angeli, perché noi fossimo partecipi della sua vita divina, e quindi coeredi.
    Fratelli carissimi, preghiamo dunque il Padre onnipotente che ci conceda di compiere la sua volontà, di purificare il tempio del nostro cuore da ogni sozzura, di celebrare la vera pasqua, cioè il vero passaggio, per poter giungere all'eredità eterna che egli ci ha promesso per mezzo del nostro coerede Gesù Cristo, suo diletto Figlio.
    Ce lo conceda egli stesso, che con il suo amatissimo Figlio e con lo Spirito Santo è Dio, Uno ed eterno, e vive e regna nei secoli eterni. E tutta la chiesa risponda: Amen. Alleluia!